Il Governo taglia il cuneo fiscale, l’inflazione gli stipendi: ai dipendenti 15 euro al mese in più

Secondo i dati ISTAT, nel primo trimestre la corsa dei prezzi ha superato di 7 punti percentuali l’aumento delle retribuzioni: cattive notizie per i dipendenti a cui è destinato l’intervento del Governo. Colpa di un’inadeguata indicizzazione degli stipendi e dei 32 CCNL in attesa di rinnovo

Taglio del cuneo fiscale contro inflazione, restano gli spiccioli: due mani reggono banconote spiegazzate

L’inflazione in Italia, a marzo, è stata del 7,6%, e il taglio del cuneo fiscale che il Governo approverà nel Consiglio dei ministri del Primo maggio non riuscirà in alcun modo a compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari italiani causata dall’aumento dei prezzi.

La conferma arriva dall’ISTAT, che nella stima flash sui contratti collettivi e le retribuzioni contrattuali tra gennaio e marzo spiega come “nella media del primo trimestre, nonostante il progressivo rallentamento della crescita dei prezzi, la differenza tra la dinamica dell’inflazione (IPCA) e quella delle retribuzioni contrattuali rimane superiore ai sette punti percentuali”.

La retribuzione oraria media nel periodo gennaio-marzo 2023 è cresciuta infatti del 2,2% rispetto allo stesso periodo del 2022, e l’aumento tendenziale a marzo di quest’anno “è stato dell’1,4% per i dipendenti dell’industria, dello 0,9% per quelli dei servizi privati e del 4,9% per i lavoratori della pubblica amministrazione”.

Non chiamatela “mancetta”, anche se sono 15 euro al mese

In questo quadro, l’ulteriore riduzione del cuneo fiscale per un valore complessivo di 3,4 miliardi previsto dal Decreto Lavoro risulterà del tutto insufficiente a compensare il basso incremento dei salari.

Qualcuno ha parlato di “mancetta”, suscitando la reazione stupita del sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, che ci ha tenuto a sottolineare come questa sia una misura con la quale “il Governo cerca di dare respiro agli stipendi e ai salari più bassi. Mi meraviglio si parli di mancette”.

Al di là della suscettibilità individuale, parlano però i numeri: l’intervento sul cuneo fiscale lascerà nelle tasche dei lavoratori con redditi bassi solo 15 euro in più al mese, in media. Un intervento che cambierà pochissimo, dunque, per gli oltre 10 milioni di dipendenti che – secondo le ultime dichiarazioni dei redditi – guadagnano meno di 20.000 euro lordi l’anno.

All’origine del problema: i CCNL non rinnovati

Ma come si spiega un così modesto incremento salariale, soprattutto a fronte dell’impennata del costo della vita?

La risposta è da ricercarsi in una inadeguata indicizzazione degli stipendi e nel gran numero di Contratti nazionali scaduti ancora in attesa di rinnovo. La “modesta dinamica retributiva osservata nel comparto industriale“, spiega l’ISTAT, “si associa alla limitata entità degli incrementi fissati dai rinnovi siglati tra il 2020 e 2021 (quando le aspettative inflazionistiche erano ancora molto contenute). Nel settore dei servizi la più contenuta crescita salariale è anche legata al fatto che più della metà dei dipendenti è in attesa del rinnovo del CCNL”; rinnovi che sono l’occasione per rinegoziare gli aumenti salariali a livello collettivo.

E i contratti nazionali in attesa di essere rinnovati a fine marzo 2023 sono 32, con circa 6,9 milioni di dipendenti coinvolti, il 55,6% del totale. Alla fine di marzo, i 41 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 44,4% dei dipendenti – circa 5,5 milioni – e corrispondono al 43,8% del monte retributivo complessivo. Nel corso del primo trimestre 2023 sono stati recepiti i CCNL di autorimesse e autonoleggio, servizi socioassistenziali, gomma e materie plastiche, vetro, FIAT, lavanderie industriali. Il resto dei lavoratori dovrà aspettare. Ancora.

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