Intervistiamo la dottoressa Alessia Amighini, studiosa dell’ISPI e ospite di Nobìlita: “Con questo conflitto il rischio è che la Russia scivoli nelle braccia della Cina. E gli effetti della guerra ricadono su Paesi e ceti più poveri”.
La guerra un anno dopo l’inverno: in Ucraina fioriscono le mine
La situazione del conflitto ucraino a un anno dalla guerra: il reportage fotografico di SenzaFiltro dal fronte e lo stato dei contendenti
“Mi hanno legato, e poi spinto dentro un’auto. Si è fermata in periferia, dalle parti dell’aeroporto. C’erano dei cadaveri a terra. Uomini. Gli avevano sparato in testa. Mi hanno chiesto se volevo unirmi a loro”.
Igor veste in modo elegante, quasi ricercato. Ex giornalista, cinquant’anni, appartenente a movimenti nazionalisti ucraini, è stato arrestato e torturato a lungo durante l’occupazione russa di Kherson. “Ho dichiarato che avrei collaborato. Ero pronto a quel momento, sapevo che mi stavano cercando. Avevo costruito, nella mia mente, una storia credibile, fatta di molte verità e alcune omissioni. Solo quelle strettamente necessarie. Ho resistito, giorno dopo giorno. Mi hanno creduto, sono sopravvissuto. Ho vinto io”.
La guerra è una matrioska: ne contiene milioni, in fondo ogni individuo combatte la sua. Per la messe di disperati che si accalca in lunghe code nervose davanti ai centri di distribuzione viveri improvvisati di Kherson, la vittoria consiste nel portare a casa la razione quotidiana di aiuti alimentari, un pezzo di pane e una scatoletta di carne al giorno, e restare vivi.
Man mano che le esplosioni si susseguono la folla ondeggia, preme, una giovane donna tenta inutilmente di chiudere la porta d’accesso ai magazzini, qualcuno grida, chi stringe tra le mani il suo pacco si allontana in fretta lungo i viali deserti. Qualcuno ha il volto coperto, altri lo coprono con una mano quando notano la macchina fotografica. Perché i russi se ne sono andati, è vero, e ora sono sulla sponda sud del Dnipro, ma a scommettere che non torneranno sono in pochi, e anche accettare un pezzo di pane e una scatola di carne può costarti caro.
A governare sui territori liberati è l’incertezza: chi ha vissuto il terrore degli arresti, delle camere di tortura, non lo dimentica in fretta. È un silenzio pieno di interrogativi, quello che invade le strade di Kherson tra un’esplosione e l’altra. Uno su tutti: dove sono finite le migliaia di persone scomparse di cui, ancora oggi, non si conosce il destino?
I conti in tasca alla guerra in Ucraina: le munizioni sono quasi finite
È una guerra antica, questa. Fatta di buchi nella terra e di cantine, di sangue e fango, mine antiuomo e trappole esplosive e trentamila proiettili d’artiglieria al giorno che si rovesciano sulle case, sui viali, sulla gente. Fatta di masse d’uomini gettate all’assalto in campo aperto, un’ondata dopo l’altra, falciate dal fuoco delle mitragliatrici, dilaniate dai mortai. Antica al punto d’aver messo in crisi i comandi militari occidentali, cresciuti nelle guerre asimmetriche, formati alle tattiche della controguerriglia, alla paradossale teoria della conquista dei cuori e delle menti armi in pugno, sempre contando su una indiscussa supremazia tecnologica – che pure gli è valsa disastrose sconfitte – e sull’assoluta certezza che il nemico non disponesse di altrettanti mezzi, materiali, risorse.
E invece: a un anno dall’escalation di questo conflitto, colpevolmente ignorato per quasi un decennio, la sorpresa è che di nuovo l’aritmetica della guerra torna a essere quella dei numeri, della capacità produttiva, della quantità di proiettili che l’industria, pronta a essere riconvertita alle esigenze della guerra totale, sarà in grado di fornire per il fronte aperto e per quello, sempre meno ipotetico, allargato ai Paesi confinanti, forse all’Europa.
Le dichiarazioni di Stoltenberg, segretario generale della Nato, lasciano poco spazio ai dubbi: “L’attuale tasso di utilizzazione di munizioni da parte dell’Ucraina è di molte volte superiore al nostro livello di produzione, ciò che mette a dura prova le nostre industrie della difesa”.
Gli arsenali sono quasi vuoti. E vanno riempiti in fretta, perché nessuno ha un’idea precisa di come può evolvere una guerra di quest’ampiezza, di questa intensità. Al momento, in dodici mesi l’Ucraina ha ricevuto armamenti e munizioni per un valore di circa 29 miliardi di dollari dai soli Stati Uniti.
L’Europa, più direttamente coinvolta nel conflitto per una serie di evidenti ragioni, anche geografiche, e più preoccupata per la propria sicurezza, tenta sporadicamente di mettere sul tavolo qualche dubbio, di frenare la corsa al massacro. Ma il vincolo militare con la NATO concede margini di manovra irrisori, e ora si affanna, tra mille difficoltà, per consegnare i vetusti carri armati Leopard 1 e qualche esemplare di Leopard 2 entro aprile. I Leopard 1 avranno bisogno d’esser rabberciati prima di raggiungere le zone operative, dove andranno probabilmente ad aggiungersi alle migliaia di tank e blindati mandati a schiantarsi su un fronte che diventa, di ora in ora, più indecifrabile.
Il Generale Inverno non piega gli ucraini: il fallimento degli attacchi a energia e riscaldamento
Al momento in cui scrivo lo Stato Maggiore della difesa ucraino comunica che l’esercito ha respinto attacchi russi a Hryanykivka e Synkivka nella regione di Kharkiv; Stelmakhivka, Chervonopopivka e Kreminna della regione di Luhansk e Vyyimka, Fedorivka, Dubovo-Vasylivka, Rozdolivka, Paraskoviyivka, Berkhivka, Bakhmut, Ivanivske, Chasiv Yar, Vesele, Vodyane, Maryinka, Pobyeda, Novomykhaylivka e Vuhledar della regione di Donetsk.
Per i civili che ancora vivono in queste aree la situazione è difficilissima, ma il metodo applicato dai russi in Siria, quello di piegare il nemico distruggendo la sua capacità energetica, qui non ha funzionato. Le interruzioni di corrente programmate, per sopperire al calo di produttività dovuto al danneggiamento o alla distruzione delle centrali elettriche e delle linee di distribuzione, diventano paradossalmente più prolungate man mano che ti allontani dalla linea del fronte.
Nelle città più colpite, più coinvolte nel conflitto, la corrente elettrica è in genere garantita dal lavoro costante, minuzioso e pericolosissimo degli operai specializzati, che indossano giubbotti antiproiettile ed elmetti balistici e ripristinano le linee anche sotto fuoco, in modo da alleviare la sofferenza della popolazione più esposta. Quando non è possibile, l’ampia disponibilità di generatori, inviati da tutta Europa e distribuiti capillarmente nel Paese, rende affrontabile il problema, con qualche inevitabile eccezione e sporadica emergenza, come quando a essere distrutti dai bombardamenti sono i generatori degli ospedali.
Lo stesso può dirsi per il riscaldamento. Nei centri di accoglienza che ancora operano in città particolarmente martoriate, come Bakhmut, e più in generale nelle abitazioni, nelle cantine, nei rifugi, sono stati praticati dei fori alle pareti in modo da poter installare delle canne fumarie d’emergenza. Stufe a legna d’acciaio, molto economiche, di fattura elementare, ma robuste ed efficaci, provenienti dall’estero in qualche caso ma per la maggior parte prodotte in Ucraina, vengono consegnate direttamente dalla Croce Rossa e da altre organizzazioni umanitarie alla popolazione e ai centri d’accoglienza.
Le mine, semenza della guerra
Non è il freddo, a mietere vittime tra la popolazione civile in questo lugubre inverno. Sono le mine.
Herena, trent’anni, a metà gennaio ha deciso di tornare a Posad-Pokrovske, cittadina liberata nell’Oblast di Kherson. Ma ogni aiuola, ogni strada, ogni edificio è stato minato dai soldati russi, costretti a ritirarsi dalla furiosa e disperata controffensiva ucraina. In qualche caso, qui come in altri centri negli oblast di Kherson, Dnipro, Donetsk, sono state minate anche le cantine, in modo che i pochi abitanti rimasti non potessero più usarle per proteggersi dal tiro incrociato che ha spazzato via interi villaggi.
Per entrare in quel che resta della sua casa, Herena deve attendere l’intervento degli artificieri: ogni volta che individuano una mina o un uxo – un ordigno inesploso – piazzano una carica e lo fanno saltare. Chi vi si avventura da solo, spesso muore. Quel che è peggio è che la posa di mine, e ovviamente la dispersione di uxo in zone molto ampie del Paese, compresi campi destinati all’agricoltura e all’allevamento, è tutt’ora in corso, e durerà fino a quando durerà questa guerra, rendendo di fatto impossibile, nel breve termine, una ripresa delle attività produttive nelle zone più colpite, quand’anche si arrivasse a un cessate il fuoco.
Foto in copertina di Ugo Lucio Borga, postproduzione di Anaïs Foretier
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