I dettagli dell’accordo sullo smart working siglato tra Italgas e sindacati, il ritardo della politica: come verrà inquadrato il lavoro agile nel settore pubblico e in quello privato? Il sociologo Domenico De Masi a SenzaFiltro: “La pandemia ha prodotto un cambiamento reale nella cultura del lavoro, ma la PA ha perso terreno”.
Il lavoro agile può salvare le città
Chi ha detto che lo smart working danneggia gli esercenti? Semmai è vero il contrario: se fosse il lavoro agile a risanare i centri urbani. Ecco come.
Dello smart working si stanno trascurando alcuni aspetti, mentre si insiste con molteplici equivoci. Partendo da questi, una critica diffusa è che il lavoro agile nuocerebbe all’economia dei commercianti delle città, in particolare agli esercizi della ristorazione specializzati nelle pause pranzo, convenzionati con le aziende dei buoni pasto. Si confonde, forse un po’ pelosamente, l’home working – un modo in parte nuovo di intendere il “vecchio” telelavoro – con lo smart working.
Sarebbe opportuno chiarire le tre differenti categorie in gioco:
- il telelavoro: è solo e soltanto il lavoro (esclusivamente connesso ad attività compatibili) svolto a casa, come se si fosse in ufficio; per svolgerlo esiste quindi un luogo preciso, la casa (ma potrebbe essere anche una sede decentrata dell’ente), e un orario di lavoro specifico;
- l’home working: si tratta in realtà di lavoro agile emergenziale, svolto prevalentemente a casa nei mesi scorsi, perché né gli enti pubblici né le aziende private erano pronti all’organizzazione prevalentemente fondata sull’affidamento di obiettivi lavorativi (e non sul binomio luogo/orario, come nel telelavoro). Per cui il lavoro agile ha avuto una sede prevalente a casa e un principio, non sempre compiuto, di organizzazione per task;
- il lavoro agile vero e proprio: è l’attività che non ha precisa sede di svolgimento e rispetto alla quale l’orario è indifferente, perché completamente svolta in base all’affidamento di obiettivi e risultati, da valutare in relazione a standard produttivi definiti.
Se il lavoratore non va al lavoro, il lavoro deve andare al lavoratore: adesso si può
Ora, il lavoro agile vero e proprio, essendo un non-luogo entro un non-orario, di per sé non ha alcuna conflittualità con i servizi di ristorazione o anche con i trasporti. Il lavoratore agile non è obbligato a lavorare da casa. Può scegliere luoghi diversi che dispongano di certi requisiti definiti dal datore, e che possono anche trovarsi nei centri delle città o nelle sedi direzionali. Nulla lo esclude. E nulla esclude che il lavoratore agile si rechi nei non-luoghi utilizzando anche le reti di trasporto esistenti.
La differenza strategica, che dovrebbe essere colta da chi organizza la vita delle città, sta nella possibilità che i lavoratori agili personalizzino la fruizione delle diverse possibili sedi e della tempistica, evitando quindi ingorghi e tensioni concentrate in pochi quartieri e in orari ristretti.
Non è un caso che, con la recrudescenza autunnale della pandemia da COVID-19, il DPCM 13 ottobre 2020 rilanci il lavoro agile nella pubblica amministrazione e lo consigli alle imprese private. Nell’impossibilità di raddoppiare o triplicare i mezzi di trasporto pubblici, l’unico modo per ridurre le occasioni di contagio connesse alla frequentazione di bus, pullman e metropolitane sovraffollate è diluire gli ingressi con sagge flessibilizzazioni dell’orario di lavoro; oppure, in modo ancora più smart (e cioè intelligente), agire sull’orario di lavoro, liberandolo da vincoli rigidi, e soprattutto sulle sedi di lavoro, rendendo potenzialmente ogni luogo una sede possibile.
Ora di punta, addio. Il lavoro agile può salvare la vita delle città
Sono possibili progetti nuovi per le città, caratterizzati dall’incentivo agli esercenti di investire nella messa a disposizione di spazi e connessioni per lavoratori agili: i bar, gli alberghi, le librerie (che già in parte sono attrezzate a questo fine), ma anche qualsiasi altro negozio, potrebbe noleggiare propri spazi, scrivanie e strumenti di connessione; perfino i supermercati potrebbero allestire aree. Il lavoratore potrebbe unire, nella spendita del tempo che ritenga necessario al lavoro connesso e agli obiettivi da raggiungere, le opportunità di lavorare in sedi efficienti – più efficienti di casa – alle necessità di spesa di vario genere.
La vita delle città risulterebbe comunque intensa e attiva, non solo esaurita nel centro o nei quartieri direzionali; i trasporti sarebbero meno in tensione. La Pubblica Amministrazione potrebbe dare l’esempio. I comuni, in particolare, dispongono di immobili spesso mal utilizzati, assegnati in parte e per poco tempo a sedi di associazioni; e appartengono ai comuni e alle province anche immensi contenitori, come le sedi scolastiche. La PA potrebbe avviare virtuosi progetti di coworking, ospitando nelle proprie sedi lavoratori di altre PA, risolvendo problemi di spazio e spostamento.
Il comune di Santa Fiora, ad esempio, in provincia di Grosseto, ci ha già pensato: ha prodotto un bando per invitare lavoratori a svolgere attività in smart working nel comune, investendo 30.000 euro per coprire fino al 50% dell’affitto a chi desidera vivere per un periodo a Santa Fiora lavorando in modo smart.
Dal lavoro agile al lavoro diffuso
Un modo intelligente per vedere nel lavoro agile anche l’occasione di fare impresa e di promuovere un territorio. Una narrazione totalmente opposta a un’idea conservatrice come quella del sindaco di Milano, contraria allo smart working per la manifesta preoccupazione di suscitare le ire degli investitori del mattone, che hanno realizzato torri e centri direzionali pretendendo che le città insistano nello stipare all’inverosimile aziende e lavoratori in pochi ettari, concentrando sedi, orari, traffico, smog, e attraendo attività commerciali di pura rendita di posizione, come i baretti specializzati nella pausa pranzo, dai panini che costano, guarda caso, esattamente quanto un buono pasto.
Ma potrebbero anche rivolgere i medesimi servizi ai privati, come apripista di un sistema parcellizzato del lavoro, ove la “postazione” sia possibile trovarla ovunque, o meglio, ovunque sia disponibile. Il presupposto è sempre lo stesso: modificare l’idea che il lavoro consista nell’adempiere a un mero debito orario entro una fascia determinata, nel quale svolgere attività non precisate nelle quantità e nei fini, passando a un sistema di determinazione di mansioni vere, obiettivi quantitativi e qualitativi, ma comunque misurabili ai fini della rendicontazione.
Così da giungere a un lavoro, più che “agile”, “diffuso” nel territorio. Che porterebbe possibili benefici per nuove necessità lavorative: si pensi a servizi di apertura e chiusura delle sedi dedicate agli smart worker, al potenziamento delle reti, alla diffusione di servizi manutentivi dei software.
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