Il Natale dei lavoratori Amazon: pacco, doppio pacco e contropaccotto

“Era meglio la catena di montaggio”: le condizioni di lavoro nei poli logistici di Amazon (e non solo) rasentano lo sfruttamento. E per le coop della Città del Libro la GdF ha parlato di caporalato.

Il Natale 2020 è stato quello degli acquisti online. Le molte restrizioni imposte dalla pandemia nel corso dell’ultimo anno hanno dato una spinta alla tendenza che avevano già in molti, cioè quella di acquistare sempre di più in Internet, affidandosi a grandi catene di distribuzione. Ma dietro ci sono i lavoratori, spesso mal pagati e costretti a lavorare su turni massacranti con contratti precari.

Nel corso dell’ultimo anno il 70% degli italiani ha effettuato almeno un acquisto online. Tra coloro che non l’hanno mai fatto, secondo i dati Nomisma, il 29% si dice interessato a sperimentare questo canale in futuro. Probabile che lo abbia fatto durante le feste natalizie, anche perché recarsi nei negozi non era semplice e si rischiava comunque di incorrere in assembramenti e di mettere a rischio la propria salute.

A risolvere il problema del regalo giusto al momento giusto ci hanno pensato i tanti che ogni giorno spostano carrelli pieni di pacchi lungo capannoni, sorti all’improvviso agli imbocchi delle autostrade, dove un tempo c’erano campi coltivati.

Immigrati 2.0, al Nord in cerca di un lavoro

Un paese di 1.542 abitanti e una fabbrica di novecento operai. Si chiama Castelguglielmo, è in provincia di Rovigo, e il 21 settembre ha visto l’arrivo del polo logistico di Amazon, che ha attirato lavoratori da tutta Italia.

Il colosso statunitense ha promesso assunzioni a tempo indeterminato nel giro di tre anni. Ma intanto molti contratti sono da 64 ore mensili, della durata di un mese solo: niente che possa permettere a un qualsiasi lavoratore (in tanti provengono dal Sud) di pagarsi un affitto. Alcuni hanno deciso di dormire in camper per tutto il periodo, altri si pagano una stanza di albergo a 40 euro al giorno, e c’è chi ha pensato di trovare alloggio al dormitorio comunale della vicina Rovigo, che però ha solo sedici posti, che sono andati esauriti nel giro di poco tempo – anche perché dovrebbero servire ai senzatetto della città veneta.

«Le criticità – dice Dario Pitacco, segretario della NIdiL CGIL di Rovigo – stanno emergendo. Non è possibile per molti vivere qui per l’insostenibilità economica dei contratti di lavoro proposti. La necessità spinge chi vive lontano da Rovigo a spostarsi, ma non può permettersi l’affitto. C’è addirittura chi ha dormito in macchina, oppure nei sacchi a pelo sotto ai portici del municipio».

Non si tratta solo di giovani che puntano a un’esperienza lontani da casa: l’età varia dai 25 ai 60 anni. «In sede di selezione e formazione – continua Pitacco – ho incontrato nuclei famigliari interi, con vere e proprie situazioni paradossali. Un lavoratore si è trasferito in albergo ed è stato rimandato di settimana in settimana, prima della firma del contratto, a causa di problemi burocratici interni. Era già venuto in albergo con la famiglia e ci è rimasto per 40 giorni a 40 euro al giorno. Quello che è mancato da parte della società è stato il relazionarsi con il territorio».

«Era meglio la catena di montaggio»

L’identikit di questo nuovo emigrato, quasi un nomade del lavoro, è piuttosto vario. Ci sono ragazzi giovani e persone che a 50 anni si trovano nella condizione di ribaltare la propria esistenza per il bisogno di lavorare.

«Uno dei dipendenti – continua Pitacco – mi ha detto che è stato operaio in fabbrica per quindici anni. Alla prima settimana di lavoro in Amazon ha perso quattro chili. La sua mansione consiste nello spostare carrelli tutto il giorno, camminando per chilometri con le scarpe antinfortunistica ai piedi».

Da questo punto di vista le relazioni sindacali difettano, perché gli stessi sindacalisti spesso non ricevono risposte alle loro istanze e un vero e proprio canale di dialogo non si è ancora aperto. La situazione per certi versi è migliore di quella verificatesi con altre logistiche in altri territori, dove controllare le condizioni dei lavoratori era più complicato, perché il lavoro veniva appaltato a cooperative.

Lo sfruttamento corre sul filo del telefono: per la GdF è caporalato

Tramite SMS e WhatsApp. Così venivano chiamati al lavoro un giorno per l’altro quanti lavoravano sul sito Ceva di Stradella, al confine tra la provincia di Pavia e quella di Piacenza.

Oggi le cose sono cambiate, dopo un’inchiesta del 2018 della Guardia di Finanza e un processo nel quale i responsabili delle cooperative che sfruttavano i lavoratori sono stati condannati – per evasione fiscale, e non per caporalato come aveva chiesto l’accusa. Tutta l’inchiesta gira attorno alla figura di Giancarlo Bolondi, 63 anni, nativo di Reggio Emilia, al quale sono stati confiscati beni per milioni di euro. Era lui il dominus della Premium Net, la cooperativa alla quale Ceva, il colosso della logistica, affidava la gestione dei suoi capannoni a Stradella nella cosiddetta Città Del Libro, l’hub aperto nel 2010 per fornire servizi di trasporto ai grandi nomi dell’editoria come RCS, Messaggerie e naturalmente Amazon, che era uno dei principali clienti.

Di quello che avveniva all’interno dei capannoni Ceva i grandi marchi non sapevano nulla, ma le Fiamme Gialle hanno scoperchiato con la loro inchiesta un mondo di sfruttamento che non hanno esitato a definire “caporalato”.

Da Pomigliano d’Arco a Pavia per pagare il mutuo

Vincenzo Agrillo oggi è un dirigente sindacale della CGIL Pavia, e ha contribuito a far sì che alla Città del Libro siano da due anni rispettati i diritti di tutti i lavoratori. Ma nel 2010 era solo un operaio e padre di famiglia impiegato in un magazzino di Pomigliano d’Arco in provincia di Napoli.

«Ho lavorato in un’azienda di Pomigliano d’Arco che distribuiva i libri per conto di RCS. L’ho fatto per quattordici anni. Poi il mio ex datore di lavoro ha perso la commessa e ci venne detto che chi voleva si poteva trasferire alla Città del Libro di Stradella. Noi ci occupavamo del Centro-Sud Italia, ma RCS ha deciso di unificare i magazzini per risparmiare, e noi grazie al sindacato siamo riusciti a conservare il posto di lavoro. Era il 2015 e ho accettato; avevo 35 anni ed ero sposato, con figli e mutuo. Inizialmente sono venuto da solo e vedevo la mia famiglia una volta al mese. Poi ci siamo trasferiti tutti».

Caporalato tra i lavoratori: possibile che Amazon & co. non sapessero?

Quella che Vincenzo trova al Nord è una situazione paragonabile a quella delle campagne di alcune zone del Meridione, con turni massacranti e nessun rispetto dei diritti dei lavoratori. È lui stesso a raccontare: «Lavoravo per la cooperativa Premium Net, come dipendente di una cooperativa di Plurima Media, che era una consorziata. Sapevamo l’orario iniziale, ma non si aveva un orario di fine. Si lavorava finché c’era da fare, finendo magari alle 22. Venivano pagate otto ore con il salario normale (8 euro orari), e gli straordinari risultavano trasferte, di fatto frodando il fisco».

Nei capannoni lavoravano dodici cooperative che sono arrivate ad avere 1.000 dipendenti. All’interno c’erano dei finti part time, assunti per quattro ore, ma costretti a lavorarne dodici per cinque euro orari. L’80% era straniero, proveniente dai Paesi dell’Est, dal Sudamerica o dal Nord Africa, facilmente ricattabile con la minaccia di perdere il lavoro e il permesso di soggiorno.

Si veniva convocati con un messaggio alle 22 per il giorno dopo, e chi non poteva o per ferie o malattia veniva licenziato. Addirittura un’agenzia rumena assumeva in Italia, pagando metà in euro e metà con la moneta locale e versando i contributi all’estero. È difficile pensare che i responsabili del grande colosso che si affidava alle cooperative non sapessero nulla.

«Oggi le cose sono cambiate e tutto è regolare – spiega Sergio Antonini della CGIL – ma ci si chiede in questi casi se non ci vorrebbe una maggior responsabilità da parte di chi affida questi subappalti a società o cooperative in grado di lavorare a prezzi stracciati. Il paradosso è che dalla Città del Libro uscivano libri di autori che si solito sono in prima fila nel denunciare lo sfruttamento dei lavoratori».

Photo credits: www.tpi.it

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