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La grande muraglia mentale cinese
“L’unico luogo del nostro pianeta visibile dalla luna”. Chi di noi non l’ha mai detto per far colpo sugli amici, increduli per quel balzo prospettico in avanti in un’età dove anche solo un piccolo anfratto, un boschetto ai lati delle solita strada percorsa, è già sinonimo di grande avventura? Figurarsi poi la Muraglia. Protagonista indiscussa […]
“L’unico luogo del nostro pianeta visibile dalla luna”. Chi di noi non l’ha mai detto per far colpo sugli amici, increduli per quel balzo prospettico in avanti in un’età dove anche solo un piccolo anfratto, un boschetto ai lati delle solita strada percorsa, è già sinonimo di grande avventura? Figurarsi poi la Muraglia. Protagonista indiscussa della mia infanzia, da adolescente l’avevo sepolta dentro altri pensieri altrettanto turbinosi e accentratori, ma fortunatamente non l’avevo cancellata del tutto.
La prima volta in cui mi sono trovato a Pechino, nel 2006, sono andato finalmente a visitarla. Mentre ormai nella mia testa pensavo alla Muraglia come a uno straordinario monumento dalle pietre di un colore giallo deserto, eretto con il sacrificio di milioni di persone, trovarmici mi è subito apparso qualcosa di profondamente differente.
Più che un muro, un’identità
La Muraglia cinese è un qualcosa di diverso da un monumento: è un concetto, una definizione, qualcosa che unisce il concreto con l’astratto.
Forse nel II secolo a.C., quando fu concepita dall’imperatore Qing shi Huang, che unificò il Paese e gettò le basi per una lingua ufficiale (il mandarino, in cinese putonghua), doveva “semplicemente” essere una grande barriera lunga 10.000 Lǐ (unità di misura dell’epoca), un baluardo protettivo contro una minaccia sempre percepita ma dai contorni ambigui; come quella che il tenente Giovanni Drogo attende per tutta la vita dietro la garitta della Fortezza Bastiani.
Tuttavia ben presto la destinazione di questa immensa opera prese contorni diversi, diventando l’essenza stessa dello Zhongguo (“Paese di Mezzo”, antico nome della Cina, N.d.R.). I cinesi si definivano come coloro che abitavano dentro i confini della Muraglia, e che quindi condividevano la lingua e alcune credenze religiose, fossero esse taoiste o prebuddiste; tutto ciò che stava al di fuori apparteneva al regno dei barbari. Non si trattava più solo di difesa, ma di una totale e assoluta affermazione identitaria.
Una barriera mentale
Sono passati più di duemila anni. La Grande Muraglia, ancora appollaiata come un enorme ragno sui crinali glabri a ridosso della temibile Mongolia, si è trasferita dal piano fisico al piano mentale. Se infatti nel concreto ognuno di noi non avverte più l’impossibilità di viaggiare (non la difficoltà: quella esiste eccome), di studiare e commerciare con il resto del mondo, se concretamente le barriere sono cadute, quelle mentali si ergono ancora. E sono proprio quelle che rappresentano il nostro maggiore ostacolo.
Ma siamo davvero sicuri che il muro, o in questo caso la Muraglia, sia soltanto sinonimo di difficoltà? Oppure è proprio in virtù di questa forte affermazione identitaria che dobbiamo sforzarci di comprendere più a fondo il gigante asiatico? Da italiano, trovo che commerciare con l’Europa sia relativamente semplice, nonostante alcune storiche differenze e inimicizie: noi europei condividiamo valori comuni, questo è innegabile.
All’atto pratico, proporre il nostro prodotto come marcatamente italiano funziona a livello di marketing. Per fare un esempio, basta scendere alla stazione di Roma Termini e fare due passi per capire che gli americani e buona parte degli europei sono alla ricerca di quell’atmosfera alla Vacanze Romane, e tutto, dal noleggiatore di vespe al ristorantino che volutamente esibisce camerieri in marsina e fiorellini sul tavolo, tutto va in questa direzione. Il fatto è che, nonostante i nostri difetti e il nostro caos (che peraltro sono parte della nostra fama), molti ci riconoscono la fondamentale qualità di amare la vita e di saperne apprezzare i lati più gioiosi e goderecci. Ma se questo funziona per il resto del mondo, non è sufficiente per la Cina: è qui che agisce la Grande Muraglia mentale cinese.
Abbattere la Muraglia: i primi passi, a partire dai nomi dei prodotti
Mi spiego meglio. Un americano o nord europeo hanno un misto di venerazione e rispetto per la tradizione culinaria italiana; un cinese no. La conosce poco, e anzi, generalmente considera la sua cucina come la migliore del mondo. Il risultato è che non basta una bella presentazione della pietanza, un’atmosfera “da trattoria”, per attrarre un cliente cinese.
Il processo di avvicinamento deve passare per uno storytelling mirato a evidenziare l’esclusività della lavorazione italiana, e nel generale del Made in Italy. I cinesi sono da sempre maniaci della storia e degli aneddoti che stanno dietro a un oggetto, dei personaggi importanti che hanno dato la loro fiducia a un prodotto italiano piuttosto che a un altro.
Il primo passo per prendere a picconate la Muraglia consiste nella scelta del nome giusto. I nomi italiani sono spesso lunghi e complessi da trasporre in cinese, e se l’operazione diventa troppo difficoltosa diventano impossibili da ricordare per il cliente cinese.
Per rimanere in tema, prendiamo un noto vitigno internazionale: il merlot. In cinese esso viene tradotto con il nome di meili, dove mei significa “bello”, e li significa “forza”. I francesi hanno messo in piedi un’operazione di marketing estremamente intelligente; dovendo educare il consumatore cinese al vino, hanno puntato sulla diffusione del loro vitigno più noto, e poi a cascata sulle loro più celebri produzioni legate a questo vitigno, legando successivamente la suggestione dei loro chateaux, e quindi collegando prima di altri Paesi un’abitudine alimentare al turismo. L’Italia non ha ancora intrapreso una strada del genere. È vero, esistono moltissime tipologie di vitigni, ma è anche vero che si poteva iniziare da quelle più celebri, per esempio il Sangiovese; non ci mancano certo gli ottimi prodotti, i castelli e le suggestioni. Anzi.
Una demolizione vincente
Facciamo conto di aver scelto il nome giusto per il nostro prodotto e di aver dato la prima picconata alla Muraglia: è necessario non fermarsi e andare avanti.
Qualora possiamo avvicinare il consumatore cinese alla comprensione della nostra cultura, attraverso il processo dell’analogia, dobbiamo assolutamente provare a farlo. Sempre rimanendo nel settore vitivinicolo, se devo spiegare a un cinese la nostra grappa, è inutile partire dalle tipologie delle vinacce che la compongono: è più semplice se la paragono al loro baijiu, anch’esso un distillato (di riso, non di vinacce); la comprensione risulterà immediata. Per fare questo occorrono studio e conoscenza. Non è importante che sia approfondita: a volte sono sufficienti i fondamentali. Dobbiamo ricordarci che, nonostante le molte distorsioni e fraintendimenti, generalmente un cinese conosce più del nostro mondo di quanto noi conosciamo del suo.
È necessario dunque vincere questa pigrizia culturale, leggere, documentarsi, viaggiare, dimenticare la supponenza che a volte ci fa esclamare “questo è Made in Italy, lo compreranno di sicuro”. In Cina questo atteggiamento è inevitabilmente destinato a fallire. Imparare a conoscere la Muraglia significa apprendere i contorni del suo Paese, e con essi le sue vie di accesso.
Photo by Vidar Nordli-Mathisen via unsplash.com
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