La non scelta dei rider

Davanti alla morte del settimo rider in un anno c’è ancora chi pensa che fare questo mestiere sia una scelta e soprattutto che sia un servizio utile.

Il ragazzo alla cassa sorride. Chiede se tutto è andato bene e mi ricorda che – dovesse servire – è possibile anche usufruire del servizio a domicilio.

“Di chi vi servite per il take away?” chiedo, soddisfatto per la cena che sento sta prendendo la direzione sbagliata.

“Glovo” risponde il ragazzo, che non è tanto ragazzo e credo sia il titolare del punto vendita romano della famosa paninoteca di pesce pugliese.

E pensa che sia un buon servizio?“. La cena sta andando in acido. Peccato, perché il panino con la tartare di tonno non era niente male.

“Noi ci troviamo bene”, svicola il pusher di panini.

“E i rider che lavorano per Glovo, crede che si trovino bene anche loro?”, incalzo, pensando a come sia labile il confine fra un’ottima cena e una conversazione sbagliata.

È una loro scelta“. Sipario.

Abbiamo iniziato con SenzaFiltro a occuparci dei rider cinque anni fa, in maniera del tutto casuale quando incontrammo Marco Lombardo, assessore al lavoro del Comune di Bologna che stava lanciando una Carta dei diritti dei lavoratori del digitale che da lì a poche settimane sarebbe stata presentata alla città, alla presenza di alcuni marchi per lo più italiani di food delivery, del tutto ignorato dai quattro super eroi multinazionali Glovo, Deliveroo, Just Eat, Uber Eats, che con la siciliana Social Food si erano riuniti sotto l’egida di Assodelivery, l’associazione di categoria tristemente salita alle cronache per aver cercato di inventare un contratto collettivo a proprio uso e consumo con la complicità di un sindacato ininfluente, per evitare di dover sottostare a regole chiare e stringenti.

Qui abbiamo criticato aspramente il contratto collettivo di Assodelivery, sconfessato dal ministero e dai sindacati di maggioranza.

La carta dei diritti si rivolgeva a tutte quelle aziende – non solo di food delivery – che intermediano il lavoro attraverso piattaforme e algoritmi, affinché si aderisse a regole meno borderline e utili ad allontanare quei lavori dallo spettro del caporalato digitale.

Quella mattina a Bologna abbiamo capito che il tema del food delivery nascondeva molte più ombre di quello che sembrava un semplice servizio di consegna a domicilio.

Il primo equivoco: i rider non sono studenti che arrotondano

Tutta la narrazione che gira intorno al mestiere dei rider si fonda su equivoci di fondo che sarebbe bene chiamassimo bugie, perché sono gli stessi equivoci che hanno sdoganato il settore del food delivery trasferendolo sul friabilissimo terreno della comunicazione sociale, “grazie al quale giovani studenti possono permettersi di mantenersi agli studi”, e più di recente attribuendogli gli onori di “un servizio che si è rivelato essenziale durante il lockdown“.

Peccato che la cronaca racconti ancora una volta tutta un’altra storia: la storia di fattorini che, proprio durante il lockdown, sono stati mandati per le case senza dispositivi di sicurezza (gel, mascherine, disinfettanti), costretti a provvedere a spese proprie alla loro incolumità.

SenzaFiltro è fra i pochi giornali che ne hanno parlato.

La giostra degli equivoci è stata smascherata primi fra tutti dai giornalisti di Report: al termine di un inseguimento iniziato sul retro del Parlamento da cui i tre dirigenti” di Glovo, Deliveroo e Just Eat stavano uscendo dopo una consultazione lobbystica, gli stessi, negando le loro identità e i loro incarichi, mal volentieri rispondevano a domande sulle tasse, sugli inquadramenti, sulla popolazione effettiva dei fattorini, sulle paghe e sul funzionamento degli algoritmi.

I tribunali sciolgono tutti gli equivoci

Negli ultimi tre anni, si sommano le condanne dei tribunali a carico delle quattro aziende più importanti del settore. Se Uber Eats è l’azienda che ha raccolto il maggior numero di denunce per caporalato, non sono da meno le altre aziende riguardo all’abuso degli algoritmi, alla tipologia di inquadramento dei fattorini, al versamento delle tasse nel nostro Paese a fronte di fatturati miliardari.

La sostenibilità è sempre più un miraggio quando si parla di cibo a domicilio, ma rimane l’equivoco di fondo di una percezione di massa alimentata da campagne pubblicitarie miliardarie e da un abuso di benessere digitale che crea malessere sociale.

La facilità con cui si schiaccia un comando sul telefono e si fa partire un fattorino dall’altra parte della città per una consegna media di 4 euro è un gesto di inciviltà e di disprezzo nei confronti di altri esseri umani, che al tempo delle schwa, della parità di genere, dell’inclusione e dell’attenzione a gesti e parole, assume un significato del tutto incoerente.

Le cronache delle ultime settimane ci restituiscono un sistema di caporalato ancora più evoluto in cui account e dispositivi vengono “subaffittati” a fattorini impossibilitati ad aprire un account in proprio per svariati motivi, rosicando ulteriormente quei miseri guadagni e alimentando ulteriormente un esercito di fantasmi non più solo senza un contratto di lavoro e senza diritti, ma adesso anche senza un nome.

Per non parlare della sicurezza: sia dei fattorini in caso di incidenti, sia degli utenti del servizio che interagiranno con persone irrintracciabili in caso di violenze, furti o disservizi di qualsiasi genere.

La morte non è un’opzione

Torniamo alla frase del ristoratore all’inizio di questo articolo: “È una loro scelta”.

Confrontiamola con la platea di coloro che praticano questo mestiere, nell’ampio bacino di fattorini. Va dai ragazzi in cerca di un’entrata fissa agli over 50 che in questo Paese entrano di diritto nella categoria della disoccupazione, fino alla moltitudine di extracomunitari che parlano male la nostra lingua e sono senza tutele sociali e intellettuali, disegnando un pubblico molto chiaro: quello di chi non ha strumenti, titoli o la possibilità di un’alternativa valida.

E poi dividiamo quel numero per tutti coloro che negli ultimi anni hanno subito o procurato un incidente nella necessità di inseguire le logiche illogiche dell’algoritmo e di questo mestiere.

E infine, chiediamolo a Muralidharan Abhishek, il ragazzo indiano di 22 anni (laureato in Ingegneria con un master in Risorse Umane) travolto da un autista ubriaco mentre consegnava la cena in una delle zone più abbienti e non certo prive di locali e ristoranti di Roma. Chiediamolo a lui, e agli altri sei che quest’anno non sono tornati a casa la sera dalle loro famiglie.

Chiediamolo a Sebastian Galassi, rider di Glovo, licenziato dall’algoritmo dopo la sua morte per “non aver rispettato i patti”.

E soprattutto chiediamoci se è stata una scelta di “Abi” lavorare per due società diverse, Glovo e Just Eat (quest’ultima, uscita da Assodelivery, aveva dichiarato di assumere i suoi fattorini), e allo stesso tempo essere un fantasma per i suoi datori di lavoro.

SenzaFiltro si è occupato del tema dei rider, dei lavoratori del digitale e degli impatti etici e sociali della gig economy. Osvaldo Danzi nel suo podcast UmaneRisorse ha affrontato il tema dei rider nella prima puntata.

Foto di copertina di Wal da Pixabay

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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