L’Afghanistan e i talebani: ci siamo dimenticati di tutto, donne comprese

Raccogliamo le testimonianze di diverse donne sotto il regime talebano in Afghanistan: tra i divieti c’è quello di viaggiare senza accompagnatori e di frequentare l’università. In aumento suicidi e disagi psicologici, ma anche le proteste.

Razia ha continuato a percorrere la stessa strada da casa verso la scuola negli ultimi mesi. Nella capitale Kabul, in Afghanistan, verso il suo luogo di lavoro. È cambiato il ritmo del suo passo, è cambiato il suo umore. Il volto è ora coperto e con gli occhi dietro un reticolato scruta veloce il cammino, fino a quando giunge a destinazione e tira un sospiro di sollievo. A quel punto può togliere il burqa che si sente costretta a portare per strada e può rimettere il suo leggero chador, dai colori tenui e luminosi, come il suo sorriso. La aspettano i bambini e ancor più le bambine, che ancora sono piccole e non si chiedono che cosa sarà del loro futuro a scuola.

La scuola Montessori contro il regime talebano

Razia ha 27 anni ed è una delle due insegnanti del metodo Montessori rimaste alla Garden of Flowers, un asilo privato dedicato alla metodologia dell’insegnante italiana che ha fatto scuola nel mondo. Ed è una delle fortunate: dopo quattro mesi di interruzione, tra l’agosto e il novembre 2021, ha ripreso a lavorare. Quando i talebani sono entrati nella capitale la paura e l’incertezza hanno dominato, anche the Garden of Flowers ha chiuso i battenti.

“La scuola Montessori a Kabul includeva prima bambini delle elementari e medie, ed erano orfani che vivevano nella House of Flowers”, racconta Razia in una videochiamata WhatsApp da casa di sua sorella. “Adesso abbiamo solo i bambini dell’asilo, una ventina, e sebbene questa scelta preceda il ritorno dei talebani, il contesto attuale la rafforza”.

Una mattina di qualche mese fa, quando l’asilo aveva appena riaperto, sono venuti i talebani a far loro visita. “Abbiamo messo appositamente le bandiere talebane per non farli insospettire” ricorda Fatima, 35 anni, collega e amica di Razia. “Ci siamo coperte e abbiamo detto che si trattava solo di un asilo, cercando di sottolineare degli aspetti più classici dell’insegnamento. Non abbiamo citato Montessori: li avremmo solo portati a farci tante domande e non avrebbero capito come lavoriamo”.

Spin Boldak, Afghanistan: distribuzione di viveri alla popolazione da parte dei talebani. Photo@UgoLucioBorga/SixDegrees

Sebbene Razia e Fatima siano contente di aver ripreso la loro attività lavorativa, dopo quattro mesi di formazione online per occupare il tempo strappato alla quotidianità dell’insegnamento, un velo di tristezza e malinconia inevitabilmente copre i loro occhi, anche quando a coprirli non sono altri veli. “La situazione delle donne in Afghanistan è nuovamente cambiata, è molto negativa”, dice Razia, che nel frattempo osserva il digiuno del mese sacro di Ramadan. “Sì, c’è più sicurezza in generale nel Paese, negli spostamenti, meno attentati, ma non per le donne. Abbiamo paura, e anche se io e Fatima lavoriamo, sappiamo che milioni di donne e ragazze non lo fanno più. Le ragazze dai dodici anni in su da mesi e mesi non possono più studiare. Come possiamo essere felici?”

Per superare la tristezza, Razia e Fatima hanno cercato nuove strategie: hanno rafforzato le relazioni con le famiglie dei bambini e bambine nel quartiere, con cui si incontrano più frequentemente, soprattutto con le madri. Sempre più donne chiedono del “Garden of Flowers” per i loro figli e questo richiederebbe un’espansione dell’asilo in termini di spazi fisici. Nel frattempo le due insegnanti si chiedono che futuro possano avere i loro giovanissimi allievi, che spazio ci sia per loro nella società.

Donne e minoranze, restrizioni e attacchi: il nuovo corso dell’Afghanistan

Gli spazi: proprio quelli che mancano alle donne nel Paese, anche quelli di protezione. I talebani hanno chiuso quasi tutti i rifugi per donne in Afghanistan. Le organizzazioni per i diritti umani dicono che è parte di un attacco costante ai diritti e alla vita delle donne: hanno smantellato il ministero degli Affari Femminili, molte donne sono escluse in tanti lavori governativi, hanno impedito alle ragazze di frequentare le scuole secondarie, hanno dato un giro di vite alle proteste e agli attivisti guidati dalle donne e hanno imposto restrizioni alla vita quotidiana, come il divieto di viaggiare su lunghe distanze senza un accompagnatore maschio. Nei parchi uomini e donne non possono più stare insieme, rilassarsi per un giro di giostra fianco a fianco.

In questa chiara, esplicita, violenta negazione dei diritti e di protezione, soffrono in tante le conseguenze psicologiche. Sono aumentati i suicidi, e molte donne che progettavano un futuro non sono quasi più uscite di casa. È il caso di Batoul (nome di fantasia per proteggere la sua identità), 19 anni, che confida quotidianamente la sua angoscia al telefono alla sorella Masouma, 24 anni.

Mia sorella mi chiama da Herat spesso in lacrime”, racconta Masouma, che ad agosto è riuscita ad essere evacuata da Kabul a Kiev e poi ha dovuto lasciare la capitale ucraina per la capitale polacca, Varsavia, dopo l’invasione russa del 24 febbraio. “Sì, la mia vicenda è altrettanto complessa, ma ho studiato e mi sono laureata a Kabul all’American University of Afghanistan e mi hanno preso a un master negli Stati Uniti. Posso soffrire la lontananza, ma non ho smesso di sognare di poter continuare i miei studi. Mia sorella non vedeva l’ora di raggiungermi a Kabul per iscriversi all’università, e invece non solo non può raggiungermi ma non potrà neanche mai andare all’università”.

Masouma e Batoul appartengono alla minoranza hazara, una delle più perseguitate in Afghanistan. Gli attacchi da parte del gruppo terroristico IS-K (Stato Islamico della provincia del Khorasan) negli ultimi mesi sono stati tanto frequenti quanto brutali. Uno degli ultimi proprio in delle scuole: doppio attentato alla Abdul Rahim Shaheed High School (sei morti e diciassette feriti) e nelle vicinanze del Mumtaz Education Center, entrambi nella capitale Kabul, nel quartiere Dasht-e-Barchi, prevalentemente sciita e hazara. L’IS-K aveva già preso di mira lo stesso quartiere in passato. Anche i lavoratori del governo nella provincia di Kunduz sono stati presi di mira nella stessa settimana: in pochi giorni almeno 77 persone avrebbero perso la vita, nell’Afghanistan dichiarato “sicuro” dai talebani. Anche Razia, l’insegnante Montessori, sembra di etnia hazara con i suoi occhi a mandorla, e pur essendo di origine pashtoun, cerca di nascondere il volto per non rischiare di diventare un bersaglio ogni volta che esce fuori casa.

Perdurano le proteste delle donne afghane

Batoul, in ogni caso, da casa non si muove: la sua finestra sui sogni di studio spezzati sono solo le videochiamate con la sorella, che deve sostenere a distanza il futuro frantumato della piccola. Una depressione che solo le sue coetanee afghane possono capire. Eppure non tutte si sono scoraggiate: nel Paese hanno continuato a combattere. L’unica arma: le proteste pacifiche, in marcia, per strada, per reclamare una presenza nella società che i talebani più che i precedenti governi vogliono invisibilizzare.

“Se le scuole femminili rimangono chiuse anche dopo una settimana, le apriremo noi stessi e organizzeremo manifestazioni in tutto il Paese fino a quando le nostre richieste non saranno soddisfatte”, hanno detto le attiviste femministe dell’Afghan Women for Peace and Freedom. “I talebani dovrebbero costruire più scuole per le ragazze nelle zone rurali piuttosto che chiudere le strutture esistenti”, è scritto nella loro dichiarazione, che arriva dopo che diverse attiviste sono state arrestate negli ultimi mesi. “Il popolo non può più tollerare una tale oppressione. Non accettiamo nessuna scusa dalle autorità”.

I cambiamenti sociali, politici, culturali, economici degli ultimi venti anni, anche se purtroppo non hanno riguardato la popolazione nella sua totalità, ma prevalentemente le zone urbane, e nonostante lo stato di guerra che non ha permesso a tali cambiamenti di sedimentarsi, non lasceranno tregua ai talebani: le donne soffrono, ma continuano a camminare. Come Razia ogni mattina verso la sua destinazione.

Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.


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In copertina: Kandahar, Afghanistan: una donna cammina, sola, verso il mercato cittadino. Foto di Ugo Lucio Borga/SixDegrees

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