Lavorano di più e guadagnano il 30% in meno: gli insegnanti italiani sul banco UE

La scuola azienda è un assegnificio? Esiste davvero chi sceglie di insegnare pur di avere uno stipendio più basso del 30% rispetto alla media europea? Parliamo del ruolo dell’istituzione scolastica e delle nuove assunzioni di docenti (con diverse presenze maschili in più) con Carlo Giuffrè, segretario UIL scuola.

Sottopagati benché chiamati a supplire a uno stato sociale inesistente. Traditi dallo stesso Stato che ha disatteso sistematicamente le aspettative generate da promesse fatte tanto in tempo di pace quanto in tempo di pandemia. Disistimati da una diffusa opinione pubblica, irritata dal “posto fisso” e dai “tre mesi di vacanza”. È il profilo dell’insegnante delle scuole statali italiane. A tratteggiarlo indirettamente i dati del Miur, direttamente quelli dei sindacati, ma soprattutto la realtà dei fatti di cui chiunque può avere testimonianza quotidiana.

Eppure, anche se bistrattata, questa figura professionale sembra vivere una seconda giovinezza da quando, con le nuove 80.000 immissioni in ruolo dal 2020 ad oggi, e oltre 100.000 supplenti pescati anche dalle graduatorie più arrugginite e dimenticate, appare come un’alternativa alla disoccupazione o all’incertezza dello stipendio. Moltissimi i giovani, anche di sesso maschile, benché cifre esatte per distinzione di genere non ve ne siano.

Maestra addio: aumentano le figure maschili tra gli insegnanti

Un insegnante di scuola primaria (cioè elementare) neoassunto percepisce al netto 1.350 euro circa. Per lo stipendio iniziale di un professore di scuola media basta aggiungere 50 euro, per quello delle scuole superiori la cifra di partenza è di 1.430 euro. Non saranno quindi state certo le cifre ad attirare nel panorama delle assunzioni i tanti giovani che vi si sono affacciati, con numerose figure maschili.

Così è stato superato il cliché della “maestra”, in passato quasi solo donna per due motivi principali: lavorava a scuola solo di mattina, così nel pomeriggio le restava il tempo per fare “i suoi” lavori di casa; e poi l’insegnamento, in particolare alla materna e alla primaria, non veniva percepito e inteso come una vera professione, cruciale per sfruttare al massimo l’apice della capacità di apprendimento dei bambini in quella fase di età, ma come un prolungamento biologico (o un surrogato) della maternità.

Non a caso, fino a una ventina di anni fa, il diploma magistrale constava in una maturità “concentrata” in quattro anni, più un eventuale anno integrativo per accedere ad alcuni corsi universitari. Lo Stato poi pensò bene di mettere in discussione il titolo di studio magistrale che lui stesso aveva emesso, decidendo che non bastava più a formare gli insegnanti di scuola primaria. Dopo una sequela avvilente e sfibrante di sentenze miste TAR-Consiglio di Stato, innumerevoli diplomati hanno riconquistato il diritto di accedere alle graduatorie per esercitare il mestiere per il quale avevano studiato: l’insegnante. E oggi?

“Diciamo che la scuola è diventata un ripiego di assunzioni per chi ha un titolo che può far valere – spiega il segretario UIL scuola Carlo Giuffrè – ed effettivamente ora ci sono tante figure maschili che nella scuola primaria prima non c’erano”.

Nel mare magnum del reclutamento generale, dettato dalla situazione inedita che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, non mancano paradossi. Come il caso segnalatoci da un’insegnante in Veneto, che nell’accogliere un supplente poco più che ventenne alla sua prima esperienza, si è sentita chiedere quanti anni avessero i bambini di prima elementare. Non serve alcun titolo per saperlo: basta aver frequentato personalmente la prima elementare.

“Mi sembra strano e paradossale – commenta il segretario – perché mentre la vecchia guardia con il diploma conseguito entro il 2001/2002 aveva solo la maturità, i giovani oggi hanno dovuto conseguire la laurea in Scienze della Formazione Primaria, cioè hanno fatto un percorso di studi specifico. Mi sembra assurdo quanto segnalato, se non altro perché questo supplente dovrebbe conoscere l’età evolutiva dei bambini”.

Insegnanti italiani pagati il 30% in meno dei colleghi europei. E nessun aumento in vista

Rispetto alla media europea, spiega ancora Giuffrè, lo stipendio dell’insegnante italiano accusa un differenziale di media del 30% più basso. E la situazione non sembra destinata a cambiare. Nonostante le richieste di prestazioni e di responsabilità personale sempre maggiori e sempre più pressanti correlate all’emergenza, nessun aumento è stato previsto per gli stipendi. Ma i corposi stanziamenti giunti dall’UE per la rinascita, almeno in parte destinati anche alla scuola, hanno contribuito allo scioglimento di annosi problemi, come le aule sovraffollate?

Assolutamente no”, continua Giuffrè. “Non sono stati messi meno bambini nelle aule. Quando c’è stata l’emergenza in prima battuta, nell’estate 2020, Comuni e non solo si erano adoperati per il reperimento delle aule. Qualcosina era saltato fuori, quasi nulla. Un quasi nulla completamente sparito nel settembre del 2021. Le scuole hanno le stesse aule che avevano: non sono state adeguate all’emergenza COVID-19, nel senso che dovevano essere fornite di impianti di aereazione e altro. A parte qualche scuola, qualche caso sporadico. Nel complesso la situazione aule non è cambiata”.

E aumenti all’orizzonte? “C’è un patto con il ministro Bianchi del maggio 2021, che ha dichiarato che gli stipendi degli insegnanti italiani sono troppo bassi e bisogna adeguarli. Bisogna riconoscere la professionalità. In questa frase c’è tutto – sorride amaramente Giuffrè – ma di fatto niente. Nel senso che le risorse per un contratto che colmi il divario con l’Europa e risponda alla professionalità maggiore dei nostri insegnanti, oggi, non ci sono”.

Una stortura italiana: se la scuola sostituisce lo stato sociale

La maggior parte dei docenti di primaria sono donne, che notoriamente non mollano. Inoltre lo Stato italiano, a prescindere dal colore dei governi che si sono susseguiti nei decenni, ha avuto tutto l’interesse a far coincidere lo stato sociale – che di fatto non c’è – con la scuola. Come se “la scuola” fosse un’entità astratta, e non fatta di persone, di professionisti con tutto il diritto di avere il tempo di disconnessione. E di alunni, con famiglie che non possono trovare che nella scuola un porto sicuro per i figli quando i genitori sono al lavoro.

Nel resto del mondo però la scuola è pubblica istruzione e lo stato sociale esiste: nel pomeriggio i bambini mangiano al sicuro con dei tutor di Stato, riposano, svolgono il lavoro di apprendimento individuale accompagnati da figure professionali diverse dagli insegnanti. In Italia le due cose si fondono, spesso malamente perché mancano le strutture, e si confondono.

“Sono assolutamente d’accordo”, asserisce Giuffrè. “Per noi la scuola non è un servizio a domanda, ma un preciso dovere: è compito dello Stato formare i bambini per farli crescere e portarli poi alle medie, alle superiori ed eventualmente all’università”.

La scuola azienda e gli alunni iscritti a chi offre di più

Il fatto però che i genitori possano iscrivere i figli non solo nella scuola di prossimità, ma anche in quella che preferiscono per orario o altro, ha scatenato ormai da anni tra i dirigenti scolastici (ex presidi) una sorta di tacito mercanteggiamento con le famiglie, una corsa a chi si accaparra più “clienti” (gli alunni), con tanto di linguaggio aziendale direttamente mutuato dalle multinazionali. Gli insegnanti sono chiamati a fare sempre di più, a rinunciare alla dignità professionale in vari modi, non ultimo il pranzo pagato ma non consumato nelle mense scolastiche, che altro non sono che stanze ricavate o rosicchiate da ex aule o palestre (di conseguenza ridotte a dimensioni scandalose).

Dove e come lavorano i docenti non conta. Basta che i bambini possano essere parcheggiati quanto più a lungo possibile, in sicurezza da genitori che hanno la colpa di lavorare e che all’orizzonte non vedono altra alternativa di Stato.

Noi siamo profondamente contrari alla scuola azienda”, conclude Giuffrè. “Semplicemente le famiglie dovrebbero poter iscrivere i figli nel bacino d’utenza, cioè nella zona di residenza, soprattutto nelle grandi città. Certo, ti do la scuola pubblica, ma quella più vicino a casa tua. Altrimenti c’è la scuola privata, la scuola paritaria. Uno paga e fa e chiede quello che vuole. Sono quelle che io chiamo ‘scuole a scopo di lucro’. Quanto ai dirigenti ‘manager della scuola’, che fanno gli open day, fanno l’offerta formativa e altro per attirare iscrizioni, non hanno capito che di fatto la scuola deve puntare di più sulla qualità e non sulle quantità delle offerte. Per cui non si deve dare un’offerta di tutti i tipi, ma un’offerta di qualità”. 

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