Le Marche non sono la nuova Toscana

Dal mare delle bandiere blu e della Riviera al tour dei borghi, dalle inedite location per matrimoni – gli svedesi pare che vadano pazzi per queste cose – alla vacanza nei casolari rurali, dagli eventi sportivi come l’X-Masters di Senigallia, ai tour del gusto fino al crescente turismo itinerante con camper e moto. E ancora, […]

Dal mare delle bandiere blu e della Riviera al tour dei borghi, dalle inedite location per matrimoni – gli svedesi pare che vadano pazzi per queste cose – alla vacanza nei casolari rurali, dagli eventi sportivi come l’X-Masters di Senigallia, ai tour del gusto fino al crescente turismo itinerante con camper e moto. E ancora, gli eventi come il Summer Jamboree, le destinazioni di charme, un segmento di nicchia che offre mete meno battute con strutture ricettive affascinanti quali ville, casali, ma anche ex fienili o laboratori riconvertiti. C’è tutto questo nelle Marche, un’offerta turistica con pochi eguali in Italia, eppure la “regione al plurale” continua a presentarsi, nei cataloghi dei tour operator internazionali, come un surrogato. Un’alternativa alla Toscana, o peggio ancora “la nuova Toscana”. Come se queste due regioni avessero dei tratti in comune, casolari a parte.

 

Mare, mare, mare cosa son venuto a fare?

Nonostante il turismo abbia potenzialità di grande traino per l’intero sistema economico e pesi il 3,5% sul Pil, il grande problema (restando sul dato) è che le presenze sono troppo dipendenti da Gran Bretagna, collegata con il volo Londra-Ancona, uno dei primi in assoluto di Ryanair nel nostro Paese, e Germania. Ben il 40% delle presenze straniere vengono da lì.

Numeri alla mano, fuori dall’Europa Continentale, a parte Dustin Hoffman ça va sans dire, nessuno sa che cosa e dove siano le Marche. L’altro numero che desta preoccupazione è quello dei giorni medi di permanenza (la fonte è un famoso tour operator locale del pesarese). Se gli stranieri si fermano 5-6 giorni, gli italiani restano nelle Marche per 5. Troppo poco tempo rispetto a regioni come la Sicilia, il Veneto, la Puglia, dove il soggiorno medio supera i sette giorni. E poi c’è la prevalenza della destinazione mare (70%) in una regione in cui – non si offenda nessuno – non c’è né la predisposizione all’ospitalità romagnola, né la bellezza dei fondali tipico di posti come la Calabria, il Salento, la Sicilia e la Sardegna. Traduzione: manca l’indimenticabile, o quanto meno non viene venduto. È il solito problema del surrogato.

 

Che cos’è indimenticabile?

Una breve storia, pubblicata nel libro Momenti che contano (dei fratelli Heath) ce lo spiega. Il Magic Castle Hotel è uno degli alberghi più apprezzati di Los Angeles. Le valutazioni sono stupefacenti: in oltre 2900 recensioni pubblicate, più del 93% degli ospiti lo giudica “eccellente” o “ottimo“. Ma c’è qualcosa di strano nella classificazione dell’albergo: scorrendo le foto che si trovano sul web non direste mai: “Questo è uno dei migliori alberghi di L.A”. Nel cortile interno c’è una piscina che si potrebbe definire olimpionica solo se le Olimpiadi si disputassero nel giardinetto di casa vostra. Le stanze sono antiquate, i mobili sono economici, e quasi tutte le pareti sono nude. Persino la parola “hotel” sembra esagerata. È un Motel rispettabile, ma non è il Four Season.

Come fa a essere uno degli alberghi più apprezzati di Los Angeles?

Molto lo deve al telefono color rosso ciliegia installato su un muro accanto alla piscina. Tiri su la cornetta e qualcuno risponde: “Hello, Popsicle Hotline”. Ordini e, pochi minuti dopo, un cameriere in guanti bianchi ti porta il tuo ghiacciolo alla ciliegia, all’arancia o all’uva sul bordo della piscina. Su un vassoio d’argento. Gratis.

Le recensioni degli ospiti del Magic Castle Hotel sono entusiastiche. I suoi gestori hanno capito che per fare felici i clienti non devono preoccuparsi di ogni minimo dettaglio. I clienti accetteranno piscine e camere modeste, a condizione che alcuni momenti siano veramente magici. Nel contesto di una vacanza sono fattori determinanti.

 

Come si dice storytelling in marchigiano?

Perché nelle Marche si investe tanto nella promozione dello “storytelling” – per una volta utilizzerò questo termine in maniera negativa – e così poco sui “magic moments”? E perché sono tutti convinti che basti fare il verso a una regione così lontana storicamente e culturalmente parlando?

Vi faccio degli esempi pratici. Se andate a Mezzavalle (Ancona, è una delle spiagge più caratteristiche d’Europa, per arrivarci dovrete scendere lungo un sentiero che implica fatica, sudore e preghiere) farete fatica a trovare qualcosa di veramente tipico nei pressi della spiaggia. La convinzione che basti offrire “qualcosa da mangiare” per poter alzare il prezzo di un panino a 7 euro è molto diffusa. Ma l’esperienza non è né gourmet, né tipica. Il chioschetto accanto alla spiaggia non vende moscioli (sono le cozze anconetane) e Rosso Conero. A Senigallia, altra nota località balneare, non mancano i ristoranti di altissima qualità. È recentissima la notizia della terza stella Michelin a Mauro Uliassi. Paolo Brunelli è un’eccellenza del gelato, Moreno Cedroni uno degli chef più innovativi. Per il resto la qualità media di un pasto “street food” o meglio “beach food” è molto bassa, parecchio costosa, poco marchigiana.

“Come per ogni località – mi spiega Michela Mazzotti, consulente e formatrice in ambito web marketing turistico – ciascuna deve trovare la propria unicità. Il traino Toscana è forte pur tutti, non solo per le Marche, ma comunicare i veri valori di un territorio è l’unico modo per creare uno storytelling coerente, coinvolgente ed efficace”.

 

Gli scozzesi hanno inventato il Còsagach

Su questo delicato equilibrio tra convenienza e bellezza dei territori da una parte e criticità e modifica dei comportamenti del turista dall’altra convivono le 5.687 strutture ricettive (con 221.421 posti letto) della regione, con quelle stagionali che sono sempre più in bilico tra sopravvivenza e chiusura. Già, perché una cosa che non abbiamo detto è che la maggior parte delle visite avviene in estate. Peccato, perché la “nuova Toscana” (sentite come suona male?) è meravigliosa in autunno, fotografica in primavera – dove sono gli influencer quando servono veramente? – affascinanti di inverno.

Basti pensare che gli scozzesi si sono inventati un termine per descrivere la sensazione di felicità tipica di quando fuori è freddo e tu sei dentro un pub, al caldo, a bere una birra. Si chiama Còsagach e significa “accogliente, riparato: una vecchia parola scozzese che veniva pronunciata quando si voleva far capire agli altri di sentirsi bene, al riparo e al caldo. Qualche esempio? Trascorrere del tempo a riflettere, oppure sdraiati accanto al fuoco con un bicchiere di whisky (scozzese ovviamente) o sidro; o ancora rannicchiarsi con un romanzo e una coperta, magari in tartan. L’ente del turismo scozzese indica la Scozia come il luogo perfetto per rilassarsi in questo modo accogliente e rilassante durante l’inverno specie nelle Highlands, le terre del nord della Scozia, famose per il whisky e per i climi rigidi.

 

“Non è un segreto che la Scozia possa avere, a volte, condizioni meteorologiche piuttosto aspre e feroci. In inverno, quando le tempeste imperversano e le onde si infrangono contro le rocce, non c’è nulla di più soddisfacente dell’essere rannicchiati davanti al fuoco, libro e un bicchiere in mano, osservando il tempo fuori.”

Ecco, come trasformare un problema in opportunità, un non-luogo in un luogo.

Altro che i fuochi d’artificio del 30 agosto e l’aereo con la scritta “Arrivederci Estate”, la cui traduzione, come scrive il bravissimo Fabio Genovesi nel suo libro Morte dei Marmi vuol dire: grazie di tutto turisti, è stato bello però adesso fuori dai coglioni.

 

“Nuova Toscana”? Chiedetelo a chi ci vive

Le Marche hanno una diversità elevata, un potenziale enorme che si adatta a un turismo sofisticato, di alta qualità, disposto persino a pagare qualcosa in più.

“È un’assurdità affiancare la propria regione a un’altra, per identificarla. È una mancanza di conoscenza di fondo della propria destinazione – spiega Leonardo Prati, consulente e formatore di web & social media marketing turistico – oppure deriva dal non sapere come raccontarla. Dando come punto di riferimento un’altra regione che sappiamo essere una delle principali mete soprattutto del turismo estero, facciamo un errore di marketing. Il motivo di questa ispirazione? La Toscana è una regione che ha saputo valorizzare il proprio entroterra.”

“Uno dei crucci che hanno le regioni che hanno un forte turismo balneare è quello di raccontare, appunto, l’entroterra. Perché si sentono in difetto a non valorizzare quello che ha la regione oltre il mare, oltre gli ombrelloni. La risposta è l’umiltà. Solo con l’umiltà si possono riscoprire i propri valori e si riesce a vendere i ‘non luoghi’, quelli non ancora raccontati, quelli che non troviamo nelle riviste dei tour operator o nei blog degli influencer. Magari facendoli raccontare dalle persone che vivono quei luoghi e non da ‘prodotti importati’ come Dustin Hoffman. La ricetta è quella di utilizzare le risorse locali, e i primi storyteller sono gli anziani del luogo. Coloro che hanno visto le trasformazioni del luogo, le evoluzioni, e al tempo stesso sono i custodi delle peculiarità di una regione meravigliosa come quella delle Marche.”

 

L’esempio della Valle d’Itria

Bisognerebbe seguire degli esempi virtuosi che non vadano soltanto nella direzione di una regione (la Toscana) ma di tante macro-regioni. L’esempio che porto è quella della mia regione d’origine, la Puglia. Con il passare degli anni un pubblico fedele e più altospendente si è spostato dal mare alla valle; precisamente, la Valle d’Itria. Ville e casolari distanti circa 15-20 km dal mare vengono affittati per 3-4 mesi, creando un indotto non indifferente a tutta la zona. Una zona che comprende tre province: Bari, Taranto, Brindisi (e centri come Ostuni, Locorotondo, Martina Franca e Cisternino).

Perché la gente sceglie la Valle d’Itria? Perché qui può trovare quello che in città non trova più, non il contrario. La spesa nel piccolo negozio di alimentari, il caseificio, la macelleria, l’enoteca, la sagra delle orecchiette. Il telefono che non prende, il tempo che si ferma, la festa del Santo Patrono dove capita di vedere Madonna che balla la pizzica. Una contaminazione che tiene contro delle tradizioni, non le violenta, e fa felici tutti.

 

Le Marche, al plurale

Vicino Jesi, provincia di Ancona, c’è un posto bellissimo chiamato Vallesina che non ha nulla a che fare con la Toscana, ma ha molti punti in comune con la Valle d’Itria. Dalle colline di San Marcello, Belvedere Ostrense, Ostra Vetere si vede il mare. A giugno lo spettacolo dei girasoli costringe le macchine a fermarsi per scattare una foto.

Lo storytelling deve servire a raccontare e vendere qualcosa che non tutti vedono, non un surrogato. Le Marche sono molto di più di una regione balneare: sono la terra dei poeti, dei laghi di Pilato, della vecchia Casteldurante, della crescia di Genga e del salame di Fabriano. E ancora di Arquata, Ascoli Piceno, dello Sferisterio di Macerata, dei vicoli di Monte Urano che hanno fatto innamorare Pupi Avati e Cesare Cremonini. Le Marche sono una regione al plurale, che non può non ispirarsi a una pluralità di offerte turistiche; non al surrogato e al luogo comune della “nuova Toscana”. Perché a furia di aspettare di essere nuovi, stiamo diventando vecchi. E poco ospitali.

 

Photo credits by Ionut Burloiu

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