Leadership femminile non è un ossimoro

Quando si parla di leadership, non posso non pensare alla politica e a una foto del 2008 che è sintomatica: Angela Merkel, al G8 di Tokyo, è l’unica donna capo di Stato presente nell’immagine del vertice internazionale delle maggiori potenze mondiali. Che sia da sempre un sostantivo maschile e non femminile? Pare proprio così se, […]

Quando si parla di leadership, non posso non pensare alla politica e a una foto del 2008 che è sintomatica: Angela Merkel, al G8 di Tokyo, è l’unica donna capo di Stato presente nell’immagine del vertice internazionale delle maggiori potenze mondiali. Che sia da sempre un sostantivo maschile e non femminile?

Pare proprio così se, tornando a distanza di 10 anni in Giappone (questa volta ad Osaka), allargando la platea dei Paesi, la situazione non è migliorata affatto. Anche nella foto ufficiale del G20 dello scorso anno, le donne capo di Stato sono due: Theresa May (già sostituita al 10 di Downing Street da Boris Johnson a causa della Brexit) e, appunto, Angela Merkel. La cancelliera tedesca resiste, ma ancora per poco se pare ormai certo che sarà il 2021 l’anno della sua prossima e ormai imminente uscita di scena dal panorama politico internazionale.

Eppure, nella foto di Osaka, c’è una terza donna che pur non essendo a capo di nessun Paese in realtà ha guidato prima il Fondo monetario internazionale dal 2011, prendendo il posto del discusso Dominique Strauss Kahn, per poi guidare la Banca Centrale Europea dopo l’uscita di Mario Draghi: lei è Christine Lagarde. Guida istituzioni importanti, ma sembra essere davvero la classica eccezione che conferma la regola: le donne ai vertici sono sempre troppo poche.

L’ultimo e più recente messaggio di speranza è arrivato recentemente dalla Finlandia con l’elezione di Sanna Marin, 34 anni, che è diventata la più giovane prima ministra al mondo, seguita da un’altra prima ministra che, anche quando venne eletta nel 2018, rappresentava la più giovane con i suoi 37 anni: nel frattempo ha anche partorito una figlia, rispondendo ai giornalisti che le chiedevano come avrebbe fatto con il lavoro durante la gravidanza: “Non sono malata, sono incinta”.

Ma se pensiamo che l’empowerment femminile debba significare anche rivoluzionare la subordinazione di genere, c’è ancora da fare molta strada.

 

Un caso di leadership femminile di successo: Simona Bosello

Indubbiamente il nostro Paese paga lo scotto di una cultura ancora troppo patriarcale, nonostante i grandi sforzi che stiamo cercando di praticare anche da parte delle stesse donne italiane, che hanno ruoli di leadership in contesti multinazionali e si confrontano quotidianamente con team internazionali. Affrontano un processo chiamato Cross-Cultural Management, che si pone come obiettivo strategico quello di valorizzare al meglio le differenze culturali all’interno delle aziende nazionali e internazionali, comprendendo le differenze, integrandole e creando le opportune sinergie per migliorare non solo il business d’impresa ma anche, allo stesso tempo, il clima aziendale.

Simona Bosello è senz’altro una di queste: si laurea in Bocconi in Relazioni e affari internazionali e ottiene un Master of Business Administration (MBA) alla MIB Trieste School of Management. Entra in Philip Morris e, “dopo un pò di palestra”, a 29 anni viene spedita in Liguria come capo area vendite, a gestire un team di sette persone formato solo da uomini, rigorosamente over 50.

Simona Bosello, dopo aver attraversato diversi Paesi in diversi ruoli ora vive a Basilea e lavora per Novartis.

 

“Fui completamente catapultata in una realtà dove saltavano immediatamente all’occhio due oggettive differenze tra me e loro: di età e di genere. Gestire persone da donna in Italia è diverso per la cultura che contraddistingue il nostro Paese. È stata per me come una sorta di nave scuola, per imparare come si fa a gestire le persone. Il compito del capo area poi era quello di creare un clima di fiducia nei tuoi confronti, e quando la fiducia non basta più diventa problematico convincere il team a uscire dalla sua zona di comfort. Ma la pratica sul campo ti insegna due cose fondamentali: come si ottiene rispetto e come si dà rispetto”.

Simona ne ha fatta di strada, non solo metaforicamente. Dopo la Philip Morris passa a Gsk, dove in dodici anni ha attraversato città e Paesi insieme a diverse funzioni aziendali, muovendosi con fluidità tra Parigi, Londra, Johannesburg e l’Asia, con un intermezzo di anno sabbatico che le ha permesso anche di essere protagonista di attività di volontariato in Cambogia e Nepal. Adesso Simona sorride dalla sua nuova casa di Basilea, in collegamento via Skype. Ora lavora per Novartis, ma questa volta il passaggio non è stato così semplice e immediato.

Nulla è stato semplice. Mi viene in mente quando a Londra la responsabile di tutto il dipartimento è stata una donna molto brava e professionale. Era anche bellissima, ma questo nessuno l’ha mai trovato un vantaggio: le sue competenze non consentivano a nessuno di pensarlo neppure per un secondo, perché la sua autorevolezza non lasciava dubbio alcuno. L’ho capito quando, durante la mia esperienza in Sudafrica, gestivo direttamente dieci persone, comprendendo bene quanto volessi essere un capo autorevole e non autoritario. A Londra avevo trovato proprio in lei un capo autorevole e mai autoritario. Mi era anche capitato di lavorare con un capo uomo, che arrivava dalla consulenza, che invece lo era. Si dimostrava forte nelle hard skill ed era autoritario nella sua leadership.”

 

I tratti distintivi dei capi autoritari

Chiunque abbia avuto la fortuna di avere dei capi che siano stati fonte di ispirazione per come sapessero gestire la responsabilità di un ruolo delicato e strategico allo stesso tempo sa di che cosa si discute: di come l’arte del comando non sia affatto facile. E, onestamente, di come non sia per tutti.

Simona racconta come ha guidato il team nella sua esperienza in Africa: “Sono stata – come detto – un capo autorevole e mai autoritario e, resilient: ho imparato a delegare, è importante lasciare campo alle potenzialità del tuo team, a maggior ragione quando provieni da un’altra cultura rispetto alla loro. È un driver strategico. Per esempio: io soffrendo i capi autoritari, come potevo esserlo?”

In effetti, confrontandoci con Simona sui capi autoritari, cioè quelli che guidano un team utilizzando esclusivamente l’autorità del loro ruolo, si denotano due tratti fondamentali:

  • maniacalità del controllo;
  • mancanza di fiducia nel team a causa di una insicurezza del capo, causata proprio dal ruolo che ricopre.

“Nella mia squadra sbagliare e avere la possibilità di farlo è fondamentale: metti passione e impegno in quello che fai, anche all’80% delle tue possibilità?  Se sei un capo autorevole e la tua autorevolezza è riconosciuta, puoi dare i feedback necessari al tuo team per migliorare. Mi dispiace dirlo ma in Italia la vedo difficile: la cultura del feedback non c’è, semplicemente perché troppo spesso, se non sempre, vige il principio dell’autorità.”

 

All’autorevolezza si dà del tu

In effetti spesso chi ha la leadership non è detto che sia un capo, così come un capo non è detto che abbia la giusta leadership riconosciuta dal team, che probabilmente dirige, ma non guida. Ricordo anni fa che un capo uomo mi disse tranquillamente che sbagliavo a dare del tu alle persone del team, perché con il lei si mantenevano le giuste distanze. L’ho sempre trovata una convinzione tutta sua che su di me non ha mai avuto alcuna presa; l’accettai perché si trattava di una richiesta da seguire obbligatoriamente, tipica di un capo autoritario quale lui era. Quando iniziai a collaborare con una sua socia fu tutta un’altra musica.

Mi sono confrontato sia con capi uomini che con capi donna, ma non mi sono mai posto in maniera diversa in base al genere: ho sempre basato la mia valutazione sulle competenze reali e oggettive dei miei capi. Continuo a pensare che la distanza del lei o la vicinanza del tu non debbano cambiare il giudizio di e sul merito della persona che ho davanti, sia come collaboratore che come capo.

Simona mi ascolta, sorride e afferma: “La mia autorevolezza non viene meno se mi dai del tu o del lei. Tutti mi danno del tu. E sulla gestione dei talenti ti dico anche che ogni volta che ho fatto crescere professionalmente le persone del mio staff, l’ho fatto in modo concreto. Infatti, se lasciavo una unit, ero felice di lasciarla guidare a una di loro: significava che ero stata all’altezza del compito di gestire i talenti che mi erano stati messi a disposizione”.

Parliamo del ricollocarsi professionalmente anche dopo anni di esperienze nel mondo del lavoro. Simona per non sbagliare ha pensato bene di iscriversi nuovamente a un corso di laurea a Londra, settore – ovviamente – del Global Health. What else?

“L’ho fatto per me. Poi con l’aiuto di una coach ho intrapreso un nuovo percorso, decisamente intenso, dove non avendo più appigli e uscendo anche io dalla mia comfort zone, sono entrata in una zona di rischio, e ciò genera insicurezza. Non ti dico che sia stato facile, tutt’altro. Ora vivo a Basilea e lavoro per Novartis.”.

Come diceva Tiziano Terzani, autore per cui condividiamo la passione sconfinata, per Simona inizia Un altro giro di giostra. E allora, buon giro.

 

 

Photo by Lucas Sankey on Unsplash

CONDIVIDI

Leggi anche

Il Lato A di Massimo Tammaro

Scarica il podcast della puntata I’m a very lucky man and a dreamer. È la frase che apre il suo profilo e che sintetizza la storia di Massimo Tammaro, rendendo perfettamente il senso dei suoi valori e del suo approccio alla vita. Nato a Savona dove ha vissuto sino alla fine del liceo, prima di […]

Fear of ignorance in 135 bullet points

Translated by Allen Montrasio, teacher @John Peter Sloan, la Scuola. I am convinced that ignorance has allowed humans to progress. Reading the dictionary definition of the noun “ignorance”, we can see that this related to unawareness and lack of knowledge, due to never having dealt with something or never having heard of it. Two perfect […]

“Made in Italy”: what does it really mean?

In the 1950s, a time of pioneers of trade without borders, this was a disturbing and perhaps less than obvious question. The protagonists of that time were first-generation entrepreneurs of small businesses who answered the question by initiating a process of assimilation with the economic achievements of the Free World. “Made in Germany” was their […]