Libertà di stampa vigilata: col decreto Cartabia i giornali li fanno i magistrati

Il nuovo decreto rischia di compromettere la cronaca nera e giudiziaria. L’allarme diramato dal Gruppo Cronisti Lombardi e dall’Associazione Lombarda dei Giornalisti: “Ma una parte della Giustizia non è d’accordo, mentre una parte dei giornali lo è”. Intervistiamo Fabrizio Cassinelli dell’ANSA, Maria Fiore de “La Provincia Pavese” e Cesare Giuzzi del “Corriere della Sera”.

Il nuovo decreto rischia di compromettere la cronaca nera e giudiziaria. L’allarme diramato dal Gruppo Cronisti Lombardi e dall’Associazione Lombarda dei Giornalisti: “Ma una parte della Giustizia non è d’accordo, mentre una parte dei giornali lo è”. Intervistiamo Fabrizio Cassinelli dell’ANSA, Maria Fiore de “La Provincia Pavese” e Cesare Giuzzi del “Corriere della Sera”.

Marchettari, venduti, incapaci, pennivendoli. Questo è solo un assaggio della corposa e rovente lista di epiteti che spesso bersaglia coloro che lavorano nell’informazione, alias giornalisti. Un campo minato dove non mancano esempi negativi, senza per questo dimenticare che ne esistono tanti altri caratterizzati da correttezza e autentica professionalità. Un connubio, quest’ultimo, che il pubblico di fruitori dell’informazione sembra riconoscere soprattutto nel momento in cui rileva la così tanto decantata libertà di stampa.

Ma che cosa succederebbe se questa libertà venisse compromessa a priori da provvedimenti calati dall’alto, costringendo giornalisti e giornaliste a trasformarsi, loro malgrado, in portantini di notizie già preconfezionate e filtrate? Lo sgretolamento dell’informazione in realtà sta già avvenendo davanti ai nostri occhi, e in pochi se ne rendono conto.

A lanciare forte e chiaro l’allarme è il Gruppo Cronisti Lombardi dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti in occasione del Milano Press Report 2021, il bilancio sullo stato dell’informazione giunto alla sua terza edizione, in cui si parla di “crescenti zone d’ombra nella libertà di stampa e ristringimento degli spazi di cronaca”, con un conseguente svilimento della professione giornalistica. Una degenerazione accelerata a partire dalla messa in pratica del decreto Cartabia, come scopriamo confrontandoci con tre voci del giornalismo attuale che il diritto di cronaca cercano di difenderlo ogni giorno.

Fabrizio Cassinelli, ANSA: “Col decreto Cartabia i magistrati decidono quali notizie devono uscire”

“Con l’applicazione del decreto Cartabia gli effetti sulla libertà di stampa e sul diritto di cronaca sono devastanti”.

Non usa mezzi termini Fabrizio Cassinelli, giornalista dell’ANSA e dal 2019 presidente del Gruppo Cronisti Lombardi.

“Questo decreto ha cambiato completamente i rapporti tra i giornalisti e le istituzioni investigative e giudiziarie. Le fonti con cui confrontarsi rischiano di essere tutte tacitate: noi cronisti possiamo parlare sempre meno con le fonti giudiziarie e le forze dell’ordine, e capita che si neghino perché non autorizzate; occorre attendere le comunicazioni autorizzate. Inoltre come canali di comunicazione vengono utilizzati prevalentemente email e messaggi WhatsApp, che difficilmente lasciano spazio a un contraddittorio. Questa situazione sta devastando totalmente la possibilità dei cronisti di raccontare la realtà, e a perderci è soprattutto la gente, che rischia di non sapere come stanno veramente le cose. A quale enorme conflitto di interessi ci troviamo di fronte quando un gruppo di magistrati decide che cosa deve uscire e cosa no?”.

Confronto messo a tappeto, procuratori capo che diventano setacci di notizie da comunicare o meno, redazioni trasformate in distaccamenti ufficio stampa: la cronaca, quella vera, che scantona i canali dell’edulcorazione e veicola i fatti, sembra destinata a un vicolo cieco. Perché questa deformazione scaturita da un decreto?

Cassinelli chiarisce subito: “Non contestiamo il decreto Cartabia in sé, perché non siamo dei giuristi, e inoltre crediamo nella buona fede dell’intento, ossia di limitare i danni nei confronti di chi è sottoposto all’effetto della stampa: ammettiamo che in passato questa abbia abusato delle sue prerogative creando orrori ripetuti sul fronte privacy. Di certo non saliamo sul pulpito. Riteniamo però che l’applicazione del decreto a livello dell’informazione sia totalmente sbagliata, perché gli effetti sulla democrazia e sulla libertà di stampa sono gravissimi e reali. Basta solo pensare all’aspetto dell’autorizzazione delle notizie: verranno fatte passare quelle che mettono in cattiva luce l’operato giudiziario oppure quelle che fanno fare bella figura? Nel momento in cui la stampa può accedere solo a cose positive e non negative significa che viene usata, e questo porta a una narrazione distorta della realtà”.

Il decreto Cartabia ha valenza nazionale, ma la questione degli impatti negativi sull’informazione viene evidenziata particolarmente in Lombardia. C’è un motivo? “Il problema non è limitato alla sola Lombardia; va però detto che in questa Regione le problematiche legate al settore si evidenziano in maniera macroscopica, è una sorta di cartina tornasole. Le segnalazioni da parte dei colleghi sono tantissime”.

Lo spacco nella categoria: “A molti giornali questa situazione va bene”

Fabrizio Cassinelli afferma che per ora non ci sono proposte di rimodulazione sulla parte del decreto relativa all’informazione. Tutto tace. Nel frattempo a contenere il decibel di questa denuncia è però una dinamica paradossale, dove i grandi assenti spesso sono i giornali stessi, come ci rivela Cassinelli senza reticenze: “Manca la cassa di risonanza da parte dei media perché a molti direttori e anche editori questa situazione va bene: se arriva la velina già preparata nessuna delle testate resterà sprovvista della notizia, e soprattutto non avrà bisogno di andarla a cercare”.

E gli agognati scoop che fine faranno? “Non importa più, ai giornali interessa soprattutto evitare i buchi di informazione e se tutto è già confezionato e disponibile per loro è meglio. Parliamo di un settore compromesso dalla crisi economica, che risparmia sul personale e sulle uscite dei giornalisti: la demolizione della cronaca nera e giudiziaria viene tranquillamente assorbita nel processo di questa ‘economia’. Se si continua così tra cinque anni le nuove leve non sapranno nemmeno che cosa significhi fare questo tipo di lavoro: scavare per cercare le notizie. La devastazione dell’informazione rischia di essere grave e duratura anche per i cittadini stessi”.

A questo punto ci domandiamo: esiste il rischio concreto che la figura del/della cronista scompaia del tutto? “Se l’applicazione della materia d’informazione di questo decreto non dovesse essere rivista la cronaca nera e quella giudiziaria rischiano di essere completamente compromesse”. Detta fuori dai denti, con l’attenzione cannibalizzata anche dagli eventi del periodo, la gente non sembra essere consapevole di questa situazione, e nemmeno conoscere il decreto Cartabia.

“Infatti non lo sa”, chiosa Cassinelli. “Il nostro Press Report è stato fatto proprio perché non deve passare l’idea che le cose vadano bene. Forse c’è anche chi ha visto con benevolenza questa forma di ‘protezione’ senza rendersi conto che cosa comporti per la verità e per la giustizia, dimenticando che la seconda non può mai esistere senza la prima”.

Maria Fiore, La Provincia Pavese: “I cronisti giudiziari, una specie in via d’estinzione”

Passione e croce”. Definisce così il proprio lavoro Maria Fiore, giornalista professionista del quotidiano La Provincia Pavese, che da circa 18 anni si occupa di cronaca giudiziaria e nera. Un lavoro scomodo, il suo, e per nulla adagiato, vissuto tutto sul campo, con lo scotto da pagare di stress e tante energie assorbite; ma è un lavoro in cui crede al punto da difenderne l’autenticità, se minacciata.

“Oggi in particolare chi fa cronaca giudiziaria sembra essere una specie in via d’estinzione per due motivi: la sfiducia da parte delle persone nel sistema giustizia e la crisi di un’informazione investita sempre meno sul campo”. Fiore ci immerge in uno stralcio della sua quotidianità: “Si tratta di un settore poco ambito, ritenuto legato al passato, ma molto importante e delicato, fatto di relazioni e confronto diretto con fonti confidenziali appartenenti al mondo dei tribunali e delle forze dell’ordine”.

E proprio questo mosaico di relazioni, che consentono di concretizzare un lavoro meticoloso di cronaca vera, sembra collassare con l’applicazione del decreto Cartabia. Ma ammettiamolo: già prima, per chi faceva cronaca giudiziaria, non erano tutte rose e fiori sul fronte libertà di stampa. “Certo, in questo settore specifico c’è il rischio perenne di querele, spesso con scopo intimidatorio, e le pressioni dal mondo politico o imprenditoriale non sono mancate. Io sono arrivata a collezionarne circa 25: sono la forma di minaccia più subdola perché assorbono tempo ed energie. Ci sono state anche le minacce vere e proprie, che però sono state più facilmente gestibili”. E aggiunge: “In tanti anni di cronaca giudiziaria non ho mai provato la sensazione di mancanza di sostegno da parte del giornale per cui lavoro. Abbiamo a disposizione un ufficio legale. Più che altro è aumentata la prudenza, perché dall’altra parte si querela di più e per ragioni spesso non giustificate. Il rischio di autocensura oggi c’è e le scelte coraggiose sono meno frequenti. Si va con i piedi di piombo perché tempo e risorse investiti non vengono poi risarciti”.

“Strapotere nelle mani del procuratore capo. E i cronisti diventano cani da riporto”

Arriviamo al nocciolo della questione: il decreto Cartabia è stato difeso dalla stessa ministra affermando che la presunzione di innocenza non va a minacciare la libertà d’informazione. Che cosa ne pensa? “In realtà noi cronisti questa difesa della presunzione d’innocenza ce l’avevamo già stampata nel DNA ben prima del decreto: appena iniziamo a scrivere un pezzo di cronaca utilizziamo condizionali e termini come ‘presunti’ e ‘probabili’. Sarebbe bastato trovare delle modalità di comunicazione diverse e migliorative delle notizie da parte delle procure”.

“Da quando a dicembre scorso questo decreto è entrato in vigore gli effetti sul nostro lavoro si sono fatti sentire subito, perché le procure hanno emanato delle circolari molto precise al riguardo. L’unico che può interfacciarsi con la stampa è il procuratore capo, nelle cui mani viene concentrato uno strapotere di comunicazione, e questo non ha nulla a che vedere con la presunzione d’innocenza difesa dal decreto. Come categoria contestiamo soprattutto il fatto che sia il procuratore capo a decidere quali siano o meno le notizie di rilevanza pubblica, prerogativa che dovrebbe essere nostra in quanto giornalisti”.

Barriere che si alzano, filtri che rendono fragile se non inutile la figura giornalistica. La preoccupazione è tangibile: “È un tassello che grava molto sul principio della libertà di stampa e ci impedisce di fare il nostro lavoro in maniera imparziale e libera. La reazione da parte della mia categoria è stata finora troppo debole e alla seduta alla Camera per l’approvazione della legge la categoria stessa era assente. Oggi ci sono realtà che si sono attivate, ma se manca la consapevolezza generale da parte della gente non è sufficiente, si percepisce rassegnazione”.

Preoccupazione che si accompagna alla mancata tutela del lavoro dei cronisti: “Noi cronisti, che prima eravamo i controllori del potere, siamo diventati dei cani di riporto di notizie già impacchettate”.

Cesare Giuzzi, Corsera: “Norme inapplicabili: evitare personalismi significa oscurare i Falcone”

Ci confrontiamo anche con Cesare Giuzzi, giornalista del Corriere della Sera ed ex presidente del Gruppo Cronisti lombardi, di cui fa ancora parte.

Noi cronisti siamo operai dell’informazione”, afferma. Un’informazione osteggiata già prima dell’attivazione del decreto? “Il decreto Cartabia è figlio di numerosi tentativi agiti in passato da parte dei vari governi, in seguito agli scandali che hanno coinvolto figure politiche, per limitare il più possibile quello che i giornalisti potevano riportare dagli atti giudiziari”; a dimostrazione il dibattito partito anni fa sulla disciplina delle intercettazioni.

Giuzzi ribadisce: “Le nostre perplessità sul decreto Cartabia riguardano la riforma relativa alla parte dell’informazione, ritrovandoci a che fare con norme inapplicabili per la nostra professione. Solo il procuratore può parlare; in più c’è l’obbligo di non indicare il nome del magistrato che ha gestito l’indagine per evitare personalismi: ma se si tratta di un lavoro lodevole, senza scadere nel super protagonismo, perché non dire il nome? È come se dovessimo ricordarci della Procura di Palermo e non dei processi istruiti da Giovanni Falcone: non ha senso!”.

“Una parte della giustizia è contraria al decreto. I cronisti seri si occupano della salute dei diritti”

Riflettiamo anche sul fatto che oggi la narrazione sia fortemente personalizzata. “Esatto, così la giustizia viene messa in una posizione anacronistica, così come è anacronistico arrestare una persona e non darne notizia”. Parliamo inoltre della contrarietà rispetto a questa soluzione dimostrata da una parte del mondo giudiziario: “Ho partecipato a un incontro pubblico dov’era presente il procuratore capo Riccardo Targetti, che ha affermato che con questo decreto si arriva a favorire la velina di potere. Ognuno ha le sue competenze: si tratta di una dinamica paradossale che toglie lavoro ai giornalisti e di certo non insegna alle procure a comunicare meglio”.

Domanda da avvocato del diavolo: qualcuno potrebbe dire che il decreto tutela le persone dall’essere sbattute in prima pagina come mostri, come è innegabilmente successo. “Gli abusi dell’informazione vanno puniti e prevenuti in quanto tali, ma non ledendo a priori la libertà di stampa. Se una persona innocente viene arrestata non è colpa dei giornalisti che raccontano il fatto e i suoi sviluppi. Ovviamente noi come categoria dobbiamo avere sempre più cautele e rigore nel rapportarci alla cronaca giudiziaria. Pensiamo al caso Tortora: oggi l’informazione lo racconterebbe ancora, seppur con maggiori cautele. E anche qui bisogna distinguere tra ciò che afferma il giornalista e ciò che compare nei virgolettati, che sono dichiarazioni altrui”.

E riflette: “Ci sono i giornalisti seri di cronaca giudiziaria e su cui metto la mano sul fuoco per il rigore con cui compiono il lavoro. Esistono poi i cosiddetti commentatori, che dietro una scrivania riciclano la notizia con assoluta sciatteria anche per seguire la logica del click: la maggior parte di questi non ha mai messo piede in tribunale, eppure creano il cosiddetto gossip giudiziario che provoca danni alle persone e ai cronisti seri. Questi ultimi, al pari dei medici, che si occupano della salute fisica, si prendono cura della salute dei diritti, perché la storia del nostro Paese passa anche attraverso la storia del potere. Per farlo è necessario difendere la libertà di stampa”.

Dopo tutte queste riflessioni, e soprattutto di fronte a un lavoro che viene in qualche modo messo all’angolo, siamo sicuri di poter ancora dire: “È la stampa bellezza”? No, non possiamo più. Ricordando il bel film di Mazzacurati, La giusta distanza, dove il protagonista è un giovane cronista che riesce a scoprire la cruda verità – e a veicolarla a i lettori e alle lettrici – proprio scavando e avvicinandosi più che mai a persone, voci, storie, viene da pensare che “l’ingiusta distanza” sia una delle ferite più gravi che il diritto di cronaca possa ricevere.

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Photo credits: lanotiziagiornale.it

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