Marco Camisani Calzolari: “Io e il primo progetto sul digitale che oggi è il mio lavoro”

Il divulgatore di cultura digitale per “Striscia la Notizia” a SenzaFiltro: “Ai giovani serve un orientamento che parta da lontano, senza chiedergli che cosa vogliono fare da grandi”.

Luther Blisset era lo pseudonimo collettivo utilizzato negli anni Novanta da un numero indefinito di artisti, performer, riviste alternative, operatori del mondo virtuale. In Italia apparve per la prima volta nel ’94 a Bologna, usato dai primi attivisti che denunciavano superficialità e malafede del sistema mediatico di massa: lo facevano in varie forme, dai libri alle performance, dalle manifestazioni pubbliche ai video, fino alla radio. Da lì a Roma, poi Londra, il nord Europa, la Spagna, qualche traccia persino in Canada, negli Stati Uniti e in Brasile. La genesi del nome era quella del centravanti inglese di origine giamaicana Luther Loide Blissett, che il Milan mise in squadra a metà anni Ottanta. E poi fu proprio da Luther Blisset che nel 2000 si staccò una costola dalla sezione bolognese e alcuni autori letterari formarono il ben più celebre collettivo Wu Ming.

Luther Blisset, in quegli anni, lo usavano per intendere io sono nessuno ma sono tutti. Marco Camisani Calzolari me lo racconta a metà intervista mentre ci tiene a rimarcare che il web è da sempre la possibilità di essere altro rispetto alla nostra identità, ma non vuol dire essere migliori o peggiori: il metro del giudizio è diventato troppo di moda, ed è diventato un gesto troppo di inerzia quando si parla di rete.

Il volto noto del divulgatore di cultura digitale su Striscia la Notizia – le sue rubriche in prima serata sui canali Mediaset partono nel 2017 ma sono piene di utenti appassionati anche sui canali social – in realtà ha una storia parecchio lunga da raccontare. Fino al 2001 il suo pseudonimo era Unopuntozero: scritto in lettere e tutto attaccato. Lui ha un cognome doppio che lo fa dannare tutte le volte che le persone decidono arbitrariamente di chiamarlo solo Camisani o solo Calzolari. Scrive proprio di questo su un post di Facebook, mentre sbobino questa nostra intervista.

«Secondo voi cosa scatta nella mente che gli fa decidere di accorciare e cambiare il mio cognome a caso? Studio il fenomeno da tanti anni ma non ne sono venuto a capo. Uno che si chiama Giannottielli mica lo accorciano in Tielli o Gianno. Forse sarà lo spazio nel mio cognome che confonde.»

Marco Camisani Calzolari, da Unopuntozero a Striscia con «quella laurea che non ho mai dichiarato»

«Erano gli albori di tutto il digitale. Scelsi come pseudonimo Unopuntozero perché in gergo è la prima versione rilasciata di ogni software; nella vita mi chiamavano proprio Uno, molti continuano tuttora a farlo perché proprio non riescono a vedermi come Marco.»

La cosa interessante da cui partire è riflettere sul fatto che tutto il mondo di cui ci si occupa è solo una percezione recente perché fino a dieci anni fa, e sono trenta di carriera quelli che ha sulle spalle, la maggior parte delle persone non riusciva a capire il suo lavoro. Se diceva di occuparsi del marketing o degli aspetti comunicativi legati al business e agli effetti sociali delle tecnologie, veniva percepito soltanto l’aspetto esteriore, soltanto un tassello, una parte.

«“Sto curando la comunicazione digitale di un progetto”, dicevo magari. “Ah, bello. Sai che a me non va più il telefono, mi aiuti?”. Questa era la linea d’ascolto.»

Marco Camisani Calzolari, divulgatore di cultura digitale su Striscia la Notizia

Pseudonimi e altre identità nella rete: ai giovani piace smarcarsi dal vero e ritagliarsi profili di fantasia. Tu di Unopuntozero che cosa hai mantenuto come eredità?

È un aspetto importante perché la condizione che un giovane si ritrova nel mondo fisico non è detto sia la stessa che ha nel mondo digitale. Pensiamo a un giovane che magari vive in provincia, talentuoso, ma che viene bullizzato per mille ragioni: perché non può vivere meglio in un mondo digitale in cui esprimere le sue vere qualità? Si sbaglia nel pensare che il mondo digitale sia alienante a tutti i costi, il digitale non è un ragazzo chiuso al buio in una stanza mentre gioca coi videogame. Non sono uno psicologo e qui mi fermo, ma un certo senso di riscatto ce lo meritiamo tutti se non facciamo niente di male per averlo.

Di te vediamo solo quello che sei diventato e la strada che ti sei tracciato, non sappiamo niente della tua formazione.

Una formazione parecchio anomala la mia, con una laurea in informatica. Intanto lo dico subito: sono sempre stato un cattivo studente perché passavo il tempo a programmare computer, passione incomprensibile in quegli anni, soprattutto considerata senza il minimo futuro a differenza di quello che già accadeva in California. Le informazioni poi andavano lentissime e quello che accadeva dall’altra parte del mondo ce la raccontavano in Italia almeno un paio di anni dopo. Fatto lo scientifico, si trattò di capire dove continuare a studiare, ma il mondo internet non esisteva proprio da noi, oppure era fuori mano per me che a quel tempo abitavo ancora in Liguria; ma stavamo per trasferirci a Milano, dove la strada più compatibile sembrava Scienza dell’informazione. Alla fine invece mi iscrissi a una facoltà svizzera che prometteva di fare qualcosa di rivoluzionario, cioè formarci sull’informatica partendo da principi nuovi, linguaggi e sistemi moderni. Purtroppo i professori non furono all’altezza di quelle materie, purtroppo la stessa facoltà non ha avuto fortune economiche, purtroppo il percorso diventava un po’ alla volta un laureificio, e per questa ragione decisi, alla fine dei miei studi, di omettere sempre e comunque quella mia laurea perché temevo che il loro aver perso reputazione screditasse anche me. Pensa che non me lo hanno mai chiesto, lo racconto qui oggi per la prima volta. Mi sono voluto guadagnare gli incarichi senza inserire la laurea conseguita: anche per le cattedre avute poi alla Statale di Milano, allo IULM o all’Università di Pavia non dichiarai mai la mia laurea.

Il titolo di studio inteso all’italiana è anche un limite.

Proprio così. Molti Paesi non hanno il valore legale del titolo di studio, il che significa che è più importante il percorso che hai fatto piuttosto che il titolo conseguito. E il percorso è più importante di una spunta su una casellina. È così in Inghilterra, negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi. Inoltre è fondamentale intraprendere studi che abbiano una corrispondenza o uno sbocco anche altrove, ma in Italia le parole diventano mode e se ne perde il contesto. Facciamo un esempio per assurdo: un corso di laurea in blockchain, che oggigiorno potrebbe anche essere aperto e avere un senso, magari esiste già con altri termini come corso in informatica e specializzazione in sicurezza o crittografia. Sono equivalenti, ma noi gli diamo meno peso perché non usa quella parola, blockchain. Ecco, queste sono piccole grandi follie: il non saper riconoscere valori simili solo perché non hanno il nome di tendenza, la buzzword.

Ma tu hai potuto orientare, tracciare una strada culturale?

Un merito grande me lo riconosco: trent’anni fa feci il primo progetto in assoluto di divulgazione digitale, ero su Radio Capital con Claudio Cecchetto; era il 1994, ma per i media di massa il tema del digitale è sempre stato considerato una questione secondaria e se ne evidenziavano solo i pericoli, c’era tanta ignoranza. La televisione col passare dei decenni è diventata sempre più un mezzo di intrattenimento passivo e tutti gli spazi culturali li ha assorbiti internet come tendenza. La televisione non era adatta per tracciare la via del digitale perché è pur sempre una dimensione che guarda il dato e misura l’audience. Dopo Radio Capital, nel 2000 approdai a La7, che si chiamava ancora Telemontecarlo, e al programma Mister Web: facevo vedere filmati di intrattenimento. Nella mia carriera non posso dire che non ci siano state aperture, forse le ho sapute intuire anche se i tempi non erano maturi.

Su Striscia la Notizia però non fai solo intrattenimento, fai anche un servizio pubblico, informi, consigli, metti in guardia dalle truffe del digitale.

Oggi siamo in un mondo di aziende guidate solo dai manager, una volta invece c’erano dei signori che prendevano decisioni, si sporcavano le mani immaginando il futuro, signori che rischiavano. I manager sono solo capaci di scelte prudenti e spesso conservative, Antonio Ricci invece fa parte dell’altra categoria: a casa sua amava e ama ancora azzardare. A mandare in crisi il sistema è che nel mondo delle aziende i successi non è detto che te li paghino, ma gli insuccessi li paghi tutti, e quindi molti preferiscono stare un passo indietro e fare solo quello che al momento è considerato un risultato sicuro. Nel mondo della comunicazione digitale questo identico discorso vale anche per le radio: una volta erano guidate da uomini, da un uomo che decideva; una di queste in cui esiste ancora il “capo” è RTL.

Il mondo dei giovani ce l’hai anche in casa, per lo più all’estero dato che hai scelto Londra come città in cui vivere.

Ho due figli, uno che si sta affacciando all’università e uno che sta ancora alle scuole elementari. Qui la grande differenza con l’Italia è che il sistema generale formativo è molto competitivo, da noi c’è un senso di socialità più evoluto, si cerca di far arrivare tutti in fondo al percorso. E questa gara, se vogliamo chiamarla così, inizia già alle elementari, dove si comincia appunto fin da piccoli a dover ottenere buoni voti a scuola per accedere ad altre scuole. Devi immaginarti il futuro dei tuoi figli molti anni
prima, è una catena di risultati. Alle medie, per esempio, le famiglie che possono permetterselo mandano già i figli tutta la settimana fuori Londra a studiare in simil college: a noi italiani, a me per primo, fa quasi orrore l’idea di non vivere il proprio tempo coi figli ancora piccoli.

Fatico a immaginarti dentro un sistema così competitivo e poco libero.

Fai bene. Mio figlio più grande, infatti, un po’ per attitudine e un po’ di sicuro per stile familiare, non si è mai mosso su un percorso simile, ma un dato utile della società londinese va rimarcato: lui tra quattro anni, quando finirà l’università, oltre a quel titolo di studio avrà un gran curriculum perché qui i giovani non stanno fermi, frequentano attività e gruppi sociali, partecipano alle charity fin da ragazzi, dove se per esempio sono bravi a giocare a pallone lo insegnano ai più piccoli. Per non parlare dell’estate: in Italia i ragazzi staccano tutto per tre mesi, errore gravissimo perché buttano via tutto, mentre qui è il momento di fare stage dove non solo vengono pagati, ma soprattutto imparano a conoscere sé stessi. L’orientamento inizia da molto lontano.

A Londra quindi non ci si chiede che cosa farai da grande.

Vale la pena studiare su culture e conoscenze ampie. Nessuno se lo chiede perché, come ripeto sempre a mio figlio, magari il lavoro che farai da grande non esiste ancora. E aggiungo: innamorati di come scoprirlo.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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