I migranti e quel confine con la Francia che separa padri e figlie

Le odissee di chi lascia il proprio Paese per cercare di entrare in Francia dai sentieri del Monginevro: perfino le separazioni più dolorose sono accettabili per chi ha già visto l’inferno del traffico di esseri umani

Migranti al confine con la Francia

Quest’estate ho deciso che avrei offerto le mie competenze, ma soprattutto le mie braccia e le mie gambe, per una causa importante.

Già durante l’anno svolgo attività di volontariato, e volevo operare in qualche centro di ospitalità per vivere a contatto con le situazioni emergenziali che ci sono in Italia. Ho fatto domanda per il centro CRI di Lampedusa, e invece sono stato inviato alla CRI Susa/Bussoleno, che gestisce un Centro Immigrati – arrivati sempre da Lampedusa – nel polo logistico della Protezione Civile in Bussoleno, per il servizio MigrAlps.

Il polo logistico è un centro che ospita circa cento migranti, chiamati in gergo “beneficiari”, in attesa della “protezione internazionale” e dell’inserimento nei paesi di tutta Italia grazie al progetto di accoglienza diffusa.

MigrAlps è un progetto coordinato e finanziato dalla Prefettura di Torino e condiviso tra Croce Rossa di Susa, i Comuni di Oulx, Claviere e Bardonecchia, la Polizia di frontiera, le stazioni dei carabinieri, la Caritas zonale, la Diaconia Valdese, la Fondazione Talità e Rainbow4Africa ONG presso il Rifugio Massi: tutti questi enti messi insieme si dedicano a monitoraggio, prevenzione, assistenza, soccorso in zona di frontiera; messa a disposizione di posti alloggiativi di emergenza o di prima accoglienza a Oulx e Bussoleno; supporto e assistenza sanitaria a favore delle persone in transito; supporto alle persone più vulnerabili e offerta di percorsi di inserimento nel sistema di accoglienza. Il servizio è nato soprattutto per le ore serali e notturne, ma di recente è attivo anche al mattino e al pomeriggio.

Migranti, separati al confine con la Francia: “Mia figlia deve continuare anche senza di me”

Sono partito la domenica prima di Ferragosto e all’arrivo ho trovato l’accoglienza festante dei colleghi CRI di Susa, che aspettavano rinforzi sui progetti. Nel pomeriggio sono stato subito impiegato per il servizio MigrAlps.

Abbiamo preso il pulmino da nove posti, e con il collega Denis ci siamo recati a Montgenèvre, a 1.800 metri, dove la polizia francese ha respinto 16 migranti. Sì, la Francia rifiuta ogni giorno il passaggio di molti migranti, a piedi sui sentieri montani del Monginevro e sui mezzi prima del traforo del Frejus.

Quello stesso giorno ho visto un padre e una figlia minorenne che dovevano decidere se tornare indietro insieme a Oulx, al Rifugio Massi, per la notte. Le norme d’Oltralpe prevedono che i minori già in territorio francese possano rimanere; gli adulti invece vengono respinti.

Quasi tutti i migranti presenti sono francofoni quindi capiscono meglio la lingua dei poliziotti locali che la nostra. Ho sentito il padre dire “Libertè pour ma fille – elle doit continuer même sans moi” (“libertà per mia figlia – deve continuare anche senza di me”). A quel punto la ragazzina, una sedicenne con i capelli raccolti in treccine, ha lasciato il papà, ha preso il suo zainetto e ha proseguito il cammino.

Il padre invece è salito con noi sul pulmino. Ero stupito e commosso della scelta; gli ho domandato come stesse, e mi ha risposto: “Ho intrapreso questa avventura nel deserto per venti giorni, nel mare dalla Libia per due, poi a Lampedusa. Ho camminato per l’Italia per donare a mia figlia la libertà, la possibilità di avere un futuro. Se domani ce la farò proverò di nuovo ad attraversare il confine; se non riuscirò, ho comunque ottenuto la mia vittoria: lei è il futuro”.

Nel pulmino è calato il silenzio, anche tra gli altri migranti.

Fantasmi in viaggio verso il Nord Europa

Arrivati al Rifugio Massi, ci hanno accolto i sorrisi dei volontari e dei mediatori culturali. Qui ogni notte, e per solo una notte, trovano rifugio un centinaio di migranti in attesa di varcare la soglia del loro sogno: la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi.

I migranti hanno le idee molto chiare: vogliono raggiungere il Nord Europa, costi quel che costi. Non importa se dovranno provarci ogni notte, non importa se è inverno o estate e i bambini piangono. Il loro viaggio deve continuare, non hanno nessuna intenzione di rimanere qui o di farsi registrare in Italia. In Francia o Germania spesso hanno una rete di famigliari e conoscenti che li aspetta e ci sono politiche di accoglienza migliori.

Al polo logistico CRI di Susa, in serata, era arrivato il momento della cena, e durante il turno di aiuto nella distribuzione del pasto ho iniziato a conoscere gli ospiti, un corso immersivo nella conoscenza dell’Africa: Senegal, Gambia, Guinea, Sierra Leone, Costa D’Avorio, Ghana, Benin, Burkina Faso, Gabon, Camerun, Sud Sudan; quante tonalità di colore che solo all’inizio sembrano uguali, ma poi se ne cominciano a riconoscere le differenze. E poi ci sono i provenienti dalla rotta balcanica: rappresentano il 20% dei beneficiari, con siriani, afghani, pakistani, bengalesi. La sala pasti viene pulita e lavata dagli ospiti a turno, come anche le camerate, i bagni e il giardino comune. Un esempio di collaborazione attiva.

A notte quasi fatta ho visto sul cellulare che i colleghi di MigrAlps stavano lavorando molto al confine. Quindi, prima di entrare nella stanza dei volontari, con i colleghi abbiamo preparato le brandine per gli eventuali migranti in eccesso al Massi, dove oltre le cento unità le persone trovate di notte vengono accompagnate al centro CRI di Bussoleno.

Il risveglio mattutino è stato accompagnato dall’afa: Susa è a soli 300 metri e la temperatura notturna è di 28 gradi. Uscito dalla porta, ho trovato tutte le brandine occupate dai “notturni”. Gente che ha tentato la scalata con gli infradito. Tra loro una famiglia del Ghana con un bambino di sette anni: la mamma aveva diciassette anni, il padre diciannove; avrebbero potuto i miei figli. Ho chiesto loro da quale CAS italiano arrivassero, ma hanno eluso la risposta. Nessuno vuol far sapere da dove sono scappati.

Chiedono di essere fantasmi, per proseguire il loro cammino.

Viaggi spezzati, percorsi ricuciti: ogni migrante è un’odissea a sé

I miei giorni sono trascorsi tra le pulizie ai pavimenti, l’aiuto in cucina, la sistemazione delle accoglienze, i magazzini, il trasporto degli ospiti in ospedale per le visite mediche.

Intanto ho conosciuto meglio alcuni di loro: ho pranzato insieme a Saido (nome di fantasia), del Burkina Faso. La sua famiglia e il suo villaggio, cinque anni fa, gli hanno pagato il viaggio aereo verso l’Europa, alla volta di un Paese in cui non c’è bisogno di Visa: l’Ucraina. Ha studiato all’università del Donbass per diventare dentista, ma lo scorso anno la sua storia si è interrotta a causa della guerra. È stato portato in Polonia, dove non l’hanno accolto molto bene, visto il colore della pelle. Allora ha deciso di essere aiutato dal CRI per venire in Italia. Oggi è ospite nella struttura, e dal lunedì al venerdì lavora come imbianchino a Torino in attesa di ricevere l’attestato dei suoi esami e poter finire la laurea in odontoiatria.

Un pomeriggio la polizia ci ha consegnato una minore giunta sola al traforo del Frejus, Fara. Era molto triste e camminava con la testa bassa. Un po’ tutti, ospiti compresi, hanno cercato di aiutarla, di farla distrarre. Linda, una ragazza Ivoriana, mi ha fatto da traduttrice. Le abbiamo offerto la merenda e ha iniziato ad aprirsi, ma come al solito non ci ha detto da quale centro arrivasse, dopo Lampedusa. Le ho chiesto dove fossero i genitori. Lei ci risponde che la mamma è rimasta in Libia perché i soldi non bastavano per entrambe, e si è fatta serva di qualche scafista per garantire il posto a lei. Piangeva, ma allo stesso tempo sorrideva perché voleva andare in Belgio a studiare per riscattare la mamma. La mattina dopo non l’abbiamo più trovata nel campo.

La notte, per il servizio MigrAlps, siamo partiti da Susa alle 19 per pattugliare le strade fino a mezzanotte o più, se dovesse servire. Con altri due colleghi abbiamo iniziato il monitoraggio degli arrivi alla stazione di Oulx, dove sono scese sette persone intenzionate a camminare per i sentieri. Gli abbiamo proposto di passare la notte al Rifugio Massi e hanno accettato.

In seguito abbiamo imboccato l’antica strada del Monginevro. Qui nelle vecchie gallerie spesso sostano i migranti in attesa del momento migliore per varcare il confine, delle caverne dalle condizioni igieniche indicibili.

Poi, delle luci nella foresta: guardie francesi o migranti? Su quei sentieri stride la vicinanza di diversi ceti sociali: turisti, migranti, pellegrini della via Francigena, polizia, soccorritori, tutti con lo stesso obiettivo, ma con condizioni di vita molto, molto differenti.

Arrivati a una grotta, abbiamo scoperto tre amici che si nascondevano per paura. Li abbiamo invitati a tornare a valle per passare una notte migliore, ma loro hanno declinato: volevano stare lì e aspettare l’alba eludendo le torrette di avvistamento francesi. Li abbiamo riforniti di viveri e mantelline per la notte e gli abbiamo augurato buona fortuna. I nostri giri sono terminati intorno alla mezzanotte, quando abbiamo fatto ritorno alla base di Susa.

Laureato nel suo Paese, quasi ucciso dai trafficanti

L’indomani sono andato prendere un nuovo ospite che era stato portato in ospedale per accertamenti. Era in Italia da soli nove giorni, arrivato dal flusso di Lampedusa tramite la Tunisia. Lui era originario del Sudan. Gli chiedo quale lingua conosca e scopro che conosce l’inglese meglio di me.

Ha frequentato l’università ed è laureato in International Business Administration. Ha lasciato il suo Paese, nel perenne disordine delle guerriglie tribali, per una vita migliore. Anche lui aveva attraversato il deserto, e al confine con la Tunisia aveva trovato i trafficanti che gli avevano chiesto i soldi per l’imbarco. I suoi, come quelli di tanti altri, non bastavano, e allora gli stessi trafficanti li hanno picchiati per lasciarli a morire sotto il sole del deserto. Lui è stato fortunato: si è finto morto ed è riuscito a nascondere gli altri soldi nella sabbia. Andati via i trafficanti, è stato soccorso da gente comune e si accorto di avere un forte trauma ai piedi. È arrivato al mare, e con quello che aveva è stato messo su una piccola barca con dei motori che poi sono stati tolti in acque internazionali.

Nonostante questo sorrideva, era grato all’accoglienza dell’Italia. Mi ha confessato che voleva iniziare a lavorare, anche come muratore, e dopo, conosciuta la lingua avrebbe voluto mettere a frutto le sue competenze scolastiche. Una volta arrivati al CRI è andato subito verso la sua stanza. Gli ho visto un libro con l’alfabeto italiano: l’indomani avrebbe iniziato i corsi, tenuti da alcuni professori in pensione.

L’ultima domenica, passate le consegne alla mia sostituta, ho salutato con tanta emozione i colleghi e Michele, il responsabile del centro, che gestisce con grande dedizione e professionalità. Noi che ci definiamo manager, leader e ambassador dovremmo imparare da loro, che danno a questi termini un significato diverso, perché lo vivono in situazioni di vera emergenza.

 

 

Photo credits: vocetempo.it

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