Parla come lavori: e se la crisi dei sindacati fosse anche di linguaggio?

Il linguaggio dei sindacati non è cambiato, negli ultimi decenni: questione di identità, ma anche di incapacità di leggere i cambiamenti sociali e lavorativi. Ne parliamo col ricercatore universitario Francesco Nespoli.

“Assemblea di fabbrica, tutte le maestranze sono convocate!”

No, non si tratta di un nostalgico estratto anni Sessanta dell’industria di stampo fordista. Parliamo, invece, di un manifesto sindacale, nella fattispecie FIOM CGIL, affisso nelle bacheche di produzione di una metalmeccanica veronese, anno 2017. Ora, negli ultimi quattro anni – almeno nella maggior parte dei casi – è probabile che le maestranze si siano definitivamente trasformate in lavoratori, anche se rischiano sempre di essere considerate come complemento di termine, all’interno della polverosa definizione “classe di lavoratori”.

Già, perché il punto è proprio questo: il sindacalese non è mai tramontato, e anzi con il suo peculiare linguaggio rappresenta ancora un importante cavallo di battaglia per tutte le maggiori sigle, a suon di “lotte e mobilitazioni per i salariati”. Ma siamo sicuri che non sia, invece, tra le cause strutturali della crisi ideologica che negli ultimi anni ha investito l’intero organismo sindacale?

Calo di iscrizioni nei sindacati, una questione linguistica?

Sarà una coincidenza, ma tra slogan, espressioni stereotipate e arzigogolati tecnicismi, i numeri hanno messo in evidenza, a partire dal nuovo millennio, una curva in costante discesa, quantomeno dopo la crisi economica globale del 2008. Come racconta molto bene il sito di Pietro Ichino, le due organizzazioni principali, CGIL e CISL, tra il 2001 e il 2017 hanno perso ben 230.990 iscritti, partendo dai 9,5 milioni iniziali e superando addirittura quota dieci milioni nel 2009, prima di un crollo strutturale a poco più di 9,2 milioni nel 2017. Analisi che dimostra un chiaro e inequivocabile calo di consensi rispetto al passato. Significativo anche il dato unitario di CGIL, CISL e UIL, che annovera un decremento complessivo dai dodici milioni di iscritti del 2015 agli undici milioni e mezzo, arrotondato per eccesso, del 2017.

L’attualità più stretta, inoltre, non registra alcuna controtendenza, nonostante una leggera ripresa durante il lockdown e nel periodo pandemico in generale. Inutile festeggiare, comunque, perché il trend negativo si è semplicemente appiattito, e racconta di un 2020 che computa un totale di 11,3 milioni di adesioni, con la CGIL ancora in testa a 5 milioni, seguita dai 4 della CISL e dai 2,3 della UIL. Un consuntivo reso possibile dall’impegno profuso anche nei momenti più duri, con le sedi rimaste sempre aperte nonostante le note difficoltà. Sforzo lodevole ma, come sottolineato, non sufficiente a rilanciare le velleità del sindacato quale interlocutore principale nel mondo dei lavoratori.

Il motivo è facile da spiegare, considerato che le organizzazioni dei lavoratori non hanno saputo rimanere al passo, nel tempo, con i cambiamenti delle molteplici tipologie di mansioni e delle attuali condizioni lavorative. Un fenomeno sociale ereditato dagli anni Ottanta, con il progressivo cambio di rotta dalla produzione di beni alla galassia dei servizi. Ad aggravare la posizione del sindacato, fermo agli schemi di fabbrica, globalizzazione e strapotere di internet, che hanno contribuito a rendere ancor più fluido il contesto.

L’esperto di comunicazione sindacale: “Nelle sigle confederali strategie diverse. Ecco quali hanno pagato di più”

Ma in questo quadro generale che c’entra il linguaggio?

È evidente che la capacità di innovazione sindacale, finora quasi assente, passa dalla capacità di raccontare il proprio operato in modo più efficace e strategico. Provando a evitare, magari, messaggi forieri di costrutti ancorati in un’altra epoca. Come per esempio quello dello scorso 29 ottobre, con il manifesto a firma FIM, FIOM e UILM contro i licenziamenti Whirlpool nel sito di Napoli, dove campeggia fiero il sempreverde Zio Sam, in stile I want you, rafforzato dalla scritta “la lotta dei lavoratori continua”. Veste grafica e contenuto, diciamo, non proprio adatti a bucare lo schermo delle nuove generazioni.

“Sicuramente c’è un problema di mancato adeguamento e rinnovamento del linguaggio, questo soprattutto in molti contesti locali, aziendali e in specifici territori, pur con le dovute differenze”. Francesco Nespoli, già assegnista di ricerca dell’Università di Modena e Reggio Emilia per il progetto La retorica del lavoro: comunicazione politica e sindacale nelle riforme del mercato del lavoro e nelle relazioni industriali; è anche autore nel 2018 di Fondata sul lavoro. La comunicazione politica e sindacale del lavoro che cambia, edito da Adapt University Press.

Nespoli, parliamo davvero di un immobilismo voluto, oppure di concreta incapacità di evolvere? Nel suo libro cita Camusso e la scelta di un linguaggio conservatore in difesa dell’articolo 18.

Il sindacato, in particolar modo con CGIL e UIL, che nascono rispettivamente dal partito comunista e socialista, ha ben chiaro che ci sono costanti storiche destinate a resistere: penso al confronto tra aziende e operai. Su questo tema poco interessa innovare il linguaggio, quindi la terminologia rimane quella: padrone, capitale, lavoro. Tutto il resto sarebbe un maquillage lessicale per ribadire che, comunque, le classi rimangono e i rapporti di forza sono sempre gli stessi.

L’insuperabile contrapposizione tra imprese e sindacati?

Almeno nel futuro a breve termine sì. Però dobbiamo guardare anche allo sforzo compiuto dalla CISL nella rivendicazione del ruolo di terza parte tra le ragioni dell’impresa e quelle, appunto, della classe lavoratrice. Ruolo che non si presta a una narrazione polarizzata, ma che cerca mediazione per raggiungere risultati, che non combatte una battaglia a qualunque costo. Quindi direi che qualche margine di speranza c’è ancora. Meno nelle culture diffidenti, lì non ci sono aperture.

L’assist è buono per la stretta attualità. Come nel 2014, anche nello sciopero dello scorso 16 dicembre il sindacato si è presentato spaccato, con la CISL a scegliere una strada diversa. Quanto c’entra la comunicazione?

Pesa molto. Di certo queste scelte differenti fanno i conti con la convenienza di una certa risonanza mediatica. Il sindacato sa che lo sciopero è in grado di creare scalpore. Ma il punto vero è la conferma di quanto stiamo discutendo: la comunicazione sindacale non prescinde dalla cultura di ciascuna sigla. Il focus non è raggiungere risultati ma, come dichiarato da Bombardieri di UIL, combattere battaglie giuste, anche se perdenti. L’intramontabile motto della gloriosa sconfitta.

L’atteggiamento più pragmatico e orientato al risultato di CISL paga? Annamaria Furlan, ex segretaria, nel 2014 dichiarò che le diverse decisioni pesano nelle urne per le nomine delle RSU.

Nel caso citato, quando la battaglia era contro il Jobs Act, e vale anche per legge di bilancio 2021, il sindacato che ritiene di voler ottenere qualcosa è quello che a un certo punto si ferma. Finora la scelta negoziale della CISL ha pagato. Per quanto riguarda la contrattazione nei luoghi di lavoro, la differenza è chiara: CISL investe sulla negoziazione, CGIL al contrario sulla politica. Scelte strategiche diverse.

Da tempo, comunque, le persone non si avvicinano più per ragioni ideologiche, a prescindere dalla sigla.

Dal punto di vista della comunicazione pubblica il sindacato prova a tenere la posizione attraverso azioni in grado di portare visibilità, come lo sciopero. Effettivamente tutti ne hanno parlato, un certo impatto c’è ancora nella vita pubblica. Tralasciando il numero degli iscritti, che sempre meno passano dall’appartenenza ideologica.

Quanto al linguaggio verso i lavoratori, anche in questo caso sarebbe opportuno comunicare in modo diverso?

Il tema è molto difficile perché passa dalla questione preliminare della qualità dei delegati e degli operatori, a maggior ragione perché il mestiere del sindacalista è molto difficile e non di moda. L’aspetto preminente è quello della formazione degli operatori. Nei confronti dei lavoratori queste figure diventano centrali, nell’era della comunicazione digitale, il ruolo del delegato sul territorio rimane fondamentale.

La vera partita si gioca sulla formazione degli operatori.

E sulle capacità relazionali di intrattenere rapporti con le persone, che esprimono bisogni individuali e collettivi, e con le aziende, verso le quali sono indirizzate le necessità. Il ruolo del sindacalista è un ruolo molto di fino, e quindi la comunicazione pubblica e digitale aiutano ma non sono sufficienti. Pensare di investire tutto su buone campagne non è sufficiente. La fiducia passa ancora una volta dalle persone.


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