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Patologie del lavoro da remoto: chi rompe e chi paga?
Zoom fatigue, iperconnessione e non solo: indaghiamo il tema degli infortuni da smart working e le responsabilità a essi correlate con i pareri del giornalista Nicola Zamperini e del medico del lavoro Vittorio Agnoletto.
Nei mesi scorsi la pandemia ha imposto l’organizzazione del lavoro da remoto per tantissime aziende e istituzioni pubbliche nel mondo. Il tutto etichettato sotto una generica definizione di smart working, anche quando di questo non si trattava. In Italia il lavoro da casa è diventato realtà per 8 milioni di persone durante il lockdown, mentre pre-pandemia interessava solo 500.000 persone (dati CGIL 2020).
Quali sono gli effetti di questo incremento? Un’analisi della Fondazione Studi Consulenti del lavoro ha sottolineato i limiti e le problematiche della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori cosiddetti agili durante il periodo del lockdown. Un impatto negativo che avrebbe lasciato il segno sia a livello fisico che psicologico: il 48,3% degli intervistati ha dichiarato infatti disturbi e problemi fisici legati all’inadeguatezza delle postazioni domestiche, e ben il 49,7% ha lamentato un aumento dei livelli di stress e ansia da prestazione prodotti da questa modalità di organizzazione del lavoro.
Si tratta di effetti dovuti solo alla pandemia? Oppure, a prescindere, lo smart working può avere anche degli impatti negativi sulla salute (soprattutto psicologica), oltre agli aspetti positivi che gli vengono generalmente attribuiti?
Il lavoro da remoto e le sue patologie
Anche prima della pandemia era aperto un dibattito sugli effetti del lavoro agile, seppur spesso sbilanciato verso gli aspetti positivi, riguardanti ad esempio l’aumento della produttività e la riduzione dei costi per le aziende, o i miglioramenti in termini di conciliazione tra lavoro e vita privata e di riduzione degli impatti ambientali.
Le ricerche dagli anni Novanta in poi in realtà non sono sempre state concordi a riguardo, come puntualizza un’analisi del 2019 di Albano, Parisi e Tirabeni, soprattutto per quanto riguarda gli effetti psicologici di questa modalità di organizzazione del lavoro, come indicano anche vari studi tra cui quello dell’European Working Condition Survey del 2017.
Come sostenuto dal Consiglio Nazionale degli ingegneri in Italia, in numerosi Paesi dell’Unione Europea, in cui la diffusione dello smart working è storicamente più radicata che in Italia, la manifestazione di questa sorgente di rischio di stress lavoro-correlato è stata rilevata più volte.
Oltre ad aver confermato che esistono categorie di lavoratori più esposte al rischio di tecnostress (come le professioni che rientrano nell’area STEM o quelle della comunicazione), sono state individuate diverse patologie causate dal lavoro da remoto, come ipertensione, attacchi di panico, depressione, insonnia, calo della concentrazione, disturbi gastrointestinali e cardiocircolatori, cervicalgia e sensazione di vertigine, disturbi dell’alimentazione e carenze nutritive, alterazioni comportamentali, e infine disturbi della sfera emotiva e relazionale.
Di smart working ci si ammala. La fatica da iperconnessione e altri mostri
Secondo Nicola Zamperini, giornalista e consulente per le strategie digitali di aziende e istituzioni, se da un lato è innegabile che il lavoro da remoto porti grandi vantaggi per lavoratori, imprese e comunità, è anche vero che genera molti problemi se non gestito in maniera adeguata.
“Basta pensare alla Zoom fatigue, la fatica da iperconnessione, che nasce dalla relazione mediata dalla tecnologia che il lavoratore ha con la propria comunità professionale. Il lavorare e l’avere interazioni con gli altri in assenza di corpo porta le persone a sostenere un costo in termini di fatica cognitiva. Quando siamo connessi per molte ore in riunioni online il nostro cervello registra che non ci stiamo relazionando fisicamente con gli altri. L’occhio, ad esempio, ricerca sempre noi stessi nello schermo, proprio per avere una conferma della nostra esistenza. A questa assenza si sommano poi tanti altri elementi di fatica, come il senso di isolamento, o il fatto che spesso il tempo della connessione travalica il normale orario di lavoro.”
Quello che Zamperini auspica è uno sforzo congiunto di più soggetti (lavoratori, imprese, manager, la politica, sindacati, psicologi e medici del lavoro), che si impegnino per riflettere non solo sulle potenzialità del lavoro da remoto e sui modi per incentivarlo, ma anche sull’analisi degli elementi problematici e soprattutto sulla comprensione dell’elemento tecnologico: “Non si deve solo conoscere il funzionamento degli strumenti a disposizione, ma anche il linguaggio, la grammatica, e soprattutto gli effetti sull’essere umano”.
A chi tocca curare il benessere dei lavoratori da remoto
Vittorio Agnoletto, docente e medico del lavoro, esprime un parere simile a quello di Zamperini. Anche se il remote working che abbiamo sperimentato durante il lockdown non corrisponde allo smart working che può essere fatto in condizioni normali, se quest’ultimo deve diventare uno scenario futuro nel Paese, secondo Agnoletto è necessario considerarne aspetti positivi e negativi, al fine di prevenire patologie individuali e sociali. La medicina del lavoro e la disciplina della tutela della sicurezza devono riflettere su questi temi, e dare le risposte anche operative che oggi mancano per tutelare il benessere psicofisico dei lavoratori.
La normativa sullo smart working riconosce il tema dei rischi – intensificazione dei ritmi, iperconnessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero, isolamento, incapacità di gestire spazi/tempi lavorativi e non – e ha previsto che il datore di lavoro si adoperi per fare in modo che il lavoratore non subisca questi effetti negativi. Tuttavia vanno risolte ancora molte questioni: “Non sono ancora chiari diversi aspetti operativi, come a chi spetti il costo dell’organizzazione della postazione di lavoro, o chi dovrebbe occuparsi dei controlli nelle abitazioni del rispetto delle misure di sicurezza previste per legge (con particolare riferimento al ruolo dei lavoratori RLS)”.
Quello che sembra necessario oggi per Agnoletto è sopperire alla mancanza di dati in Italia per valutare l’impatto dello smart working in una situazione non pandemica. Informazioni che servirebbero non solo per quantificare le patologie in campo psichico-psicologico, ma anche per individuarne le differenze rispetto alle patologie che si sviluppano normalmente nel posto di lavoro in presenza.
Costi giù, ma addio alla condivisione: il gioco dello smart working vale la candela?
Un altro importante tema di indagine per Agnoletto riguarda il risparmio delle aziende.
“Lo smart working porta delle riduzioni dei costi importanti: riduzione degli spazi dei locali, diminuzione di macchinari e servizi di ristorazione; le forme di risparmio sono tante. Sarebbe utile uno studio che quantifichi questi risparmi e che valuti come reinvestirli per favorire il benessere dei lavoratori.”
Agnoletto solleva inoltre il tema della condivisione delle problematiche vissute tra i lavoratori e dell’impegno del sindacato su questi temi. “Andare al lavoro vuol dire socializzare, mentre non possiamo dimenticarci che lo smart working è invece atomizzazione del lavoro. La consapevolezza della propria condizione nasce dalla condivisione con altri, su cui si fonda poi il lavoro del sindacato. Se dovessimo andare verso una società tutta di smart working (per i lavori in cui ciò è possibile) sarebbe un problema, poiché verrebbero meno quelle relazioni che favoriscono l’aggregazione di bisogni collettivi”.
Diverso sarebbe invece puntare a un modello ibrido (smart working e lavoro in presenza insieme), che secondo Agnoletto permetterebbe di arginare i rischi e gli impatti negativi di questa modalità di organizzazione del lavoro, mantenendone gli aspetti postivi (meno traffico, meno affollamento nei mezzi pubblici, miglior gestione del tempo personale, etc.).
Altrimenti il rischio che si corre, secondo Agnoletto, è quello di avere una situazione simile a quella delle partite IVA individuali, nate per favorire un modello di flessibilità e che invece si sono trasformate in molti casi in mancanza di tutele (pensionistiche, sanitarie) o in false partite IVA che svolgono di fatto lavori dipendenti.
Sembra quindi necessario non solo intensificare gli sforzi di analisi e raccolta dati legati agli impatti dello smart working, ma anche favorire un dibattito quanto più possibile aperto all’interno della medicina del lavoro e della disciplina per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Le innovazioni tecnologiche che consentono lo smart working, come già segnalato, hanno un grande potenziale in termini di effetti positivi. Tuttavia il significato che possono acquisire dipende dal progetto di evoluzione sociale che si vuole realizzare. Il rischio è non solo di generare esternalità negative che peseranno sulla salute delle persone e della comunità, ma anche di fare un irrimediabile passo indietro nel campo della medicina e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
L’articolo prende spunto dal panel “Quanto costa la sicurezza”, che puoi seguire cliccando qui.
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