Prestazioni professionali low cost: chi paga?

Provate a chiedere lo stesso preventivo a dieci professionisti e vedrete: la competizione sul prezzo è una guerra senza esclusione di colpi. Potreste pensare che in questi anni il doppio obiettivo di aprire il mercato delle prestazioni professionali e di far risparmiare cittadini e imprese sia stato raggiunto, ma come spesso avviene i fenomeni sono […]

Provate a chiedere lo stesso preventivo a dieci professionisti e vedrete: la competizione sul prezzo è una guerra senza esclusione di colpi. Potreste pensare che in questi anni il doppio obiettivo di aprire il mercato delle prestazioni professionali e di far risparmiare cittadini e imprese sia stato raggiunto, ma come spesso avviene i fenomeni sono più complessi di quanto sembrino.

Prendete nota di questi tre concetti: liberalizzazioni incoerenti, disintermediazione apparente e sussidiarietà squilibrata. Capirete come l’offerta di servizi low cost non sia solo frutto della concorrenza.

Incentivo alla concorrenza o redistribuzione del reddito?

Accedere a un servizio spendendo poco fa piacere a chiunque. La politica lo sa, e ha dato corso a un processo articolato – ma non sempre coerente con le finalità enunciate, come si vedrà – di liberalizzazione delle tariffe e di incentivo alla concorrenza all’interno delle categorie professionali: il “decreto Bersani” del 2006 ha sancito la derogabilità delle tariffe minime; il Governo Monti con il D.L. n. 1 del 2012 le ha abrogate e ha previsto l’obbligo del professionista di fornire un preventivo al cliente che lo richieda; il “DDL concorrenza” del febbraio 2015 – che due anni e mezzo dopo è diventato Legge (n. 124/2017) – precisa il concetto imponendo la forma scritta del preventivo.

Conoscete qualcuno la cui richiesta di un servizio professionale non abbia avuto risposta, o che vi abbia rinunciato perché tutti i professionisti consultati hanno fatto cartello in relazione ai compensi richiesti? Se la risposta è no, dobbiamo chiederci se le politiche liberalizzatrici si fondino davvero sull’insufficiente concorrenza tra i professionisti o se rispondano in realtà a logiche di redistribuzione del reddito.

Intendiamoci: il perseguimento di questo obiettivo, in un periodo prima di crisi e poi di contrazione strutturale dell’economia, è del tutto comprensibile; ma per valutare se sia stato centrato occorre chiamare le cose con il loro nome e inquadrare storicamente i fenomeni. Il mercato dei servizi professionali valeva, all’inizio del processo di liberalizzazione, oltre il 15% del PIL italiano: una fetta della torta molto appetitosa per gli operatori protagonisti sui mercati di altri servizi, la cui crisi era già in atto o prevista.

Un mercato di pesci grossi

È il paradosso delle liberalizzazioni “all’italiana”: il legislatore annuncia l’apertura del mercato, ma si contraddice favorendone l’occupazione da parte di soggetti tanto più forti di quelli già presenti da non poter fare altro che dominarlo: questo è il vero effetto che si rischia (o si vuole?) permettendo l’ingresso di soci di capitale (cioè banche e compagnie di assicurazione) negli studi legali; consentendo alle società di ingegneria (che tra i loro soci potrebbero non avere né ingegneri né architetti) di invadere il mercato degli appalti privati, e non solo di quelli pubblici; oppure permettendo a uno stesso soggetto di essere titolare di un numero indefinito di farmacie, o regalando alla grande distribuzione il mercato dei farmaci.

Così, le prestazioni professionali sono state incluse nell’offerta di servizi di operatori che non avrebbero avuto titolo per proporle, ma che avevano visto ridursi fino a sparire la redditività dei servizi loro propri. La banca a cui chiedete un mutuo, sapendo che gli interessi (bassissimi) non le daranno reddito, non solo vi imputerà le spese di istruttoria e di gestione della pratica spostando su di voi il suo rischio di impresa, ma cercherà di vendervi, includendone il prezzo nel finanziamento, servizi estranei all’attività bancaria: polizze assicurative, ristrutturazione della casa, progetti per l’arredamento.

Se imprese di grandissime dimensioni – banche, assicurazioni, catene di supermercati, società di ingegneria – agiscono sullo stesso mercato sul quale operano organizzazioni per la maggior parte piccole o piccolissime, come gli studi professionali, il rischio di assistere a concentrazioni con effetti anticoncorrenziali è molto forte. Con il risultato di lasciare agli operatori meno dimensionati quote di mercato ridottissime, che essi si contenderanno a suon di sconti sui compensi richiesti.

Ed ecco che le prestazioni low cost, anziché essere il segnale di una concorrenza che funziona, sono l’effetto dell’affermazione di autentici oligopoli: sono emblematici i casi dei professionisti di area tecnica (architetti, geometri e ingegneri), ai quali le società di ingegneria e i grandi studi affidano in “subappalto” le prestazioni meno redditizie offrendo loro compensi irrisori, nell’ordine di pochi euro (lordi) per ogni ora lavorativa; o degli avvocati che agiscono in condizione di sudditanza nei confronti di committenti “forti”, che di fatto ne sono i datori di lavoro esclusivi.

Casi tanto eloquenti da indurre il legislatore, con la Legge n. 148/2017 (poi modificata con la Legge di Bilancio per il 2018 n. 205/2017), a prevedere che il professionista che contratta la sua prestazione con un committente “forte” abbia diritto a un compenso “equo”, cioè non inferiore a quello che si calcolerebbe in sede di liquidazione giudiziale della parcella secondo i parametri fissati dalla Legge n. 247 del 2012.

Equi compensi e disintermediazione

Qualcuno ha subito gridato allo scandalo nella convinzione che, prevedendo il diritto a un “equo compenso”, il legislatore abbia smentito se stesso e reintrodotto le tariffe professionali minime, ma ancora una volta le apparenze ingannano. In primo luogo, la legge non si applica nei rapporti tra i professionisti e i committenti “non forti”, e non è chiaro perché in questi casi la dignità del professionista-lavoratore non meriti tutela.

Poi. La legge prevede che la pattuizione tra il professionista e il committente “forte” di un compenso “non equo” sia nulla, ma che tale nullità possa essere fatta valere solo dal professionista: come potrà invocarla, dopo avere egli stesso avanzato la richiesta di quel compenso nel preventivo obbligatoriamente redatto per iscritto?

Non basta ancora. Oltre all’imperativo della liberalizzazione, da alcuni anni echeggia ovunque il mantra della disintermediazione: fioriscono ovunque startup che gestiscono piattaforme digitali grazie alle quali l’ormai mitico “consumatore” può ottenere direttamente i servizi di cui ha bisogno. Nello schema tradizionale il rapporto tra utente e prestazione era mediato dal professionista, che realizzava la seconda su richiesta del primo. Ora ci viene spiegato che grazie alle nuove tecnologie il soggetto mediante non serve più.

Ma è davvero così? No: in molti casi il servizio continua a essere erogato dal professionista, che invece di essere scelto liberamente dal cliente viene selezionato tramite la piattaforma, gestita da chi decide le condizioni economiche della prestazione e impone un low cost perenne.

Acquistate un attestato di prestazione energetica tramite Groupon a meno di 50 euro e chiedetevi quanto incasserà il certificatore: la disintermediazione del servizio passa dalla mediazione del lavoro del professionista, che porta provvigioni a rischio zero nelle casse dei nuovi mediatori.

Da ultimo, ci si mette anche lo Stato: chiedete ai commercialisti che cosa pensano della consulenza offerta direttamente a cittadini e imprese dall’Agenzia delle Entrate. Un altro servizio gratuito (o meglio, finanziato con il gettito erariale) che non può che piacere agli utenti, ma che sottrae ai professionisti la componente più remunerativa del loro lavoro, lasciando loro gli adempimenti più onerosi e meno redditizi: la Pubblica Amministrazione eroga prestazioni intellettuali e i professionisti si occupano della burocrazia! È come se, in una scissione, si fosse posta a carico dei secondi una bad company che si occupa solo di commodities da gestire in perdita. Un modo un po’ furbo di interpretare il principio di sussidiarietà.

Low cost, ma a che prezzo?

Insomma, la decisione di un professionista di abbassare i suoi compensi può essere un discrezionale strumento di competizione (che può spingersi fino al dumping, sollevando questioni complesse circa la correttezza della concorrenza), ma è spesso dettata da ragioni di sopravvivenza e dalla necessità di combattere con i suoi colleghi una guerra dei prezzi che vedrà vincitore solo il cliente. Vittoria apparente, peraltro, perché accompagnata dalla perdita della qualità del servizio (lo sapete che quel certificatore non effettuerà alcun sopralluogo nell’immobile, vero?) e della libertà di scelta del professionista (che sarà incaricato da un algoritmo).

L’intento redistributivo perseguito in modo contraddittorio dal legislatore ha determinato un impoverimento dell’intero settore (la quota del PIL riferita ai servizi professionali è scesa al 12,8% nel 2016), con effetti molto negativi sull’occupazione e sul gettito fiscale. I rimedi vanno cercati smettendo di ragionare solo in termini di costo della prestazione e iniziando a considerare il valore della stessa.

Le categorie professionali abbiano il coraggio di proporre una riforma organica delle loro funzioni e delle loro organizzazioni – a partire dai requisiti e dalle regole di accesso alle diverse categorie – che si basi sull’analisi del contenuto delle prestazioni e della struttura dei costi degli studi, e sull’individuazione di una redditività che garantisca qualità e indipendenza.

Infine prendano atto dell’applicazione nei loro confronti del diritto italiano ed europeo della concorrenza, per esigerne il rispetto attraverso la prevenzione delle posizioni dominanti e la repressione dei loro abusi.

 

Photo by Alan Cleaver [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

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