I salari della moda? Né ricchi né belli

Un’analisi della situazione di stipendi e contratti nel settore dell’abbigliamento, in Italia e altrove, con il margine per i fornitori ridotto al lumicino dallo strapotere dei marchi. La sindacalista ed esperta Teresa Haas: “Il controllo gestito dalle imprese ha fallito in modo clamoroso”

Salari della moda, degli attivisti fanno cenno di stop con la mano in una vetrina griffata Adidas

“I fornitori italiani sono pagati, per la cucitura, tra i 30 e i 40 centesimi al minuto, cioè 18 euro l’ora secondo la tariffa più bassa. I conti non tornano, visto che il costo orario per i loro lavoratori, tasse e contributi compresi, ammonta a 24 euro.”

Questo è l’estratto di un’intervista anonima raccolta all’interno del report 2023 sulle relazioni tra marchi di moda e fornitori. Il progetto, pubblicato lo scorso aprile da Fair Trade Advocacy Office (FTAO) sulla base di una ricerca condotta da Clean Clothes Campaign (CCC), mette in luce alcune pratiche commerciali sleali in Europa che, soprattutto in relazione al settore definito fast fashion, hanno forti ricadute su salari, libertà sindacali e sicurezza sul lavoro.

Una cosa è certa: se i marchi negoziano un prezzo di acquisto così basso da non permettere alla controparte di coprire il solo costo del lavoro, significa che il fornitore da qualche parte deve risparmiare se vuole ricavare una seppur minima marginalità. Ipotizzo le strade più facili: delocalizzazione, lavoro sommerso, subappalti irregolari, ricorso eccessivo allo straordinario, carenze strutturali, scarsa attenzione alla sicurezza. Ecco perché, anche in questo caso, l’assoluta necessità del salario minimo torna di moda, argomento di discussione inflazionato nell’attuale contesto politico (pur senza produrre alcunché di concreto), e fondamentale anche nel comparto tessile, abbigliamento e calzature (TAC).

Ma la contrattazione collettiva? Sappiamo che i CCNL più importanti, stipulati con le sigle sindacali di maggiore rilevanza, veleggiano più o meno in linea con il punto di partenza proposto dai promotori politici. Per quel che concerne il comparto abbigliamento, seguendo lo schema di IPSOA, si evince che i minimi tabellari partono, a dicembre 2022, dai 1.298 euro mensili per il primo livello ai 1.495 euro mensili per il quarto livello. Più o meno alla stregua delle lavorazioni a mano e su misura, che si attesta sui 1.289 del primo livello e i 1.486 del quarto. Sembrano dati poco allarmanti rispetto alla situazione di altri Paesi, ma la realtà è che anche in Italia siamo lontani da un salario dignitoso. Innanzitutto perché negli attuali contratti la paga base al primo livello (e anche ai successivi) in diversi casi è sotto i famosi 9 euro lordi. E poi perché i 9 euro lordi sono comunque pochi, se vogliamo parlare di salari dignitosi e coerenti.

E poi ci sono anche i cosiddetti “contratti pirata” (definizione non del tutto corretta, visto che sono regolarmente depositati), accordi stipulati da parti sindacali e datoriali non particolarmente rappresentative. Vicenda tutta italiana che conta, in un totale guazzabuglio burocratico, centinaia di contratti parcheggiati nell’archivio del CNEL, con la maggior parte strutturata su condizioni peggiorative per i lavoratori, in particolar modo dal punto di vista retributivo. Nel solo settore TAC, per esempio, si contano ben 32 contratti collettivi. Ovvio quindi che il salario minimo legale, visto da questa prospettiva, potrebbe rappresentare uno strumento in grado di garantire protezione immediata a tutti i lavoratori della filiera.

La filiera del tessile in Italia all’indomani del fast fashion (e del COVID-19)

Una filiera italiana, è bene ricordarlo, riconosciuta in tutto il mondo e considerata tra i settori trainanti per il Paese, che conta 55.000 imprese registrate e impiega 473.000 persone solo nel settore TAC (fonte: Osservatorio economico ministero degli Affari Esteri, 2022). Una filiera che ospita, oltre alle vetrine dei grandi brand, una parte cospicua di produzione, spesso demandata a manodopera non qualificata e a subappalti. E che, rileggendo l’intervista citata all’inizio, non sfugge ai buchi neri dell’irregolarità e alle violazioni dei diritti del lavoro. Da qui la proposta di Campagna Abiti Puliti, sezione italiana di Clean Clothes Campaign, di un salario dignitoso per tutti, a partire dal settore della moda, che superi l’idea del salario minimo oggi in discussione, nel concreto pensato sulla base di 11 euro netti l’ora.

Missione impossibile? Probabile. E l’impressione è che, se mai fosse portata a buon fine, non sarebbe sufficiente a sbrogliare la matassa, considerate le premesse. Perché le pratiche commerciali sleali evidenziate nel rapporto di Clean Clothes Campaign sono in parte conseguenza dello sviluppo repentino del fast fashion, negli ultimi anni, nell’intero globo terracqueo, per dirla alla Meloni. Un modello che, a partire dagli anni Duemila, ha raddoppiato la produzione, mentre l’utilizzo medio dei capi di vestiario nello stesso lasso di tempo è contestualmente crollato.

Di quanto? L’indice, in media, mostra il 36%, con picchi del 70% in Paesi come la Cina. Anche in Italia, che non fa eccezione, gran parte del guardaroba rimane inutilizzato. Montagne di vestiti destinati a diventare rifiuti, con l’industria del tessile che produce 92 milioni di tonnellate di vestiti l’anno e una miserrima quota di riciclo, fissata intorno al punto percentuale.

Un modello poco sostenibile e che ha spinto la competizione verso il basso anche in Italia, dove sia i fornitori che i terzisti soffrono oltremodo queste dinamiche, tra le cause principali di insicurezza per lavoratrici e lavoratori. Gli anni della pandemia, i rincari energetici e la guerra in Ucraina senz’altro non hanno contribuito a migliorare lo scenario. Non a caso, durante gli anni del COVID-19, il settore è tra quelli che ha deciso di ricorrere di più agli ammortizzatori sociali, ottenendo anche l’estensione del blocco dei licenziamenti.

Bisogna ricordare, infine, che il tessile (come molti altri comparti in Italia) conta una percentuale importante di piccole imprese, come sempre costrette a ridurre i costi per rimanere competitive. A volte a discapito, soprattutto e come ribadito in apertura, della sicurezza sul lavoro.

Settore tessile, in Europa i marchi fanno il bello, ma soprattutto il cattivo tempo

Allargando l’orizzonte, non che l’Europa se la passi meglio. Quando parliamo di tessile, Spagna e Portogallo rappresentano i più importanti produttori di scarpe, abbigliamento e tessuti in genere, con alle loro spalle altri poli di rilievo come Francia e Gran Bretagna. Ma la ricerca condotta da CCC si è orientata sui Paesi dell’Europa Orientale e Centrale, dove si annoverano parecchi ex stati socialisti. Una regione senz’altro riconosciuta per i bassi costi di manodopera come la Romania, Bulgaria o Repubblica Ceca, con ben 700.000 lavoratori e cittadini europei impegnati nel settore. Una sorta di El Dorado della delocalizzazione, con questi Paesi diventati esportatori principali, in particolare di semilavorati, verso gli stati più ricchi dell’UE.

Unità produttiva in Bangladesh. Foto@CCC
Unità produttiva in Bangladesh. Foto@CCC

 

I risultati delle interviste qualitative in questi Paesi non si discostano molto da quanto raccontato. Clausole di salvaguardia inesistenti per i fornitori, margini troppo bassi, pianificazione assente, natura precaria di rapporti alla completa mercé dei singoli manager o contratti di esclusiva che si rivelano altrettanto precari. Basti ricordare la fabbrica croata Orljava, che per 50 anni ha prodotto camicie in via esclusiva per un marchio tedesco. Marchio che, nel 2020, ha deciso di sospendere gli ordini, lasciando alla corda 300 lavoratori.

Tematiche quindi comuni in questa zona d’Europa, e che in alcune circostanze rispecchiano quanto si racconta in Italia. “I contratti proposti dai marchi non prevedono mai un impegno sulle quantità da produrre e nemmeno un impegno sui prezzi. I contratti per i marchi consistono nel dire che il fornitore deve rispettare la qualità e i tempi di consegna perché, se non lo fa, scattano le penali. Non vengono mai inserite clausole di salvaguardia a tutela dei nostri interessi”, lamenta ad esempio un fornitore italiano, tra i contatti della ricerca.

O ancora, come termine di paragone europeo, un intervistato bulgaro ha denunciato la mancanza di specifici accordi scritti, con totale arbitrarietà da parte dei marchi: “Il manager è cambiato da un giorno all’altro e non sono arrivati più ordini”. Un approccio di incuranza, quindi, che non emerge solo nella tutela dei fornitori ma, in particolare, sulla determinazione dei prezzi. Un produttore, sempre di nazionalità bulgara, specifica che la negoziazione esiste, ma spesso si subiscono pressioni per convergere verso le richieste del marchio, a volte sottocosto.

“E poi”, continua, “più si scende nella catena della produzione, più si deve abbassare la testa, solo per avere un lavoro. Perché, se dici di no, il lavoro si ferma, gli ordini si fermano, ti fai una cattiva reputazione. È un circolo vizioso.”

Infine, le tanto decantate certificazioni per la responsabilità sociale d’impresa. Codici di condotta volontari adottati dalle aziende per salvaguardare i lavoratori, finiti a proteggere la reputazione dei marchi. A livello mondiale si ricordano i casi del Bangladesh, con il crollo del Rana Plaza che costò nel 2013 la vita a 1.134 lavoratori, e l’esplosione del boiler nella fabbrica Multifabs, nel 2017. Aziende che avevano da poco concluso il percorso di certificazione standard in fase di audit. Un manager rumeno, chiamato in causa sul tema all’interno del report, ha dichiarato che i sistemi di sostenibilità sociale e di audit sono spesso una copertura per i marchi, al fine di sfruttare al massimo le fabbriche, con spese associate al codice di condotta sempre a carico del fornitore.

Greenpeace commemora ad Amburgo le 1.134 vittime del crollo della fabbrica di abbigliamento Rana Plaza in Bangladesh dieci anni fa. L'incidente è considerato la più grande catastrofe nel settore dell'abbigliamento. Foto@Greenpeace
Greenpeace commemora ad Amburgo le 1.134 vittime del crollo della fabbrica di abbigliamento Rana Plaza in Bangladesh dieci anni fa. L'incidente è considerato la più grande catastrofe nel settore dell'abbigliamento. Foto@Greenpeace

 

 

L’esperta Theresa Haas: “Il controllo gestito dalle imprese ha fallito in modo clamoroso”

Un quadro complesso, in Italia come in Europa, e più in generale, nel mondo. Decido di approfondire proprio gli aspetti globali con Theresa Haas, esperta americana riguardo l’intera filiera e Director of Global Strategies di Workers United, un sindacato americano e canadese che rappresenta circa 86.000 lavoratori nei settori dell’abbigliamento e tessile.

Theresa Haas, esperta americana dell’intera filiera e Director of Global Strategies di Workers United
Theresa Haas, esperta americana dell’intera filiera e Director of Global Strategies di Workers United

 

 

Il sindacato dovrebbe giocare un ruolo cruciale in tutte queste dinamiche per salvaguardare i lavoratori. No?

Bisogna ricordare che i salari per i lavoratori dell’abbigliamento, in tutto il mondo, sono estremamente bassi e i lavoratori non guadagnano abbastanza per sostenere se stessi e le loro famiglie con un tenore di vita dignitoso. I sindacati sono senz’altro un potente strumento, attraverso il quale i lavoratori possono unirsi per lottare per migliorare le condizioni di lavoro, compresi gli aumenti salariali. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi produttori di abbigliamento, soprattutto nel Sud del mondo, la situazione dei sindacati è molto difficile. I lavoratori nel settore abbigliamento che tentano di formare un sindacato all’interno della loro fabbrica spesso affrontano ritorsioni come la chiusura del rapporto in modo coercitivo, l’abuso verbale, la sottrazione di ore di lavoro e altro ancora. La verità è che spesso i sindacalisti affrontano violenze e molestie, a volte anche la morte, come abbiamo visto nel recente omicidio dell’organizzatore sindacale del Bangladesh Shahidul Islam.

Ci sono strategie che i rappresentanti sindacali, come te, potrebbero avere la forza di introdurre?

Per troppo tempo i lavoratori dell’abbigliamento di tutto il mondo hanno affrontato condizioni abusive e di sfruttamento, tra cui il furto dilagante dei salari, luoghi di lavoro non sicuri e l’arresto illegale dei sindacati. Queste condizioni sono figlie di una totale mancanza di responsabilità dei marchi di fast fashion e dei rivenditori in cima alla catena di fornitura, la cui incessante ricerca di profitto spinge ulteriormente lo sfruttamento lungo la catena. Secondo la nostra esperienza, l’unica vera soluzione all’abuso dilagante che caratterizza l’industria dell’abbigliamento moderna sono gli accordi legalmente vincolanti. Accordi che richiedono alle aziende di abbigliamento di assumersi la responsabilità di migliorare le condizioni di lavoro nei luoghi dove viene prodotto il loro abbigliamento.

Abbiamo esempi concreti?

Questi accordi obbligano di fatto i marchi a garantire che i loro fornitori soddisfino standard specifici e misurabili, oltre a fornire meccanismi attraverso i quali lavoratori e sindacati possono ritenere le aziende responsabili di violazioni. C’è una lunga storia di questo tipo di accordi successivi, a cominciare dai contratti di lavoro innovativi dell’industria dell’abbigliamento dell’International Ladies Garment Workers Union (ILGWU) a New York; poi ci sono gli accordi internazionali come quello su salute e sicurezza nel settore tessile e dell’abbigliamento, e quello per combattere la violenza di genere nel settore dell’abbigliamento del Lesotho.

In ogni caso si tratta di una questione culturale, che parte anzitutto dai consumatori, fagocitati da questa nuova modalità di acquisto veloce e compulsivo.

È importante che i marchi percepiscano i consumatori preoccupati di come vengono trattati i lavoratori che fabbricano i loro vestiti. La campagna “Pay Your Workers-Respect Labour Rights”, ad esempio, è un’iniziativa globale sostenuta da sindacati, ONG e consumatori, che si sono uniti per chiedere a marchi come Adidas di firmare un accordo vincolante per garantire che i lavoratori che producono i loro capi siano pagati il giusto e godano del rispetto dei diritti fondamentali del lavoro.

La stagione degli audit di sistema, delle certificazioni e della responsabilità sociale ha davvero disatteso i suoi iniziali intenti?

Confermo. E questo è il motivo per cui il nostro sindacato e i sindacati di tutto il mondo sostengono la campagna “Pay Your Workers-Respect Labor Rights”, e altri specifici sforzi, per premere su marchi e rivenditori al fine di firmare accordi legalmente vincolanti con i sindacati. Il modello di controllo sociale volontario, gestito dalle imprese, ha fallito in modo clamoroso, inutile girarci attorno. Per troppo tempo i marchi si sono nascosti dietro codici di condotta vuoti che valgono solo la carta su cui sono scritti.

In sintesi? Tanta immagine, pochi diritti.

 

 

 

In copertina foto della Protesta “Detox Football” contro Adidas a Hong Kong. Gli attivisti di Greenpeace fuori dal negozio Adidas di Mongkok, Hong Kong, per protestare e sottolineare gli sporchi segreti del gigante dell’abbigliamento sportivo. Foto@Greenpeace

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