Priorità vaccini e limiti del criterio anagrafico: perché nessuno ha pensato alle malattie rare?

Nelle priorità dei vaccini l’Italia ha dimenticato le malattie rare: il criterio anagrafico non basta. La delusione nelle parole di Antonio Gaudioso (Presidente CittadinanzAttiva) e dell’Osservatorio Malattie Rare.

Il Piano vaccini dell’Italia forse aveva già nel nome la sua dannazione: andare lento. E, in più, muoversi male.

A chi contesta che in simili momenti non bisognerebbe fare polemiche e remare tutti dalla stessa parte, ricordo che il giornalismo ben fatto è una delle cure più antiche per capire dove viviamo e chi ci manovra presente e futuro.

Inevitabilmente distratti dagli intoppi di Astrazeneca o dalle polemiche su Scanzi, l’impressione è che troppi italiani con patologie gravi siano spariti dai radar della politica e dei tavoli decisionali quando si parla di criteri prioritari nel sistema vaccinale. Il criterio anagrafico rischia di confonderci, senza nulla togliere alla premura di mettere in salvo i più anziani.

Ogni volta che sento dire “priorità” mi vengono i brividi e mi si para davanti la fila dei check-in agli aeroporti in cui campeggia il cartello priority board con la sua traiettoria di accesso privilegiata in bella vista. Se paghi di più, salti la fila. Non è ciò che sta accadendo da noi, per carità, ma qua e là si stanno aprendo buchi di democrazia e violazioni della Costituzione. Non è vero che in emergenza tutto è possibile.

Avere una malattia rara e sparire dentro la burocrazia

Vi racconto la storia di Elisa Rubertelli, 41 anni, autrice e social media manager nonché tra i collaboratori di SenzaFiltro. Il suo è il capitolo delle malattie rare: le si apre di colpo un paio di anni fa, all’improvviso e prima della pandemia. 

“Quando ho saputo che la precedenza per il vaccino anti Covid-19 sarebbe stata attribuita ai pazienti fragili, ho subito pensato che, da malata rara e cronica, ne avrei fatto certamente parte. Invece, mi si è svelata una realtà triste e contraddittoria, un percorso a ostacoli nebuloso e frammentario. Un sistema non a fianco del malato, ma perso in infiniti rimandi, disorientante e sterile. Trovare risposte è diventato un’impresa.

Ma andiamo con ordine. A 39 anni accuso una trombosi oculare: è il febbraio del 2019. Inizia un lungo percorso per arrivare a stabilirne la causa, fatto di esami, consulti, diagnosi contraddittorie, terapie farmacologiche quotidiane con effetti collaterali a dir poco pesanti. A marzo 2020, più di un anno dopo e in piena prima ondata pandemica, finalmente il responso definitivo: sindrome degli anticorpi antifosfolipidi. Malattia autoimmune, inserita recentemente fra le patologie rare, le cui cifre principali sono il verificarsi di trombi, sia arteriosi che venosi (possibili in qualunque organo) e la poliabortività. Esiste anche una forma rara e imprevedibile, detta catastrofica, che comporta la comparsa di trombosi contemporaneamente a carico di più organi e il cui esito spesso è fatale. Non c’è cura, ma un approccio palliativo con l’assunzione quotidiana di anticoagulanti per scongiurare le trombosi”.

Quando conosco Elisa è il 2020 inoltrato; la pandemia incombe e il nostro rapporto si stringe. Ci scriviamo, ci sentiamo, ci mandiamo ogni tanto qualche audio che riempie i vuoti e rinsalda il legame; cerco di capire come sta, se le cure funzionano e quali ostacoli le complicano la strada.

“Negli ultimi mesi, il mio quadro clinico si aggrava: scopro, dopo dolori devastanti, di soffrire di endometriosi (altra malattia cronica, ma non rara) intestinale sul retto, di avere un mioma uterino da operare ed essere positiva al papilloma virus. Non rispondo alla terapia ormonale per cercare di ridurre l’endometriosi: perdo sangue per più di 50 giorni con emorragie e coaguli e si rende necessaria la sospensione degli anticoagulanti. In pratica, ho due malattie croniche le cui terapie si rivelano essere in conflitto fra loro. Si rende così necessaria una RMN per mappare con più precisione l’estensione delle placche endometriosiche e valutare un eventuale intervento di resezione intestinale. Ed eccoci al tema vaccino: prima di uscire di casa, andare in ospedale, espormi, seppur con tutte le cautele, mi chiedo: vista la situazione complicata, invalidante e l’esistenza della categoria pazienti fragili, ne avrò diritto?”.

Arriva la risposta che non vorremmo trovare. Inizia il suo viaggio autocondotto dentro la giungla della burocrazia e delle risposte che i medici non hanno e non sanno dare.

Nell’ordine:

  1. Sito regionale della campagna vaccinale: “Per i pazienti fragili, bisogna rivolgersi al medico di base”. 
  2. Medico di base: “Io non ho direttive a proposito, al momento.” 
  3. Interpella allora il telefono dell’ISS dedicato alle malattie rare: trova molta disponibilità e le girano il numero del centro regionale dedicato. 
  4. Il Centro dedicato le dice di risentire il medico di base con il codice della malattia rara. 
  5. Medico di base: “Io non posso prendermi la responsabilità, senta un immunologo.” 
  6. Richiama il centro regionale, spiega la sua impossibilità a muoversi per i dolori: accennano ad una televisita con l’immunologo e ad una commissione ”ai piani alti” al lavoro per definire come comportarsi con la varie malattie rare. Mi attengo alle regole e scrivo, come mi dicono, una mail in cui spiego la situazione all’immunologo. 
  7. Passa una settimana, nessun riscontro. 
  8. Arriva una mail dalla segreteria: “Non possiamo rilasciare un certificato senza aver visto la paziente” (ma non si era parlato di televisita, come una prassi abituale, per giunta?). E aggiungono: “La sindrome degli anticorpi antifosfolipidi non conferisce una marcata immunodeficienza, pertanto è corretto quanto detto dal medico di famiglia”.

Fine della storia in attesa che le somministrino un vaccino.

Finché un giorno chiedo a Elisa se le va di offrire la sua storia a SenzaFiltro, uscendo allo scoperto col proprio dolore personale per provare ad essere un’antenna verso gli altri. È un attimo e dice sì. Aggiunge: “Non sono in grado di discuterne scientificamente, ma i punti sono chiari: un imbarazzante rimpallo continuo in cui è il malato a dover chiedere e trovare i canali a cui rivolgersi. In tutto ciò, fanno male le linee sanitarie assolutamente generaliste: siamo pazienti con specifiche delicate e inconsuete e ognuno di noi ha marcate differenze personali dentro la stessa patologia. I protocolli non sono realmente vicini ai malati”.

Di buono c’è che il 12 marzo scorso, tra i Decreti di nomina dei Sottosegretari a firma del Ministro Roberto Speranza ci sia anche una esplicita attribuzione della delega alle malattie rare al Sottosegretario Pierpaolo Sileri. Una notizia non di poco conto per quanto Sileri avesse già cercato di tenere alta l’attenzione sul tema durante i due Governi Conte ma senza un formale decreto di nomina. Che sia la volta buona.

Malati fragili, maneggiare con cura. Il commento dell’Osservatorio Malattie Rare

Le storie da sole non bastano e non servono a scopi collettivi se non ci facciamo aiutare per interpretarle. 

“Purtroppo situazioni come queste erano prevedibili, almeno da parte di chi conosce la realtà delle malattie rare e il sistema burocratico che c’è dietro”, commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, Direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare. “Appena viste le nuove raccomandazioni, ci siamo resi conto del fatto che il non aver esplicitato i codici di esenzione delle malattie che rendono ‘fragili’ creava un buco nero che ogni medico, Asl o regione avrebbe riempito – o lasciato vuoto – a modo suo. E così sta accadendo. Per non parlare del dramma di chi ha una malattia rara senza diagnosi, perché magari sta ancora facendo accertamenti, e di chi pur avendo fatto richiesta di 104 non se l’è ancora vista riconoscere. Ci auguriamo che con il progredire della campagna vaccinale tutti i fragili vengano coperti, ma certo che i malati rari in fin dei conti sono un gruppo ristretto, soprattutto se si guarda ai soli adulti vaccinabili. Dichiararli tutti fragili senza troppe distinzioni avrebbe reso tutto più facile e senza grossi impatti nel complesso della distribuzione dei vaccini alla popolazione”. 

Antonio Gaudioso, Presidente CittadinanzAttiva: lo Stato dovrebbe fidarsi di più dei malati

La vicenda dei criteri di priorità è un esempio plastico delle cose che vanno fatte per cambiare radicalmente questo Paese. Sin dall’inizio ci siamo resi conto, e lo abbiamo costantemente verificato in CittadinanzAttiva, di come le differenze a livello regionale fossero insostenibili nel senso che già a livello nazionale era stato redatto un piano vaccinale ai primi di dicembre dopo di che le Regioni, aldilà di una serie di indicazioni di carattere generale, si sono ritenute autorizzate ad applicarlo secondo criteri e modalità che ritenevano più utili e opportune. In sostanza hanno creato non solo confusione ma anche una percezione di diseguaglianza totale tra i territori. Che poi il tutto si è trasformato in problemi concreti per quanto riguarda sì l’accessibilità ai vaccini ma, in generale, a tutte le cure legate al Covid. 

Questa situazione dovrebbe farci percepire l’inadeguatezza drammatica del sistema aldilà del fatto che il piano vaccinale è stato aggiornato in più occasioni: almeno tre o quattro volte per adattarlo alle situazioni che cambiavano in corsa e con tutto ciò che ne è derivato in termini di caos applicativo. 

Cosa dovremmo imparare?

Primo: quando vengono fatti i piani vaccinali, e questo in generale dovrebbe riguardare tutte le politiche del nostro Paese, dovrebbero essere coinvolti i soggetti direttamente interessati. In questo caso, le associazioni di pazienti: e  non perché è utile e necessario e siamo tutti contenti che vengano coinvolti ma perché sono i veri portatori di dati e informazioni di percorsi di vita delle persone, di quello che si chiama vita reale. Nel momento in cui si vive un’emergenza, il problema non è parlare in astratto ma parlare di quelle che sono le implicazioni da un punto di vista dell’organizzazione, della vita, della burocrazia, dell’accesso concreto ai servizi da parte delle persone. Serviva coinvolgere le persone, le associazioni, la leadership civica: sarebbe stato un modo per far funzionare meglio le cose e questo non è capitato.

Secondo: il fatto che c’è bisogno di una trasparente, univoca e unitaria gestione di questi tipi di percorsi nella campagna vaccinale. Non ci devono essere problemi di sfiducia e invece ci sono stati. Stiamo tuttora assistendo a situazioni che vengono percepite come privilegiate rispetto ad altre: il tema non è parlare astrattamente di una categoria professionale rispetto ad altre – penso alla polemica che ha toccato gli avvocati e i professionisti – perché in condizioni pandemiche come queste tutti dovrebbero avere il diritto di farlo ma esistono inevitabili tempi tecnici. Si parte da un criterio di anzianità perché le persone anziane soffrono di più e mediamente sono più di altri a rischio della vita ma non si possono lasciare indietro cittadini più giovani di loro solo per una questione di età. Oltre alle malattie rare penso ai malati oncologici e, in particolare, ai malati oncologici under 16 dato che non esiste ancora un vaccino sperimentato e autorizzato per i minori e allora si prova a tamponare agendo indirettamente sui genitori e sui caregiver. 

Ma la vera beffa per le categorie fragili sta nella burocrazia. Nel periodo che stiamo vivendo non è pensabile che debbano attivare un cavilloso percorso burocratico di certificazioni e controcertificazioni per quanto riguarda la loro malattia: non è accettabile, non è possibile e non è solo un problema legato al non utilizzo da parte della pubblica amministrazione delle tecnologie, della telemedicina o del digitale. Le istituzioni hanno il dovere di ricambiare la estrema fiducia che i cittadini hanno riposto in loro in questo pesantissimo anno perché la stragrande maggioranza degli italiani si è fidata di loro e sarebbe il minimo che, in casi di malattie e patologie gravi o rare, le istituzioni facessero altrettanto. Certo che magari ogni centomila casi ci sarà un furbo ma preferisco che lo Stato abbia fiducia nella maggior parte dei cittadini fragili e li metta in condizione di avere almeno una vita più semplice sul piano dell’accessibilità alle cure. Se lo meritano”.

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