Quando la lezione è flipped

“Sono seduto in questo corso di formazione da poco più di due ore, ma la sedia brucia. Sarà la terza o la quarta volta che guardo lo schermo o scarico la posta. Aspetto la risposta di un cliente e poi ho tante cose da fare. Il punto è che è tutto concitato e non c’è […]

“Sono seduto in questo corso di formazione da poco più di due ore, ma la sedia brucia. Sarà la terza o la quarta volta che guardo lo schermo o scarico la posta. Aspetto la risposta di un cliente e poi ho tante cose da fare. Il punto è che è tutto concitato e non c’è tempo di fermarsi e ragionare. E poi che cosa rimane dei corsi? Finché si è in aula tutto è affascinante, e poi dopo, appena metto il piede in ufficio, sparisce ogni cosa: i buoni propositi, le slide, le azioni che mi sono ripromesso di fare”.

Se vi siete riconosciuti in questa situazione, non siete i soli. Sono sempre più numerose le persone che vivono il conflitto tra la voglia di imparare cose nuove e la difficoltà di trovare il tempo da dedicare a se stessi. Un paradosso, poiché mai come adesso è chiaro che professionalmente siamo messi in discussione e che è molto importante formarsi, apprendere, condividere con altri. Mai come adesso bisogna fermarsi a riflettere sul senso di ciò che si fa, perché altrimenti si corre il rischio di girare a vuoto e fare errori. Ma la formazione attuale desta molte perplessità.

 

I problemi della formazione tradizionale

La formazione, come la si progetta e come la si eroga, è una disciplina che nel tempo si è innovata poco. La maggiore parte dell’apprendimento avviene ancora come ai tempi di Socrate: nelle aule discutendo con il maestro. Bellissimo ovviamente, ma il punto è che il mondo è cambiato molto, così come è cambiato il lavoro.

Nei primi anni Novanta Morgan McCall e i suoi colleghi del Center for Creative Leadership (North Carolina, USA) hanno introdotto un concetto che ha fortemente influenzato gli ultimi vent’anni della formazione: si tratta del principio 70:20:10. Intervistando un panel di 191 manager McCall domandò quali elementi erano stati determinanti nel costruire il loro modello di gestione. Le risposte consentirono di individuare tre macroaree da cui gli intervistati avevano tratto apprendimenti:

  • il duro lavoro quotidiano (70%);
  • le relazioni con altre persone, soprattutto i capi (20%);
  • i corsi di formazione e le letture (10%).

Le pur criticatissime conclusioni dello studio (non risultano evidenze empiriche successive che confermino le percentuali) hanno decisamente influenzato le modalità per disegnare i setting di apprendimento degli adulti. Da allora, in azienda, hanno un minor peso le attività di formazione istituzionale come i corsi, privilegiando, nella prospettiva dell’apprendimento, l’esperienza quotidiana del lavoro, oppure la relazione con capi e colleghi nel ruolo di coach o mentori.

Tutto questo ha determinato un ruolo sempre più secondario della formazione tradizionale, laddove per tradizionale intendiamo la combinazione didattica della lezione in aula, discussione, esercitazione o analisi di un caso, e poi conclusioni. Legioni di esperti carismatici, formatori e performatori hanno visto progressivamente sgretolarsi il loro habitat naturale fatto di lavagne e file powerpoint. Si è avvertito tanto, nelle aziende quanto nelle business school, che il mondo raccontato in aula risultava sempre più innaturale, talvolta stridente con quello di fuori. Strutturato, esaustivo, equilibrato, il primo; contraddittorio, ambiguo, iperdinamico il secondo. E la sedia degli allievi ha cominciato a bruciare.

 

Un nuovo metodo formativo: la flipped classroom

Nel 2012 è accaduto un fatto nuovo. Jonathan Bergmann e Aaron Sams sono due insegnanti di chimica del Colorado, e nel 2012 hanno dovuto affrontare il tema del massiccio assenteismo nelle loro classi di studenti delle scuole superiori. Anziché protestare con le famiglie o fare le vittime, decisero di inventare un nuovo modo per coinvolgere gli studenti assenti perché impegnati ad aiutare i genitori nelle loro attività. Registrarono le proprie lezioni davanti a una telecamera, e poi le divulgarono su un piattaforma accessibile a tutti gli studenti della classe. Il gradimento fu molto alto, specie perché tornando in classe si partiva proprio da quello che si aveva studiato da soli a casa. Il docente smetteva di fare lezione e dedicava il tempo in aula all’elaborazione degli aspetti più difficili dell’apprendimento, come l’applicazione degli argomenti studiati al mondo reale o l’innovazione del contenuto stesso. Bergmann e Sams divulgarono la loro esperienza, che rapidamente fece il giro del mondo, alimentando le sperimentazioni.

La nuova formazione venne definita flipped, rovesciata: un mondo sottosopra in cui l’insegnante non fa lezione, almeno non nel modo tradizionale. A dire il vero l’insegnante può usare i tanti materiali in rete per condividere con gli allievi i contenuti della sua disciplina. Ad esempio in Italia, sul portale Rai Scuola, sono numerosissimi i video a disposizione che possono essere organizzati in una lezione capovolta.

La flipped classroom dunque è un’idea di formazione in cui il momento del trasferimento del contenuto attraverso la lezione viene spostato fuori dall’aula e prima di essa, attraverso, ad esempio, una pillola formativa. Come si può vedere nello schema allegato, che riprende gli obiettivi dell’apprendimento di Bloom, fuori dall’aula si fanno le cose più semplici, come memorizzare e capire. In aula successivamente si applica la teoria al proprio contesto, si comprendono i fattori costitutivi di un tema, ci si confronta con gli altri, e infine si ricompongono le cose apprese in un modo nuovo, esprimendo, dunque, la capacità creativa individuale e di gruppo.

 

I manager nella classe rovesciata

Le applicazioni sulla formazione manageriale, però, sono decisamente limitate. Chi scrive, per esempio, ha fatto alcune sperimentazioni sul tema della leadership per i manager. Dopo un solido patto con l’azienda, ai partecipanti vengono inviati materiali video e scritti in cui i temi del corso sono affrontati in maniera strutturata. Si può chiedere agli allievi anche di fare una piccola ricerca, contribuendo a esplorare il tema con video o materiali trovati in rete. In aula il formatore riprende la materia anche commentando i contenuti selezionati dagli allievi e fissando alcuni concetti guida, e poi si prosegue studiando un caso in sottogruppo, facendo mappe concettuali, oppure producendo artefatti digitali che possono essere fruiti anche da altri, esterni al corso stesso.

Studiando questo tema nel contesto ASFOR, l’Associazione per la formazione manageriale, abbiamo individuato due aspetti fondamentali.

Da un lato è necessario fare con il partecipante un patto del tutto nuovo. Infatti con la flipped classroom il corso inizia prima di sedersi nell’aula di formazione. Nel patto con gli allievi deve essere ben chiaro che l’impegno di apprendimento inizia prima del corso. All’aula è riservato lo spazio per andare in profondità e studiare le applicazioni. Non ci sfugge che la non abitudine a considerare questa diversa modalità di formarsi possa generare qualche fraintendimento, all’inizio; che alcuni allievi arrivino senza aver guardato i video o letto i materiali, e dunque che si parta da condizioni di disparità. La nostra opinione è che valga comunque la pena di provare. Come tutte le innovazioni all’inizio possono non funzionare, ma provando si può migliorare.

L’altro aspetto decisivo riguarda i formatori. A loro viene chiesto di dedicare più energie all’individuazione di obiettivi didattici coerenti con i bisogni degli allievi, alla predisposizione di setting d’apprendimento credibili e strutturati, e infine alla progettazione. Viene richiesto di adottare uno stile di conduzione all’insegna della facilitazione e del coaching, più che della performance carismatica. I formatori flipped sono dei designer o degli architetti, piuttosto che degli attori o performer.

Qual è il vantaggio per gli allievi? Possono godere di un apprendimento che va molto più in profondità. Il prezioso tempo a disposizione viene utilizzato per discutere con il formatore, per chiarirsi i dubbi oppure per comprendere l’applicazione dei concetti studiati rispetto al proprio contesto. Non ne abbiamo le prove per il momento, ma possiamo ipotizzare, a parità di tempo impiegato, che l’apprendimento usando la modalità flipped sia più esteso, articolato e duraturo. La motivazione senza dubbio è da ricercare nel ruolo più attivo che il partecipante gioca nella formazione. Se una volta si andava a fare il corso di formazione per prendere fiato, con la flipped classroom questo potrebbe cambiare. In questa prospettiva dunque vi sono più vantaggi sia per gli allievi che per l’azienda, la quale ha un ritorno dell’investimento più alto.

Per chi come noi si è impegnato negli ultimi dieci anni a ripensare le organizzazioni in modo open, ovvero al di là del modello comando e controllo, la flipped classroom è una proposta perfetta. Un modo capovolto di pensare all’apprendimento per mettere sempre di più al centro l’allievo.

 

Photo by Jared Sluyter on Unsplash

 

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