Radio Popolare, impopolari vertenze: collaboratori in rivolta

È il 24 dicembre del 1976. Di lì a pochi giorni inizierà uno degli anni più caldi della storia recente italiana: terrorismo, scontri di piazza e contestazioni a opera di una gioventù infuocata e ribelle. Un gruppo di giovani di sinistra, guidati da un esperto giornalista ex Rai come Piero Scaramucci, deposita la testata Radio […]

È il 24 dicembre del 1976. Di lì a pochi giorni inizierà uno degli anni più caldi della storia recente italiana: terrorismo, scontri di piazza e contestazioni a opera di una gioventù infuocata e ribelle. Un gruppo di giovani di sinistra, guidati da un esperto giornalista ex Rai come Piero Scaramucci, deposita la testata Radio Popolare, che di lì in poi racconterà il mondo degli autonomi, degli indiani metropolitani, dei punk e dei sindacati di base; prima di diventare, negli anni Ottanta e Novanta, una radio di riferimento per tutta la sinistra non solo milanese.

Fin dal primo giorno a Radio Pop le decisioni vengono prese in modo collegiale, con un sistema che doveva garantire sia la trasparenza che la democrazia. Per anni non viene eletto solo il comitato di redazione, ma anche il direttore. Almeno fino a due anni fa, quando anche nell’ultima emittente rimasta del movimento è iniziata una guerra sindacale senza tregua, che due mesi fa è finita anche sui social lasciando di stucco i molti ascoltatori, che da sempre la sostengono economicamente (con l’“abbonaggio”), ma partecipano anche alla vita di una radio nata come un collettivo.

 

Radio Popolare, la protesta corre sui social

A rompere il velo di silenzio dopo due anni è una voce storica, amata dagli ascoltatori, che ai microfoni della radio è arrivata poco dopo la fondazione.

Si chiama Farid Adly, è libico, e da 40 anni racconta il mondo mediorientale per gli ascoltatori di Radio Pop. In gioco c’è il rinnovo del suo contratto. Nove anni fa da dipendente è diventato corrispondente, e ora deve modificarne la forma fiscale. In pratica chiede di non essere più pagato in ritenuta d’acconto, ma da quell’orecchio l’amministrazione non ci sente. Parte una lunga trattativa, che però non va a buon fine, ed è lui stesso a rompere il silenzio sui social.

«Sarò sempre vicino a questo progetto radiofonico – dice – anche se non sarò più un collaboratore dal 31 marzo. Non hanno rinnovato il mio contratto dopo 10 anni di volontariato, altrettanti da dipendente e 21 da collaboratore precario senza contributi, IRPEF o previdenza sociale. In tutto fatturavo 9.900 euro all’anno lordi con disponibilità 7 giorni su 7. Dal 1 gennaio 2010 al 31 dicembre 2019 ho fornito 51 servizi al mese 16 euro lordi a servizio. Senza contare gli approfondimenti. Pensavo di lavorare a un progetto umanitario: non sono contro Radio Popolare ma contro chi l’amministra: i principi individualistici sui quali si fonda la cooperativa non sono rispettati.»

Parole che pesano e che portano molti ascoltatori a chiedersi cosa stia succedendo alla loro radio. Anche perché Farid Adly poi rincara la dose affrontando un tabù che in pochi nel mondo dell’informazione hanno il coraggio di infrangere, cioè i compensi dei collaboratori rapportati a quelli di grandi firme e amministratori. «Ci sono compensi da 70.000 euro all’anno – chiosa – e paghette da 10 euro a servizio. I corrispondenti guadagnano 2.000 euro all’anno. Durante la lotta dei corrispondenti sfociata nello sciopero di metà marzo ho assistito ad alcuni atteggiamenti antisindacali».

A marzo di quest’anno infatti i corrispondenti hanno scioperato per tre giorni, per rivendicare un miglior trattamento economico. Hanno chiesto un incontro all’amministrazione, ma è stato necessario l’intervento del sindacato giornalisti per iniziare una trattativa, che oggi non è ancora conclusa. Un’offerta è stata fatta al CdR (ritenuto però illegittimo dal sindacato), che al momento è stata accettata, ma l’associazione giornalisti lombardi (la rappresentanza sindacale) da settimane non sente la proprietà e ribadisce che quanto offerto non è ciò che era stato richiesto.

 

Radio Popolare, la versione dell’amministrazione

L’amministrazione della radio risponde alle accuse dell’ex corrispondente con un comunicato stampa.

«La forma contrattuale – si legge – è la cessione di diritto d’autore, l’unica possibile non essendo Farid Adly giornalista (o per lo meno così a noi risulta, non avendoci mai fornito la fotocopia del tesserino dell’Ordine dei Giornalisti). Abbiamo spiegato che Radio Popolare gli avrebbe dato una mano (come sempre ha fatto con tutti coloro che ne hanno avuto bisogno) restando nel campo della legalità e che non ci saremmo spinti in territori dove fossero necessari i “tecnicismi tra commercialisti” che lasciamo volentieri ad altre aziende. A questo punto è partita la gogna dei social e rifiutandoci di sottostare a questa formula ricattatoria (“o si fa come dico io o sarà il caos”) sono partite le accuse dilicenziamento politico”, che mai si è profilato e dal quale lo stesso CdR in una nota interna ha preso le distanze. Accuse false e gravemente lesive dell’immagine della radio. In un ultimo incontro abbiamo ribadito a Farid che il suo contratto (con un corrispettivo economico incrementato proprio lo scorso anno) era ancora a disposizione, ma le falsità che lui ha permesso che circolassero (e da lui direttamente ribadite) dovevano essere smentite altrimenti sarebbe caduta ogni possibilità di rinnovo. E abbiamo chiesto che questa smentita venisse concordata con il Presidente della Cooperativa Radio Popolare perché più gravi sono le accuse, se fatte pubblicamente da un cooperante».

Il comunicato si conclude con “una nota sulla nostra democrazia interna”: «Il nostro sistema di pesi e contrappesi – scrivono i tre reggenti – è tale che non esiste una formula più “di sinistra”. Tutte le nostre cariche sono elettive e passano dalla discussione e dal voto dell’assemblea della Cooperativa che ogni tre anni rinnova le sue cariche ed i diversi ruoli di governance. Tutti a Radio Popolare abbiamo compensi inferiori a quelli che avremmo in altri luoghi ma sono in equilibrio rispetto alle diverse responsabilità che vengono ricoperte e direzione e amministrazione sono equiparate».

 

Un sistema inattaccabile. Fino a poco tempo fa

Al centro del dibattito c’è dunque il sistema di controllo di Radio Popolare, già messo a dura prova dallo sciopero dei corrispondenti di marzo, che non è l’unica vertenza che ha avuto luogo in radio nei due anni, trascorsi sempre con reggenti e mai con un direttore eletto.

Il sistema di garanzia per lavoratori e ascoltatori elaborato all’inizio, e che per oltre quattro decenni è stato inattaccabile (mai uno sciopero o una rivendicazione), ha iniziato a scricchiolare. Radio Popolare è una S.p.A. di proprietà per un 33% di una cooperativa, formata da giornalisti, tecnici ed ex giornalisti che hanno voluto rimanere legati al progetto. Le rimanenti azioni sono di proprietà di 11.000 investitori. Una scalata sarebbe impossibile, e questo è il segreto che ha salvato la radio anche quando ci fu la guerra per accaparrarsi le ultime frequenze libere, pagate a peso d’oro alla fine degli anni Novanta.

Il sistema prevede che il presidente della cooperativa faccia parte sempre del CdA come funzione di controllo. Per dare la massima rappresentatività si è voluto anche un CdR che non avesse tra i membri solo i giornalisti, ma anche il personale tecnico, formula non accettata però dal sindacato giornalisti.

 

Le vertenze sindacali, le divisioni, le incoerenze: che cosa succede a Radio Popolare?

Due anni fa, a causa delle difficoltà economiche, l’amministrazione ha chiesto la cassa integrazione e la riduzione volontaria dello stipendio. Alcuni hanno aderito. Per tutti c’è stato il blocco degli scatti fino al sesto livello. Quando un anno fa sono arrivati i contributi pubblici, 1 milione e 400.000 euro, è iniziata una prima vertenza per chiedere che venissero rimessi gli scatti. Il corpo giornalisti in quel momento è già spaccato.

L’inizio della guerra intestina è stato il rifiuto di accogliere lo storico direttore Piero Scaramucci nel CdA, nonostante fosse presidente della cooperativa. Con l’arrivo dei contributi pubblici vengono rimessi gli scatti, ma anche aumentato due volte lo stipendio dell’amministratore delegato (da 50.000 euro annui a 63.000, e poi a 70.000) durante assemblee a dire di tanti giornalisti poco pubblicizzate in radio e sui social, in modo da non favorire la presenza di tutti i soci.

E poi è iniziata la lunga battaglia sul CdR, che il sindacato giornalisti non riconosce, in quanto non composto da soli giornalisti, quindi di fatto illegittimo. Dopo due anni di CdR saltati, lotte intestine, direttori cambiati, Radio Popolare si trova con due vertenze aperte sulla questione dei corrispondenti (una gestita dal CdR illegittimo e una dal sindacato), un corpo redazionale spaccato e degli ascoltatori e sostenitori sempre più confusi e amareggiati nel trovare conferma a quel che diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa: «Siamo diversi ma uguali».

 

 

Photo credits: www.vitobiolchini.it

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