Reintegrati i sanitari sospesi: il diritto al lavoro vale quanto quello alla salute

In seguito a uno dei primi decreti del Governo Meloni medici, infermieri e operatori sanitari sospesi potranno tornare in corsia. Ecco perché è una buona notizia.

Chissà se ci scrolleremo davvero di dosso la pandemia e soprattutto il modo in cui l’abbiamo gestita, arrivando a fare una gara tra i diritti e mettendo al primo posto il diritto alla salute rispetto al diritto al lavoro.

Con il reintegro dei medici, infermieri, operatori sanitari e psicologi non vaccinati dal 2 novembre scorso, due mesi prima rispetto al 31 dicembre previsto, e con tutte le polemiche che ne sono scaturite, il dubbio è più che lecito.

I medici sospesi andrebbero puniti: i commenti all’indomani del primo decreto Meloni

“Non mi farò mai curare da un medico no vax”, “chiederò al medico che ho di fronte se è vaccinato o meno”, “i medici che non credono nella scienza e non hanno fatto il vaccino dovrebbero avere delle spillette per distinguersi dagli altri”. Sono solo alcune delle frasi lette su Twitter poco dopo che, il 29 ottobre scorso, si era diffusa la notizia che gli operatori sanitari potevano rientrare al lavoro, dopo esserne stati allontanati nell’aprile 2021 con il Decreto-legge n.44 e successive modifiche.

In uno Stato in cui diritto alla salute e diritto al lavoro dovrebbero stare sulla stessa riga, un approccio così punitivo non dovrebbe avere ragione di esistere. Parliamo tanto di misure per contrastare la disoccupazione, di sostegno alla povertà, e poi togliamo il lavoro a chi ha tutti i titoli per portarlo avanti e ha espresso una libera scelta in merito alla sua salute.

Ma non solo: lo facciamo in uno dei settori che annaspa di più, ossia quello della sanità.

Quando i diritti sono dispari: depauperamento delle cure e violazione della libera scelta

Con l’obbligo vaccinale imposto al personale sanitario sono stati sospesi 4.000 operatori sanitari – stando ai numeri ufficiali – che avrebbero potuto curare persone affette dal COVID-19 ma anche da altre malattie, fare prevenzione e, come medici di base, avrebbero potuto dare ognuno sostegno a 1.500 assistiti (numero massimo previsto per ciascun medico di famiglia).

Abbiamo fatto venire meno gli infermieri negli ospedali, e in un momento di grossi problemi psicologici – le tante richieste del bonus psicologo lo hanno dimostrato – abbiamo tolto la possibilità di colloqui con degli specialisti a chi si sentiva fragile. Magari non dal punto di vista fisico, ma da quello mentale.

Ma non solo: abbiamo tolto il lavoro a chi aveva studiato per conquistarselo, era stato in corsia nei primi mesi del COVID-19 e aveva curato a distanza chi aveva preso un virus nei primi tempi totalmente sconosciuto.

“Lo abbiamo fatto per prevenire la diffusione dei contagi”, si disse allora, ed è lo stesso leitmotiv su cui puntano regioni come la Campania e la Puglia, che oggi “alzano un muro contro i medici sospesi”. Peccato che poi si sia scoperto che, per quel che riguarda il contagio, il vaccino non riesca affatto a prevenirlo. E questo nonostante lo stesso giuramento di Ippocrate chieda di “rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico”, e di “rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni”.

Un depauperamento delle libertà reso evidente da alcuni giudici, come Roberto Beghini del Tribunale di Padova, che ha riammesso un’operatrice sociosanitaria con la sentenza del 28 aprile scorso ritenendo l’obbligo vaccinale “inutile e gravemente pregiudizievole”. Cui ha fatto eco, nel luglio scorso, il giudice Susanna Zanda del Tribunale di Firenze riammettendo una psicologa sospesa. Se vogliamo che diritto alla salute e diritto al lavoro stiano davvero sullo stesso piano forse dovremmo partire da qui. Il che non significa “buttare all’aria tutto il lavoro di contrasto alla pandemia”, ma imparare dai propri errori e puntare sulla difesa di tutti i diritti costituzionali. Nessuno escluso.

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Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Photo credits: torial.com

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