Rino Agostiniani, Società Italiana Pediatria: “Il modello è vecchio, il pediatra da solo non può rispondere a tutto”

L’Italia è la nazione con più pediatri in Europa, ma sono male organizzati. Il futuro? Gruppi di specialisti diversi in un unico ambulatorio.

La pandemia continua a essere un banco di prova per tanti ambiti, e la sanità, in particolare, è quello con più riflettori puntati addosso. La sanità però non è solo la qualità del servizio medico e la tempestività nell’erogare le prestazioni, ma anche l’organizzazione tra le parti in gioco, spesso slacciate o persino disperse, così come le energie dei pazienti. Con SenzaFiltro vogliamo focalizzarci su un segmento in particolare che richiede questa concertazione e che ci accompagna sin dai primi anni di vita, quelli di noi stessi, dei nostri figli o nipoti: parliamo del servizio pediatrico.

Per fare al meglio il punto della situazione ci confrontiamo con chi vive questo lavoro sia in veste di medico che dal fronte di un osservatorio nazionale. Abbiamo così contattato Rino Agostiniani, vicepresidente della storica Società Italiana di Pediatria, oltre che direttore dell’area Pediatria e Neonatologia dell’ASL Toscana Centro a Firenze e primario del reparto di Pediatria del San Jacopo di Pistoia.

Rino Agostiniani, vicepresidente della Società Italiana di Pediatria

“Basta pediatri singoli: gruppi di medici in ambulatorio per rispondere alle esigenze di tutti”

Con Agostiniani partiamo proprio dallo scollamento paradossale tra struttura ospedaliera, che effettua esami strumentali e interventi, e servizi territoriali. Una problematica denunciata da numerose famiglie, in particolare con figli che presentano patologie croniche o disabilità, oltre che dai medici stessi.

“La continuità tra ospedale e territorio è spesso solo annunciata a parole ma raramente concretizzata”, afferma. “Nel tempo abbiamo sviluppato un’ottima capacità gestionale a livello di eccellenze ospedaliere; poi però andiamo in crisi nell’offrire assistenza di prossimità  adeguata alle esigenze dei bambini con patologie croniche complesse”.

Entriamo nel vivo della questione strutturale e puntiamo subito a una questione scomoda. Abbiamo infatti raccolto nel tempo alcune lamentele da parte di specialisti dell’età pediatrica, in particolare neuropsichiatri e neurologi, che hanno espresso la preoccupazione e il disappunto per il fatto che i pediatri dirottino spesso i piccoli pazienti su di loro anche per delle semplici problematiche o inezie, trovandosi così a gestire un numero corposo di pazienti che incrementano le file di attesa a danno di chi ha problemi più seri. Tra i vari esempi quello di bambini che lamentano mal di testa e magari poi si scopre che è “solo” sinusite, ma per confermarlo intervengono gli specialisti.

Se da un lato la questione è reale e giustamente disagevole, dall’altro i pediatri come fanno a discriminare se un bambino o una bambina ha patologie serie o meno, visto che non possono effettuare esami strumentali loro stessi? “Parto da una riflessione confermata dalla pandemia stessa”, sottolinea Agostiniani. “Abbiamo ancora a che fare con un modello organizzativo nato quarant’anni fa e che ormai è superato. Il modello di cui parlo è quello del pediatra singolo, che nel suo ambulatorio deve gestire da solo l’intero carico di bambini a lui assegnato. La domanda è: come fa un pediatra a essere preparato su tutto e a dare riscontri sicuri su questo tutto? In medicina le conoscenze nel giro di un anno sono già raddoppiate su ogni argomento”.

Sul fronte organizzativo quale soluzione proporrebbe? “A livello ambulatoriale dovrebbe essere attivato un gruppo di medici in cui ogni pediatra abbia conoscenze specifiche rispetto a un determinato settore. In questo contesto andrebbero inoltre aggiunte figure di fisioterapisti, infermieri, psicologi, con il supporto, ogni tot, di uno specialista che vada a fare attività ambulatoriale. Con un’organizzazione di questo tipo si eviterebbe il carico sullo specialista dell’ospedale e sul pronto soccorso, a cui spesso ci si rivolge, ma si costruirebbe un servizio territoriale realmente rispondente alle necessità”.

A livello burocratico, non meno importante, con questa dinamica il piccolo paziente sarebbe assegnato sempre a un solo medico? “Sì, che però lavora in gruppo. Questo consentirebbe non più una copertura, come accade ora, per fasce orarie, ma per tutte le dodici ore diurne, compreso anche il fine settimana. Ciò implicherebbe una grande crescita della medicina territoriale, offrendo un servizio migliore ai nostri bambini. Cose scritte da questo punto di vista ce ne sono tante, ma quasi nessuna purtroppo viene poi concretizzata veramente”.

In questa dinamica sarebbero previste anche strumentazioni, tipo quelle per fare le ecografie? “Assolutamente sì, gestite dai pediatri e nel caso serva anche da specialisti ospedalieri, sempre per migliorare le tempistiche ed evitare sovraccarichi”.

Italia sul podio per numero di pediatri, ma poca organizzazione

Diamo anche voce alle lamentele di numerosi genitori che segnalano da tempo, come un paradosso, il fatto di dover portare i propri bambini fuori con la febbre per raggiungere lo studio pediatrico, quando di solito mentre si ha la febbre viene consigliato di stare in casa. In poche parole si chiedono come mai i pediatri non facciano più visite a domicilio.

“Senza entrare in discorsi sugli accordi sindacali, che non mi competono, ciò che vorrei sottolineare è che il bambino con 38 e mezzo di febbre può essere portato nello studio pediatrico. Perché chiediamoci: un pediatra da solo come farebbe ad andare a vistare tutti i pazienti febbrili, che nei periodi delle influenze sono anche 15/20 al giorno? Sarebbe impossibile e impedirebbe di visitarli tutti. Diverso il discorso riguardante i bambini con patologie croniche, che necessitano magari di qualcuno di competente che gli somministri il farmaco o che li aiuti su altri fronti: in questo caso è necessario che l’assistenza sia prestata a livello domiciliare.”

Obiettivamente ci sono territori che scarseggiano di pediatri e che “impediscono” di lavorare sulla rete dei servizi che possono supportare al meglio bambini con determinate patologie o disturbi. Che cosa può dire al riguardo?

“Ci sono zone periferiche o anche sperdute che presentano scarso numero di bambini, e che per tale motivo non sono sufficientemente remunerative per il medico in questione. Ciò determina una difficoltà per le famiglie di trovare pediatri che possano prendersi cura dei loro figli. Soprattutto in queste aree andrebbero messi insieme più ambiti, come spiegavo all’inizio, proprio per garantire una presenza pediatrica. In alcuni territori esistono ad esempio delle pediatrie, intese come reparto ospedaliero, che non hanno più senso di esistere perché non riescono a offrire un servizio al livello dei grandi ospedali. Ecco, le risorse umane di questi contesti verrebbero valorizzate al meglio se fossero dirottate su attività ambulatoriali, magari con una turnazione.”

Quindi sfatiamo anche il luogo comune che ritiene che gli studenti di Medicina scelgano meno questa specializzazione: “Certo che no, anzi Pediatria è richiestissima! Il problema deriva proprio dalla distribuzione territoriale che spiegavo prima. Si dice spesso che manchino i pediatri, ma bisogna tenere presente che in Italia, come numero complessivo di pediatri, siamo quelli che ne abbiamo più di tutta l’Europa. Se faccio un rapporto di pediatri per 100.000 abitanti, in Italia ne abbiamo il doppio rispetto, ad esempio, alla Francia, e quasi il doppio di quelli presenti in Germania. Tanti pediatri ma difficoltà organizzativa, una vera contraddizione: per questo il modello ha assoluta necessità di essere rivisto”.

Abbiamo parlato delle lacune e di quello che desta rimostranze. Restando sul tema territorialità, che cosa invece funziona, sempre dal punto di vista pediatrico, e di cui si parla poco?

“Va ricordato che in Italia la quasi totalità dei bambini ha un pediatra di riferimento, cosa non scontata. Si tratta di una figura alla quale rivolgersi per sviluppare un percorso di educazione sanitaria e di corretti stili di vita, che consentono possibilità maggiori di salute nei decenni successivi. Questo è il grosso impegno che deve prendersi la pediatria territoriale: costruire adulti sani. Per fare ciò occorre dare indicazioni per una corretta alimentazione, esercizio fisico, e anche come rispettare l’ambiente. Cose fondamentali. Si pensa infatti che le possibilità di salute dipendano dai farmaci. In realtà incidono al 10%; il 90% è genetica e stili di vita che vanno attivati fin da piccoli.”

A proposito di medicina territoriale, apriamo una breve ma doverosa parentesi che ricorda il silenzio assordante di alcune ASL territoriali sul fronte dei dati allarmanti di casi oncologici infantili in zone di pertinenza, correlati a situazioni di grave inquinamento industriale. Numeri e situazioni raccapriccianti lasciati proseguire come se niente fosse, a danno di numerose vite.

Pediatri e pandemia: “I bambini non sono untori; le scuole non vanno chiuse”

Il servizio pediatrico al tempo del COVID-19: quali sono ad oggi le maggiori sfide da affrontare e le lacune da colmare?

“Ci siamo confrontati con una patologia nuova, non conosciuta, e ammetto che non sono mancati comportamenti radicalizzati da parte delle figure mediche, come il fatto di rispondere solo al telefono”, afferma Agostiniani. “Dal punto di vista generale questa pandemia ha enfatizzato le disuguaglianze nel nostro Paese, là dove ancora di più occorre avere una visione integrata tra scuola, sociale e servizi, che devono viaggiare insieme per funzionare bene”.

I bambini, possiamo dirlo, sono stati i grandi dimenticati di questa pandemia, e su tanti fronti. Quello che è successo non può essere più recuperato; possiamo invece scardinare un luogo comune traghettato a oltranza durante il primo lockdown proprio da parte di alcuni medici, ossia che i bambini siano degli “untori” speciali di COVID-19?

Quelli che lo affermano hanno poca cultura. Ci sono, va detto, alcune forme gravi come la sindrome infiammatoria multisistemica, però percentualmente si tratta di numeri piccoli e comunque sono andate pressoché tutte bene. La maggior parte dei bambini – tre su quattro – passa il coronavirus in maniera asintomatica; i casi sono stati rintracciati perché venivano fatti tamponi famigliari. Ma soprattutto, va ribadito, i bambini non sono affatto degli untori; sono piuttosto spesso gli adulti che li contagiano. Diverso il discorso per gli adolescenti, dove la circolazione è sicuramente più rilevante. Su questo mi allaccio al tema delle scuole, tasto su cui mi arrabbio molto.”

Approfondiamolo. “La scuola dovrebbe essere la priorità e invece è stata messa all’ultimo posto rispetto a tanti altri aspetti e a dispetto di numeri chiari, forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, che ci dicono che solo il 2% di popolazione si contagia a scuola. Come Società Italiana di Pediatria, insieme all’ospedale Bambino Gesù di Roma, abbiamo fatto uno studio longitudinale su un plesso scolastico, riscontrando ancora una volta come le situazioni di insorgenza all’interno della scuola siano assolutamente trascurabili”.

“Inoltre la scuola è uno dei luoghi più controllati da questo punto di vista. Sentire che si chiudono le scuole per evitare le stragi mi fa male perché non ha nessun fondamento scientifico, ma solo una matrice emotiva seguita da alcune regioni. Lo Stato può intervenire con ristori economici, ma non potrà far recuperare ciò che un bambino ha perso dal punto di vista educativo e sociale. I 6 o 12 anni di un bambino, per fare un esempio, non torneranno mai più, resta una cicatrice innegabile. Il futuro dei bambini e dei ragazzi è il futuro del Paese e va tutelato al massimo.”

Foto di copertina: wecanjob.it

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