Se emergenza fa rima con fantascienza

In questi strani giorni di quarantena sto leggendo un libro di fantascienza. Mi ha sempre appassionato, la fantascienza, per la sua capacità di immaginare futuri; capacità che improvvisamente si rivela in questo periodo particolarmente utile e necessaria, ma che i grandi scrittori di genere – uno fra tutti Philip Dick – praticano da sempre senza […]

In questi strani giorni di quarantena sto leggendo un libro di fantascienza. Mi ha sempre appassionato, la fantascienza, per la sua capacità di immaginare futuri; capacità che improvvisamente si rivela in questo periodo particolarmente utile e necessaria, ma che i grandi scrittori di genere – uno fra tutti Philip Dick – praticano da sempre senza fare tanto chiasso. Una capacità “predittiva” si direbbe ora, che nei loro racconti riescono a spingere ben al di là delle strette mura dei big data o delle ricerche di mercato.

Il romanzo che sto leggendo è di Cixin Liu, e ha vinto il Premio Hugo, che è un po’ come il premio Nobel per la letteratura fantascientifica. Come molti dei più interessanti nuovi autori di questo genere è cinese: la sua famiglia è stata duramente colpita dalla rivoluzione culturale e i suoi romanzi contengono sempre una riflessione sul nuovo ruolo della Cina nel mondo contemporaneo. Il libro si intitola Il problema dei tre corpi, fa parte di una trilogia ed è stato scritto nel 2007.

L’autore vi immagina un mondo in cui improvvisamente venga meno la prima delle nostre certezze come abitanti del pianeta Terra, ovvero la regolarità del ciclo solare. Al suo posto si alternano in maniera del tutto casuale e imprevedibile il sorgere e il tramontare di tre soli, dando origine a quelle che vengono denominate Ere del Caos, solo raramente interrotte da brevi periodi in cui l’alba e il tramonto acquistano ritmi regolari rendendo possibile la vita. In questo stato di totale incertezza, in cui l’esistenza rimane sospesa per decenni o per secoli in attesa di un periodo favorevole, chi è in grado di predire quando saranno le Ere dell’Ordine, naturalmente, detiene il potere più grande.

Ecco: se finora la nostra generazione ha visto in una più o meno costante Era dell’Ordine, in cui ogni avvenimento era più meno prevedibile al punto da dichiarare in tutti i campi la supremazia degli algoritmi, adesso ci dobbiamo misurare con l’Era del Caos, in cui le leggi che conoscevamo non hanno più nessun significato.

 

La pandemia e la fine del dominio di numeri e algoritmi. Che cosa rimane?

Nel mio settore – la comunicazione – la fine dell’Era dell’Ordine ha corrisposto a due fenomeni più o meno contemporanei:

  • l’inammissibilità di ogni forma di pubblicità commerciale, che era spesso anche l’unico contenuto di comunicazione che le aziende e le agenzie erano abituate a mettere in campo;
  • la fine della fiducia nei numeri e negli algoritmi, quelli dei business plan, delle statistiche, dei media plan; quei numeri, insomma, che fino a ieri attribuivano ai volatili comportamenti dei consumatori l’illusione della scienza esatta.

Sono un po’ gli stessi numeri che leggiamo sui giornali o che ci comunicano (non raccontano, comunicano) nell’appuntamento giornaliero della conferenza stampa della protezione civile, senza riuscire davvero a spiegarci che cosa stia succedendo, ma soprattutto perché. Perché i numeri degli infettati calano o crescono? Perché le persone non stanno in casa? Perché dobbiamo affrontare questa terribile emergenza? Perché la mia fabbrica deve chiudere? Perché non ho più il denaro per pagare il mutuo, o la spesa? Perché non posso abbracciare i miei genitori? Perché tutto quello che so o sapevo fare non funziona o non funzionerà più?

Dopo tanti anni in cui ci hanno spiegato che bisognava ragionare in maniera razionale sul “cosa”, o al limite sul “quanto”, ora le uniche domande che abbiamo voglia di porci sono quelle che iniziano con il “perché”, o al limite con il “quando”.

Ma alle domande sul perché e sul quando – quelle sul senso delle cose insomma – non rispondono gli statistici, né i matematici, né gli informatici. Alle domande sul perché e sul quando rispondono i filosofi, i fisici teoretici, gli antropologi, i sociologi, gli artisti, gli scrittori. Anche gli scrittori di fantascienza. Gli umanisti, insomma, per metterli in una categoria.

 

L’emergenza, gli umanisti e le letture da quarantena

Uno dei fenomeni più evidenti che la pandemia ha attivato è proprio questo: l’improvviso ritorno in auge degli umanisti, a tutti i livelli e in tutti i settori. Proprio perché ci si è resi conto che c’è bisogno di qualcuno che cerchi di dare un senso a ciò che sta succedendo, di raccontarlo, di renderlo accettabile collocandolo in una prospettiva comprensibile per l’esperienza umana. Contemporaneamente, tutte le risorse collegate alle discipline umanistiche – la letteratura, il teatro, il cinema, l’arte, la musica – sono diventate indispensabili nella nostra quotidianità, svuotata da numeri e obiettivi.

La cosa bella delle scienze umane forse è questa: che parlano di noi esseri umani come siamo e in tutte le nostre infinite manifestazioni, senza obbligarci a raggiungere nessun obiettivo. Che non ci chiedono nulla, se non di aiutarci a conoscerci meglio e a comprendere meglio quello che siamo. Anche se non dobbiamo conquistare nulla e siamo chiusi nelle nostre case. Lo fanno da secoli, anzi da millenni, senza l’arroganza dei modelli quantitativi, ma racchiudendo in sé le infinite variabili delle esperienze umane dalle origini a oggi. Non so perché negli ultimi decenni ci siamo dimenticati di averne bisogno.

Che poi è vero, ci sono anche gli articoli sulla Harvard Business Review in cui si dice che è utile mettere un filosofo in azienda o far leggere Guerra e pace agli imprenditori, ma purtroppo umanisti non ci si improvvisa, nemmeno se lo suggerisce il guru del marketing di turno.

Credo che in questo momento, in cui tanto di quello che avevamo o facevamo prima sembra superfluo, tanto da non trovare posto nelle nostre cucine, sui nostri divani o sulle nostre posizioni di lavoro improvvisate, il metro di misura per tutto sia ciò che dà un senso e una prospettiva al nostro essere umani.

Per questo la tecnologia e le risorse digitali, sono diventati improvvisamente quello per cui probabilmente erano nate: strumenti per le persone che permettono alle persone di continuare a fare la loro vita anche in questo momento, soddisfacendo i loro bisogni più umani: parlarsi e vedersi, acquistare un paio di scarpe o il loro cibo preferito, partecipare a corsi, guardare film e spettacoli, lavorare.

 

Aziende, tolti i prodotti, di che cosa si parla?

Dal mio osservatorio vedo improvvisamente i piani di marketing e i piani editoriali delle aziende svuotarsi finalmente di prodotti, offerte, eventi e promozioni, e chi non ha afferrato il cambiamento in atto nella comunicazione dell’ultimo decennio guardare con sgomento questo vuoto. La domanda che mi sento fare dalle aziende è: se non parliamo di prodotti di cosa parliamo?

Forse ci voleva il virus per far capire quello che per me, per ogni umanista, era evidente anche prima: ovvero che dobbiamo parlare di noi, aziende ed esseri umani dentro le aziende.

  • Parliamo del fatto che, come imprenditori o come lavoratori, ci sentiamo in difficoltà e abbiamo anche paura;
  • parliamo di quello che amiamo e che in questi giorni ci ispira malgrado tutto;
  • parliamo delle persone intorno a noi, delle nostre famiglie e dei nostri collaboratori e della serie infinita di azioni bellissime che fanno ogni istante;
  • parliamo della nostra storia e della nostra memoria, che ci ha portati fino a qui e che ancora ci guiderà;
  • parliamo creativamente di come possiamo inventarci il presente e, un passo alla volta, anche il futuro. Anche con l’aiuto della fantascienza, perché no.

E come imprenditori, manager, lavoratori, persone, credo che troveremo più risposte su come affrontare questi giorni leggendo o guardando le storie di ciò che è successo in ogni tempo e in ogni luogo ad altri uomini e donne come noi, piuttosto che nei manuali di management.

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