Se questo è un reddito: giornalisti, non si vive di sole news

La crisi dell’editoria prosegue e i giornalisti sono le prime vittime: le redazioni si rimpiccioliscono, i contenuti vengono pagati meno, e i grandi gruppi editoriali ricorrono ai prepensionamenti per tagliare sui costi e reclutare firme di prestigio, bloccando il turnover. La via d’uscita? Nuove competenze e tecnologie.

69.000, 60.000, 14.000. Tre numeri che sintetizzano la realtà del lavoro giornalistico di oggi. Il primo è il reddito medio in euro dei giornalisti pensionati, il secondo è quello degli attivi assunti a tempo indeterminato nelle redazioni, e il terzo è quello dei freelance, che oggi creano il 65% dei contenuti. Tre numeri che sono la diagnosi senza appello del giornalismo italiano.

La terza cifra si spiega con le parole di Alberto Puliafito, direttore di Slow News, durante l’appuntamento #digit16 organizzato da LSDI nel 2017: «Le news sono diventate commodity, per come s’è evoluto l’ecosistema giornalistico». E le commodity rispondono a logiche di mercato: se hai molta offerta e poca domanda i prezzi crollano. E i freelance producono news.

Dalla Francia all’Italia, dal giornalismo alla rinuncia

E sono storie esemplari, quelle dei freelance italiani. Come quella di Matteo – nome di fantasia, vuole rimanere anonimo – che al posto di un corso di giornalismo ha scelto la via dell’estero.

«In dieci anni, in Francia ho cambiato spesso lavoro, in meglio, passando da giornali ad agenzie e viceversa, facendo colloqui e con tempi di disoccupazione al massimo di un paio di mesi». E così Matteo, all’epoca venticinquenne, appassionato di giornalismo, di ecologia ed economia sociale – sulla quale ha scritto un libro – in pochi anni è diventato la spina dorsale della rivista delle principali ONG francesi.

«Mi occupavo – prosegue Matteo – della macchina del giornale, curando in prima persona tutti gli aspetti multimediali e una parte di marketing». La padronanza di mezzi e argomenti ha permesso a Matteo di organizzare un crowdfunding per tentare di far sopravvivere la rivista. Un successo. Sono stati raccolti oltre 60.000 euro in pochi mesi, che però non hanno permesso di evitare la chiusura. «Tutti gli stipendi che ho ricevuto sono stati dignitosi, ma a Parigi la vita è dura. Anche con uno stipendio medio».

E allora Matteo, che nel frattempo progettava la propria vita con una compagna in Italia, ha deciso di tornare. «Sono stato sconsigliato da tutti. Proprio tutti. Ma ho tentato comunque, forte dell’esperienza fatta in Francia». Ma il know-how editoriale maturato oltralpe l’Italia non lo ha riconosciuto. Coinvolto in un paio di progetti inconcludenti e dopo aver venduto articoli a 25 euro l’uno ad alcuni tra i principali media ambientali italiani su argomenti “tosti” e specialistici come i suoi, Matteo ha deciso di lasciare.

«La cosa più sconcertante è stata il “raddoppiodei compensi da 25 euro a pezzo: quando creavo le grafiche attive online si arrivava a 50 euro. Un prodotto derivato come la grafica, fatta con dati raccolti per l’articolo, valeva quanto tutto il contenuto

Ora Matteo, appesa la penna al chiodo, si divide tra il lavoro in un supermercato e quello da corriere in bici.

Anna Soru, ACTA: “Difficoltà per i giornalisti a esporsi su diritti e salari: c’è paura di esporsi”

Non c’è solo la scarsa retribuzione come barriera per la professione giornalistica. Il problema è anche la prospettiva. Ne sa qualcosa Virginia (altro nome di fantasia), giornalista che si è occupata d’importanti tematiche per testate nazionali, passando dal sociale agli esteri. Anche sul campo.

«Il mio problema non è stato il salario, che era sufficiente per vivere, ma la prospettiva di lavoro. Dopo anni passati a produrre materiale di qualità, apprezzato da tutti, ti aspetti che il riconoscimento arrivi sotto forma dell’offerta di un posto in redazione, o almeno un contratto; cose che non sono mai arrivate». Ma Virginia non ha mollato, e ora scrive quasi ogni giorno per varie testate estere. E il giornalismo italiano non le appartiene più.

C’è chi riesce a vivere vincendo dei grant giornalistici, che si sommano ai magri compensi nostrani. In queste occasioni si mettono a confronto le condizioni di vita dei giornalisti freelance italiani con quelle dei loro colleghi negli altri Paesi UE. «Stiamo lievemente meglio dei Paesi dell’Est – mi dice l’ennesima fonte anonima – ma si tratta di nazioni dove la libertà di stampa è sotto attacco da anni. Siamo il fanalino di coda, tra i Paesi a lunga tradizione democratica, nell’Unione Europea». E c’è la paura di esporsi.

«Abbiamo visto che i giornalisti hanno molte più difficoltà a esprimersi sul fronte di diritti e salari degli altri freelance», ci dice Anna Soru, presidente di ACTA, l’associazione dei freelance che ora si occupa anche dei giornalisti con ACTA Media. «Quando siamo partiti a occuparci dei freelance dell’editoria libraria, con Red ACTA, abbiamo visto una dinamica associativa molto forte, mentre con ACTA Media per i giornalisti le cose vanno a rilento perché c’è paura di esporsi. Oltre a ciò, il giornalista deve lavorare molto a causa degli scarsi compensi e ha poco tempo per le attività associative».

Il digitale non funziona (in Italia). E le redazioni si restringono

E se i freelance piangono le redazioni non ridono. I grandi gruppi editoriali italiani sono allo sbando e gli editori, stretti in una crisi dalla quale non si vede una via d’uscita, fanno i conti con copie in calo, introiti pubblicitari in picchiata, costi fissi elevati e una scarsa flessibilità industriale nel seguire mercati e innovazione di prodotto.

Lo dimostra il digitale, che mentre per il New York Times è diventato la principale fonte di ricavi (57%) per La Repubblica è marginale (20%). Il quotidiano romano è sceso sotto la soglia psicologica delle 100.000 copie giornaliere, dato lontano dal record del 2001 con 651.000, e al di sotto persino del 1978 con 148.000 copie, mentre il digitale è da anni inchiodato a 50.000 copie. È una situazione comune a tutta l’editoria italiana, che cerca di limare i costi trovandosi di fronte spesso a spese incomprimibili, come quelle dei redattori interni.

«Il giornale Il Domani sta tentando di realizzare una buona, sulla carta, coniugazione tra digitale e cartaceo. Chi dirige la parte digitale non è un giornalista e ciò conferma il fatto che servono nuove competenze editoriali per salvare e far progredire il settore. I muri di Berlino tra giornalisti e altre professioni devono crollare», ci dice Lazzaro Pappagallo, segretario del sindacato Stampa Romana. «Per il resto, nonostante le trasformazioni che nei grandi gruppi comunque ci sono, i numeri nelle redazioni si vanno sempre più restringendo e i tentativi di realizzare nuovi prodotti sfociano sempre più spesso nel marketing».

I prepensionamenti che bloccano il turnover

Una delle strategie usate per ridurre i costi fissi è quella dei prepensionamenti, che però hanno una serie di difetti.

Il primo è di spostare il costo editoriale sulle casse dell’INPGI, e questo è uno dei motivi del default dell’istituto che passerà dall’INPS. Il secondo è che la legge impedisce la continuazione del rapporto di lavoro del prepensionato, ma solo all’interno del gruppo editoriale d’appartenenza. Tradotto: un giornalista prepensionato può collaborare come freelance per un altro editore. E per lui è un doppio affare, perché il salario aggiuntivo che deve al prepensionato è inferiore sia all’assunzione, sia a ciò che dovrebbe dare a un freelance non compresso dal mercato. Risparmiando molto ci si porta in casa un giornalista con un’esperienza di anni e che magari è anche una firma, bloccando così il turnover.

E il passaggio di competenze generazionali dovrebbe essere cruciale. Nel mondo anglosassone per affrontarlo si creano degli “equipaggi” per le storie importanti, le long term stories, composti da un paio di giornalisti, senior e junior, un grafico, un operatore multimediale e un programmatore che lavorano su un progetto con un’osmosi di metodologie, esperienze, contenuti e tecnologie che aumenta l’efficienza editoriale, trasferendo un know-how ogni volta più innovativo. Non a caso, Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, che ora macina utili, tre anni fa scandalizzò l’ambiente giornalistico assumendo 75 giornalisti e 75 ingegneri informatici che furono inseriti in redazione con pari dignità.

Perché, si sia freelance, redazionali o editori, la partita si giocherà su competenze e tecnologie. E l’informazione italiana su questo fronte è in coma profondo.

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