Eccolo, il nocciolo della questione. Il lavoro da remoto è davvero un’utopia sacrificata sull’altare del potere?
“Sia nel pubblico che nel privato c’è un pensiero ancora a maggioranza di stampo fordista, dove chi dovrebbe organizzare il lavoro, in sostanza chi ha il comando, mantiene una cultura di controllo”, spiega Gilberto Gini, segretario nazionale Smart Workers Union. “Il capo ti vuole vedere in ufficio, anche se non sa bene di che cosa ti occupi, per lui è sufficiente sapere che sei lì. Una questione di potere che coinvolge anche i lavoratori, sebbene la pandemia abbia in parte sbloccato la tipica mentalità di subordinati in senso stretto. D’altro canto, però, lavorare in smart working presuppone la capacità di operare in autonomia, con senso dell’organizzazione e competenze tecniche”.
Senza dimenticare che il rapporto capo-collaboratore si misura in un contesto storico ed economico preciso. “Appunto. In Italia siamo ancorati a una vecchia concezione dell’economia, basata sulla vendita della benzina, sulla cessione degli immobili nelle grandi città, sul pendolarismo, su quartieri e negozi vicino ai posti di lavoro. Chiaro che quando si ha un’economia del genere, che spinge per il non cambiamento, tutto diventa più difficile. Abbiamo una politica cieca, molto condizionata dal potere economico. Basta osservare l’esempio del pubblico impiego, dove vige ancora l’obbligo della prevalenza del lavoro in presenza. Un elemento che spiega la cultura del lavoro nel nostro Paese, ferma al livello delle concessioni. Del tipo: io ti concedo uno o due giorni a settimana a casa, però almeno per il 51% lavori in presenza”.
Qui torniamo sul campo della differenza tra idea e messa a terra. Ha senso, quindi, parlare di paragone con la storia italiana di vent’anni fa? “Sì, il parallelismo è logico. Aggiungo, a conferma, che nel pubblico impiego c’è un accordo quadro sul telelavoro che risale alla fine degli anni Novanta. Leggendo quell’accordo ci si accorge che è quasi più evoluto di quelli attuali. E in tutti questi anni cos’è cambiato nel concreto? Nulla. No, direi che non si tratta di questione normativa”.
Quanto pesa la scarsa presa del sindacato sul tema? “Non è pronto. Anche negli accordi degli ultimi due anni ha sempre inteso il lavoro da remoto come una concessione. Il suo timore è di perdere contatto con i lavoratori, proprio in conseguenza all’innovazione. E poi, a sua volta, si è dimostrato di stampo fordista, si fatica a comprendere le nuove modalità di relazione. Invece il valore aggiunto che possiamo portare noi, come sigla digitale senza sede fisica, è di aiutare questa transizione, proponendo un nuovo rapporto tra sindacato e lavoratore, che lega di meno ma che sia sempre a supporto delle concrete necessità delle persone. Il nostro compito è di mettere in atto tutti gli strumenti per migliorare la qualità di vita del lavoratore”.
E qualità, oggi, fa rima con flessibilità.
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