Smart working, rivoluzione fallita: la politica ha paura dell’economia

Il ritardo italiano nell’applicazione del lavoro agile misurato su norme e visioni di vent’anni fa: il lavoro è ancora una relazione di potere. Gilberto Gini, Smart Workers Union: “Dai capi cultura di controllo. E il sindacato non è pronto”

Smart working, la politica lo boccia: due mani chiudono un laptop

Timbrare il cartellino è ancora la regola, i numeri parlano chiaro. Solo il 14,9% dei lavoratori in Italia sfrutta –almeno in quota parte – lo smart working, contro un potenziale inespresso che si attesta intorno al 40%. Questo emerge dai report presentati da INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, e ripresi dal sito di Smart Workers Union, il primo sindacato italiano che tutela e diffonde la cultura del lavoro da remoto. Elementi rafforzati dai dati ISTAT sui lavoratori agili, che riportano un calo di quasi due milioni dal secondo trimestre 2020 (piena pandemia) al terzo trimestre 2022. Infine, il sempreverde osservatorio del Politecnico di Milano, che attesta ad appena 3,6 milioni il numero di dipendenti smart, quasi 500.000 in meno rispetto al 2021.

Aggiungiamo un dato anche noi: soltanto il 5,18% degli annunci di lavoro su LinkedIn registrati a fine gennaio contemplano all’interno dell’offerta la possibilità di lavorare in smart working. Insomma, lo sappiamo ormai tutti: dopo la pandemia quella che sembrava una rivoluzione epocale, e soprattutto velocissima, si è rivelata parziale e tutt’altro che immediata.

Niente di nuovo rispetto al dibattito degli ultimi mesi. Dibattito, peraltro, che tende a rimanere sempre in superficie, con la maggior parte dei media restii a indagare in modo approfondito le motivazioni di questo rallentamento annunciato. Rimanere in superficie, in queste settimane, significa raccontare il tema limitandosi alla cronaca sulle agevolazioni del Milleproroghe: lavoro agile semplificato per i fragili e per i genitori con figli under 14 fino al 30 giugno. Niente di più.

Ancora indietro sullo smart working, un problema culturale e politico. Come in Lombardia

Continuiamo a parlare di opportunità non sfruttata a pieno, per poi accontentarci di rendicontare i trascurabili dettagli normativi previsti dal Governo. La verità è che dal 22 maggio del 2017 una legge sul lavoro agile ce l’abbiamo, e sarebbero sufficienti operatori professionali formati per costruire, nei contesti più convenienti, accordi individuali in grado di portare valore aggiunto per datori di lavoro e dipendenti. Purtroppo, però, nella maggior parte dei casi mancano i presupposti culturali minimi.

E mancano anche quelli politici. Non è un caso, ad esempio, che nessun candidato alle Regionali in Lombardia abbia saputo fornire risposte interessanti alla domanda posta da SenzaFiltro proprio sullo smart working. Letizia Moratti ha ridotto la questione al problema di bar e ristoranti, che pagherebbero in termini di fatturato l’assenza dei colletti bianchi dagli uffici. Mara Ghidorzi ha parlato dei benefici per l’ambiente. Pierfrancesco Majorino ha spostato la partita sull’eventuale beneficio per le periferie. Attilio Fontana neanche ha risposto (e, tra l’altro, ha pure stravinto).

Per carità: Fontana a parte, tutte posizioni giuste e legittime, ma parziali. Nessuno è riuscito a toccare il focus della questione: intendere lo smart working come una riforma culturale del mondo del lavoro, che va ben oltre la scelta del posto fisico dove accendere il pc.

Lo smart working e il “lavoro del futuro” secondo Marco Biagi

“Il lavoro del futuro non si basa sull’occupare un posto ma, piuttosto, sul partecipare in termini collaborativi a progetti condivisi, da raggiungere entro un certo arco temporale.”

Queste parole le ha invece pronunciate lo scorso 14 febbraio Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro, in occasione di un webinar promosso da ADAPT – al quale SenzaFiltro ha partecipato – per celebrare i vent’anni dall’entrata in vigore della legge Biagi. E no, non si riferiscono al lavoro agile e al contesto attuale, né tantomeno ai desiderata di chi coltiva l’idea di una diversa cultura del lavoro. Si tratta semplicemente del pensiero di Marco Biagi, il famoso giuslavorista ucciso da un commando di brigatisti nell’ormai lontano marzo del 2002.

Colpisce lo spirito innovativo delle intenzioni dell’epoca, così come la proverbiale difficoltà italiana di interpretare in modo pratico e corretto gli spunti di cambiamento. Oggi come allora, perché la storia si ripete. Il parallelismo tra la bontà dei propositi progressisti dello smart working e gli auspici riformisti della legge Biagi regge, se non altro dal punto di vista concettuale.

Infatti Tiraboschi, nel suo ricordo, dice che “occorre sempre tenere distinta l’ideazione dall’attuazione, perché c’è differenza tra come le leggi vengono pensate e come invece poi vengono attuate. Qui bisogna sottolineare la grandissima responsabilità degli operatori del mercato del lavoro: consulenti, avvocati giuslavoristi, direttori del personale, sindacati. Coloro, cioè, chiamati ad accompagnare in modo costruttivo la transizione. Il lavoro a progetto fu utilizzato per le forme più evidenti e macroscopiche di abuso, per aggirare le tutele del diritto del lavoro. Uno strumento pensato per un segmento medio alto (il mercato delle competenze) e, al contrario, sfruttato per servizi come il facchinaggio. Proprio in questo vediamo le difficoltà attuali nel pensare a un vero smart working, al lavoro per obiettivi, che rievoca il progetto pensato da Biagi quando parla di fasi e cicli. Immaginare di gestire persone non sulla base del comando o del controllo, bensì su fiducia, lealtà e mutualità, è davvero complicato. C’è uno snodo che continuiamo a sottovalutare: le relazioni del lavoro sono relazioni di potere; ad alcune persone piace comandare mentre altre si lasciano indirizzare. Un diritto moderno basato sulla parità e sulla fiducia all’interno di logiche di potere non è così semplice”.

Gilberto Gini, Smart Workers Union: “Dai capi cultura di controllo. E il sindacato non è pronto”

Eccolo, il nocciolo della questione. Il lavoro da remoto è davvero un’utopia sacrificata sull’altare del potere?

“Sia nel pubblico che nel privato c’è un pensiero ancora a maggioranza di stampo fordista, dove chi dovrebbe organizzare il lavoro, in sostanza chi ha il comando, mantiene una cultura di controllo”, spiega Gilberto Gini, segretario nazionale Smart Workers Union. “Il capo ti vuole vedere in ufficio, anche se non sa bene di che cosa ti occupi, per lui è sufficiente sapere che sei lì. Una questione di potere che coinvolge anche i lavoratori, sebbene la pandemia abbia in parte sbloccato la tipica mentalità di subordinati in senso stretto. D’altro canto, però, lavorare in smart working presuppone la capacità di operare in autonomia, con senso dell’organizzazione e competenze tecniche”.

Senza dimenticare che il rapporto capo-collaboratore si misura in un contesto storico ed economico preciso. “Appunto. In Italia siamo ancorati a una vecchia concezione dell’economia, basata sulla vendita della benzina, sulla cessione degli immobili nelle grandi città, sul pendolarismo, su quartieri e negozi vicino ai posti di lavoro. Chiaro che quando si ha un’economia del genere, che spinge per il non cambiamento, tutto diventa più difficile. Abbiamo una politica cieca, molto condizionata dal potere economico. Basta osservare l’esempio del pubblico impiego, dove vige ancora l’obbligo della prevalenza del lavoro in presenza. Un elemento che spiega la cultura del lavoro nel nostro Paese, ferma al livello delle concessioni. Del tipo: io ti concedo uno o due giorni a settimana a casa, però almeno per il 51% lavori in presenza”.

Qui torniamo sul campo della differenza tra idea e messa a terra. Ha senso, quindi, parlare di paragone con la storia italiana di vent’anni fa? “Sì, il parallelismo è logico. Aggiungo, a conferma, che nel pubblico impiego c’è un accordo quadro sul telelavoro che risale alla fine degli anni Novanta. Leggendo quell’accordo ci si accorge che è quasi più evoluto di quelli attuali. E in tutti questi anni cos’è cambiato nel concreto? Nulla. No, direi che non si tratta di questione normativa”.

Quanto pesa la scarsa presa del sindacato sul tema? “Non è pronto. Anche negli accordi degli ultimi due anni ha sempre inteso il lavoro da remoto come una concessione. Il suo timore è di perdere contatto con i lavoratori, proprio in conseguenza all’innovazione. E poi, a sua volta, si è dimostrato di stampo fordista, si fatica a comprendere le nuove modalità di relazione. Invece il valore aggiunto che possiamo portare noi, come sigla digitale senza sede fisica, è di aiutare questa transizione, proponendo un nuovo rapporto tra sindacato e lavoratore, che lega di meno ma che sia sempre a supporto delle concrete necessità delle persone. Il nostro compito è di mettere in atto tutti gli strumenti per migliorare la qualità di vita del lavoratore”.

E qualità, oggi, fa rima con flessibilità.

 

 

 

Photo credits: windowsreport.com

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