Stranieri a progetto

La società in cui ci troviamo oggi a vivere, per dirla alla Zigmunt Bauman, è tutt’altro che liquida. Il caos creato dalla crisi economica e dall’ondata di terrorismo ha portato a erigere muri, barriere e infiniti ostacoli all’integrazione dei popoli. Sempre il sociologo polacco, parlando dello tsunami xenofobo e razzista che attraversa l’Europa, in un’intervista […]

La società in cui ci troviamo oggi a vivere, per dirla alla Zigmunt Bauman, è tutt’altro che liquida. Il caos creato dalla crisi economica e dall’ondata di terrorismo ha portato a erigere muri, barriere e infiniti ostacoli all’integrazione dei popoli.

Sempre il sociologo polacco, parlando dello tsunami xenofobo e razzista che attraversa l’Europa, in un’intervista a Open Migration ha sottolineato che l’errore, prima di tutto, starebbe nel rinforzare la xenofobia dal basso e nel concentrarsi sui migranti provenienti dai paesi islamici. Perché così «l’accoglienza ostile verso i rifugiati da una parte scoraggia i potenziali rifugiati che sono ancora nei loro paesi, dall’altra amplia le possibilità di reclutamento per le cellule terroristiche, estendendo il contagio ai migranti residenti (…) da tempo».

Gli stranieri e il diritto all’accoglienza

La discussione pubblica è oggi dominata dal risentimento verso gli stranieri, e ciò si riflette anche sulla vita politica, che spesso trae nutrimento dalle esterofobie (basti pensare alle recenti elezioni italiane e statunitensi). Parlare di accoglienza e ospitalità in un clima così difficile – anzi, assumere il punto di vista dell’Altro – sembra impossibile. L’errore in cui si incorre spesso, infatti, è quello di identificare il migrante con il criminale, con il terrorista; si vive nella fobia di un’invasione islamica. Non si deve però dimenticare che vi è un diritto altrettanto forte, che è il diritto all’ospitalità, che fa parte di una cultura fatta di scambi reciproci ed è alla base della nostra tradizione occidentale. Tito Marci, professore di Sociologia alla Sapienza, ricorda: «Come possiamo, pertanto, pensare di “concludere” l’uomo, fissarlo a una sua identità esistenziale o chiuderlo in se stesso e confinarlo entro i margini di una rigida staticità interculturale? Se anche riuscissimo in questo inutile intento, avremmo in tal modo annientato la sua umanità» (Cfr. T. Marci, La società degli altri, Le Lettere 2016).

C’è, continua Marci, un “diritto all’accoglienza” che non dovrebbe essere trascurato. Con ciò non si vuole certo arrivare a semplificare il complesso rapporto con la migrazione e l’interfacciarsi di culture differenti. Però è chiaro che la mancanza di un’aggregazione sociale porti verso solitudine, disgregazione, emarginazione, con grandi conseguenze a livello sociale. Il bisogno di radicamento, ha detto Simone Weil, è “il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili da definire” (S. Weil, Prima radice, SE, Milano 1990). L’orizzonte oggi è quello che vede da una parte la globalizzazione, il libero scambio e la delocalizzazione del lavoro; dall’altra la diffidenza e la chiusura verso chi viene percepito come estraneo.

A regolare i rapporti con i migranti devono essere i loro diritti, l’inclusione sociale, il confronto di culture diverse, che porta al confronto di esperienze e valori, e diventa tanto più autentico quando avviene nel rispetto delle diversità, piuttosto che nella loro omologazione. Tutti questi aspetti devono vedere anche l’intervento istituzionale per essere tutelati. È compito di una società civile, infatti, avere delle leggi che promuovano l’ospitalità e che si facciano carico di un mondo che sta cambiando, in cui l’Occidente sta pian piano perdendo la sua egemonia.

È nella prospettiva dell’inclusione che si deve muovere la società nel XXI secolo, non in quella dei muri. Senza poi dimenticare quali sono state le nostre origini: gli emigranti dall’Italia furono milioni dal 1870 al 1920, si diressero verso l’America del Nord e del Sud, e verso l’Australia. Gente che partiva con la valigia di cartone, analfabeta e senza professioni definite, con pochi soldi e pochi averi. La memoria, anche se siamo un popolo che tende a dimenticare, ci serve leggere ciò che accade oggi sulla base di ciò che è accaduto ieri.

Un po’ di dati

Sul sito dell’Istat si legge di un cambiamento nell’ondata migratoria che si sta estendendo anche al nostro paese: «l’Italia attraversa una fase particolarmente delicata dei fenomeni migratori; si è passati ormai da diversi anni dall’epoca delle migrazioni per lavoro e – successivamente – per famiglia a quella caratterizzata da nuovi flussi sempre più spesso motivati dalla ricerca di asilo politico e protezione internazionale. Durante il 2016 sono stati rilasciati 226.934 nuovi permessi, il 5% in meno rispetto all’anno precedente. Il calo ha di nuovo riguardato soprattutto le migrazioni per lavoro (12.873) – diminuite del 41% rispetto al 2015 – che rappresentano ormai solo il 5,7% dei nuovi permessi. Continua, invece, la rapida crescita dei nuovi permessi per motivo di asilo e protezione umanitaria che raggiungono il massimo storico (77.927, il 34% del totale dei nuovi permessi). (…) I nuovi flussi non sempre però danno luogo a una presenza destinata a radicarsi sul territorio. Ad esempio tra i migranti giunti in Italia nel 2012, solo il 53,4% è ancora presente al 1° gennaio 2017».

Il diritto di asilo, lo ricordiamo, è un diritto umano fondamentale, riconosciuto dalle convenzioni internazionali e fin dal 1948 sancito come principio e garanzia fondamentale all’articolo 10 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

E se l’immigrazione facesse crescere il PIL?

La vicenda della migrazione e della gestione dei rifugiati è complessa. Quello che è certo è che una delle giuste vie per ottenere una buona integrazione, anche dal punto di vista sociale e culturale, è quella di farla passare attraverso l’inserimento lavorativo. “Non dobbiamo poi dimenticarci che la gran parte di queste persone resteranno a vivere in Europa per molto tempo: dare loro gli strumenti per diventare prima lavoratori e poi cittadini conviene a tutti”, dice ad Altreconomia Iván Martín, membro dell’Interdisciplinary research group on immigration dell’università Pompeu Fabra di Barcellona (è anche curatore della ricerca From refugees to workers, curata dal Migration Policy Center).

In una ricerca (Europe’s new refugees: a road map for better integration outcomes) della società di consulenza McKinsey emerge che la maggioranza dei rifugiati del 2015/16 provenga da Iraq, Siria e Afghanistan, e si sottolinea che favorire la loro inclusione lavorativa produca numerosi benefici. Non solo per i profughi giunti in Europa, ma anche per i Paesi che li ospitano. Per la società di consulenze, ad esempio, una buona gestione dei 2,3 milioni di rifugiati e richiedenti asilo permetterebbe di generare «un contributo complessivo al Pil compreso tra i 60 e i 70 miliardi di euro l’anno entro il 2025. Nonché un potenziale impulso demografico».

Il processo per aiutarli e inserirli però deve passare da quattro priorità: «mercato del lavoro e integrazione economica, integrazione scolastica, integrazione abitativa e sanitaria e integrazione socioculturale e linguistica». Il mancato raggiungimento di questo alto obiettivo potrebbe ovviamente portare conseguenze anche sulle generazioni future.

Cambiare il racconto

Secondo Emma Bonino – nella prefazione al dossier dei Radicali Italiani del 2016, Governance delle politiche migratorie tra lavoro e inclusione sociale – «Bisogna cambiare il “racconto” sull’immigrazione. Non è un fenomeno eliminabile, ma è governabile. La mobilità umana è vecchia come la storia dell’umanità. (…) Gli spostamenti delle persone da un continente all’altro sono una realtà destinata a durare nel tempo. L’unica risposta possibile è una politica di integrazione, che sappiamo essere costosa e non facile». Nell’introduzione dello stesso studio Riccardo Magi, segretario nazionale dei Radicali Italiani, dichiara che «non si può accettare che decine di migliaia di richiedenti asilo vaghino senza far nulla nelle nostre città. A questo fine è indispensabile che i centri d’accoglienza migliorino la qualità dei loro servizi e soprattutto siano interfacciati strutturalmente con i servizi pubblici e privati per il lavoro (centri per l’impiego, agenzie private per il lavoro, onlus). (…) Sebbene agli immigrati siano riservate quasi esclusivamente le mansioni meno qualificate e meno retribuite rifiutate dagli italiani, il loro contributo alla crescita della ricchezza nazionale è considerevole, pari a quasi 8 punti di Pil. Quella dell’immigrazione è una sfida epocale (…)».

Le agenzie del lavoro non si sono tirate indietro di fronte a questa richiesta della società moderna, come si vede dalla ricerca sul tema (The labour market integration of refugees) che l’agenzia per il lavoro Adecco ha finanziato (in collaborazione con i ricercatori di Reallabor Asyl, su iniziativa della Scuola di Pedagogia di Heidelberg, dell’Università di Heidelberg e del Centre for European Economic Research). Qui si sottolinea nuovamente come «l’integrazione nel mercato del lavoro sia una delle chiavi per la riuscita dell’integrazione generale dei rifugiati, e che è vantaggiosa sia per le società accoglienti sia per i rifugiati», perché «la mancata partecipazione al mercato del lavoro dei rifugiati causa costi elevati per la società, per i potenziali datori di lavoro e per i rifugiati». E raccomanda ai governanti di «ridurre i tempi per la procedura di asilo e permettere un ingresso precoce al mercato del lavoro e ai percorsi di formazione».

Nello studio sono presentati alcuni esempi virtuosi, a livello europeo, di integrazione dei rifugiati in un ambiente lavorativo strutturato. Fra questi figurano IKEA Svizzera, che ha offerto tirocini semestrali ai rifugiati, corredati da formazione interculturale per evitare scontri culturali; Midtvask, un servizio di lavanderia industriale di medie dimensioni in Danimarca, ha collaborato con il governo per offrire un programma di integrazione comprensivo di corsi di lingua ed esperienze professionali; Adecco Group in Italia, grazie alla Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, sviluppa progetti di inclusione lavorativa per rifugiati dal 2008.

Dalle esperienze sopra elencate vengono fuori alcuni consigli pratici per le aziende che decidono di offrire lavoro a un richiedente asilo: partire dai vertici; dare priorità alle competenze linguistiche (senza un’adeguata conoscenza linguistica non è possibile avviare alcun piano di integrazione); aggiornare processi di formazione e HR; costruire una rete; scegliere la trasparenza sul fronte delle competenze; trasformarsi in problem solver; redigere un fitto calendario sociale; privilegiare un trattamento paritario; mettere in conto uno sforzo in più.

L’UNHCR e il progetto Welcome. Intervista a Federico Fossi

Proprio nell’ottica di questo impegno profuso per l’integrazione dei rifugiati il 22 marzo presso la sede di Assolombarda a Milano, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha riconosciuto l’Adecco Group tra le aziende che nel 2017 hanno favorito l’inserimento professionale e l’integrazione di persone rifugiate in Italia, conferendole il premio Welcome – Working for refugee integration.

Monica Magri, HR Director di The Adecco Group, in quell’occasione ha dichiarato che «il lavoro è da sempre uno dei catalizzatori principali dell’integrazione sociale e culturale e accelerare l’inclusione dei rifugiati porta valore a tutti. Basandoci sulla nostra esperienza decennale e su approfondite analisi, abbiamo identificato i settori migliori per trovare occupazione ai rifugiati, e in tali settori è stata creata una rete di imprese maggiormente sensibili al tema, in grado di offrire adeguate posizioni di lavoro».

La storia dell’UNHCR nasce e affonda le basi alla fine della seconda guerra mondiale, quando ebbe il compito di assistere i cittadini europei fuggiti dalle proprie case a causa del conflitto. Le questioni cruciali per le quali nel ventunesimo secolo l’UNHCR presta la sua opera di assistenza sono le principali crisi di rifugiati in Africa e in Asia; inoltre assiste anche le numerose persone sfollate all’interno del proprio paese a causa di conflitti.

Nel comunicato stampa della premiazione del progetto Welcome si legge che il lavoro «assume una funzione salvifica per i rifugiati. Il lavoro e la formazione restituiscono dignità e autostima alle persone che hanno perso tutto a causa di guerre, violazioni dei diritti umani e persecuzioni».

Sui criteri, le problematiche e il futuro del progetto risponde a Senza Filtro Federico Fossi dell’UNHCR.

Quali sono i criteri con cui sono state selezionate le aziende?

«Una settantina di aziende hanno inviato la loro candidatura spontaneamente. Ne è seguito un attento lavoro di due diligence da parte dello staff di UNHCR, che ha valutato diversi aspetti di carattere etico e professionale. Le aziende che hanno passato questa scrematura sono state oggetto di visite conoscitive e di monitoraggio, ed eventualmente premiate con il logo. Abbiamo voluto estendere questo riconoscimento anche alla luce della diversa ampiezza e natura delle aziende che si sono candidate: a tutte le imprese che quindi, in base alla propria disponibilità, si sono distinte per aver effettuato nuove assunzioni di beneficiari di protezione internazionale, o comunque per aver favorito il loro concreto inserimento lavorativo. La partecipazione entusiasta delle aziende al progetto e il feedback da parte dei beneficiari di protezione internazionale inseriti e da parte dei loro datori di lavoro sono stati molto positivi, pieni di empatia e di speranza. Crediamo che i rifugiati, oltre che con le loro competenze professionali, possano arricchire le aziende che ne favoriscono l’inserimento e le società che li ospitano anche con le loro culture e gli eccezionali esempi di resilienza e determinazione, nonostante i traumi subiti. Ricordiamoci sempre che si tratta di persone che sono state costrette ad abbandonare il loro paese a causa di guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani.»

Con quale tipo di contratto sono stati assunti i richiedenti asilo?

«I contratti variano in base alla dimensione e alla natura delle aziende: si va dai tirocini formativi ai contratti di apprendistato, dalle borse lavoro ai contratti a tempo determinato e indeterminato.»

Ci sono state reazioni negative da parte di politica o cittadinanza?

«È presto per fare valutazioni di questo genere. Ma per noi è molto importante che le aziende si siano spese e candidate a ricevere un riconoscimento di questo genere, che ha un’importante componente di visibilità, soprattutto in tempi di facili sentimenti di fastidio e ostilità nei confronti dei rifugiati. Le adesioni al progetto Welcome dimostrano che c’è un tessuto sano che sente la responsabilità sociale come un dovere umanitario, e soprattutto ha capito che l’inclusione dei rifugiati conviene a tutti.»

Le aziende che hanno ricevuto il premio verranno poi successivamente monitorate? I neolavoratori saranno ascoltati? 

«Le aziende vengono “premiate” per gli inserimenti effettuati nell’arco dell’anno, che culmina con il conferimento del logo. La valutazione e l’ascolto sono quindi un prerequisito al riconoscimento. Il logo ha durata annuale, ma le aziende sono ovviamente invitate a continuare a candidarsi anche per gli anni successivi. Ci auguriamo che ogni anno questa rete si espanda e che sempre più aziende aiutino l’UNHCR a perseguire l’obiettivo di un modello di società inclusiva, che si adopera per prevenire e combattere xenofobia e razzismo nei confronti dei rifugiati. Sul sito www.unhcr.it sono aperte le candidature per il 2018.»

Welcome, un vanto per le aziende

In un mondo così esposto al fenomeno della globalizzazione economica e della migrazione, il modo di rapportarsi fra estranei diviene decisivo. Paul Collier, professore di Economia dell’Università di Oxford, nel saggio Exodus sostiene che una delle “regole auree” che i paesi di accoglienza dovrebbero rispettare è quella di impedire la nascita di comunità di immigrati “chiuse”, impermeabili alla cultura locale.

All’opposto di individualismo e opportunismo si inserisce il premio Welcome, che anzi diventa un vanto per le aziende che si sono distinte «per aver effettuato nuove assunzioni di beneficiari di protezione internazionale, per aver favorito il loro concreto inserimento lavorativo e sociale e per aver incoraggiato la nascita di attività di autoimpiego».

Scorrendo l’elenco dei premiati si nota che vi sia una grande varietà di aziende. Ci sono le grandi come la già citata Adecco Italia, Quanta, che offre servizi di HR, Freudenberg, una società che offre servizi avanzati, con vari progetti di integrazione socio-lavorativa per i beneficiari di protezione internazionale, Cromology (azienda leader nel settore dei prodotti vernicianti), che ha coinvolto dieci migranti in un progetto di riqualificazione del Parco fluviale e delle Mura in provincia di Lucca (a cui ha partecipato anche un gruppo di antropologi del Centro ricerche etnoantropologiche).

La testimonianza di un’azienda premiata: parla Fabio Campidoglio di Quanta

Fabio Campidoglio di Quanta ci dà un resoconto concreto di come sia nato e come si sia sviluppato il progetto che la loro Agenzia per il lavoro e Quanta Risorse Umane hanno realizzato in partnership con Croce Rossa Italiana, CnosFap e i sindacati, e per il quale sono stati premiati.

Come lui afferma, si è trattato di «un progetto pilota per sperimentare una nuova modalità di accoglienza attiva, i cui passi fondamentali sono stati individuare il settore – cioè quello della cantieristica navale, che da sempre ha difficoltà nel reperire personale qualificato disponibile a lavorare in ambiente difficile – e trovare un’idea. Si è trattato di reclutare (con l’aiuto della Croce Rossa) direttamente nei centri di accoglienza i rifugiati richiedenti asilo ritenuti idonei per intraprendere un percorso formativo da noi strutturato e finanziato (tramite il nostro fondo per i somministrati Formatemp), utile a professionalizzare le risorse e assicurare loro una concreta chance lavorativa».

Quanta si è attivata anche dal punto di vista della formazione per concretizzare la sua proposta. Ciò è avvenuto verificando le competenze linguistiche, formando i candidati sui diritti/doveri del lavoratore e con percorsi professionalizzanti attraverso il relativo rilascio di certificati (patentini, certificati sulla sicurezza).

Campidoglio conclude dicendo: «In sostanza tale progetto (sperimentato su 80 candidati che hanno quasi tutti trovato un lavoro al termine dei corsi) è stato vincente, perché da una parte è riuscito a soddisfare una domanda di lavoro effettiva, e dall’altra ha consentito di alleggerire la pressione sui centri di accoglienza, trasformando il rifugiato da costo passivo a contribuente attivo, e sottraendolo ai rischi sociali legati all’assenza di lavoro. Le aziende che hanno assunto i nostri allievi hanno infine trovato personale affidabile, preparato e con grande voglia di lavorare, e già questo è stato vissuto come un premio. Il riconoscimento ricevuto poi da UNHCR ci ha consentito di invitare le aziende che hanno assunto i nostri lavoratori all’evento del 22, favorendo anche una loro visibilità e un ritorno ulteriore di immagine che sinceramente non era atteso, ma che è stato molto apprezzato».

Le PMI coinvolte nel progetto

Molte anche le piccole e medie imprese che hanno aderito: Decathlon di Alessandria (due tirocini formativi per due richiedenti asilo), Cisauto srl di Catania (una persona inserita con una borsa lavoro), Arcifera Commerciale, ferramenta di Domodossola che ha inserito un richiedente di protezione internazionale, ecc. Diversi migranti poi sono coinvolti nel collocamento presso aziende agricole (come Il Peraccio di Firenze, per la raccolta dell’olio) e apistiche per la produzione del miele.

Si evidenziano poi alcuni progetti d’impresa per il sostegno alle donne e contro l’emarginazione, come Work Wide Women, che prepara professionalmente le figure femminili aiutandole a specializzarsi nelle competenze più nuove, come quelle digitali, e valorizzandole grazie alla cultura dell’inclusione. Non mancano il settore del food e dello spettacolo: un beneficiario di protezione ivoriano è stato inserito come macchinista scenico dal Teatro di Sardegna e poi ha accompagnato la scrittrice Michela Murgia in tournée.

Va da sé che essere inseriti in un contesto lavorativo permette di apprendere più velocemente la lingua, le abitudini, le regole del luogo in cui ci si trova. Primo Levi diceva: «Amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Il lavoro permette di rafforzare la fiducia in se stessi, di costruire un legame con la comunità e il territorio in cui ci si trova a vivere. D’altra parte si deve fare attenzione alle tensioni che si possono suscitare se ciò avviene in zone economiche dove la crisi continua a battere duro.

Ultime considerazioni sull’integrazione tramite il lavoro

In conclusione cito un’altra interessante ricerca sul tema, quella che Rena, Make a Cube3 e Politecnico di Milano hanno realizzato con il supporto di J.P. Morgan, e che ha come fulcro proprio il considerare il lavoro come una leva decisiva a sostegno del processo di integrazione. Quello che ci interessa evidenziare di questa ricerca è l’esperienza dell’imprenditorialità dei migranti. Il lavoro autonomo spesso è un’alternativa più facilmente percorribile e di successo, anche se d’altra parte dà l’idea ancora una volta di una società poco inclusiva e che tende a ghettizzare (si veda anche: Il lavoro (e il suo valore) al centro del processo di integrazione).

Per esempio ci sono i servizi di catering, come Tobilì – cucina in movimento From Syria with Love (che ha lo specifico obiettivo di valorizzare la cultura siriana e di aiutare l’inserimento lavorativo). C’è poi Cna World, un’associazione nata all’interno della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola Impresa, che rappresenta e promuove i diritti degli imprenditori immigrati attivi nella provincia di Roma.

Questo lunga panoramica vuole dare un ritratto di una comunità laboriosa che, a dispetto di quanto sovente raccontato dai media o dai politici, sta lavorando in chiave positiva e con tante iniziative per creare una nuova società aperta, umana e interculturale.

 

Photo by www.unhcr.it

CONDIVIDI

Leggi anche

Se l’Italia credesse negli scienziati-imprenditori

Un’Italia nel solco dell’innovazione incrementale non dovrebbe sbarrare le porte a un’ambizione superiore, quella che porta a tradurre idee dirompenti, trasformative dello stato dell’arte vigente, in attività imprenditoriali. Tra queste le imprese che nascono dalla scienza, fondate da scienziati-imprenditori nel contesto accademico auspicato dal Luigi Einaudi. Nelle sue Prediche inutili il grande economista piemontese, che […]