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Tatjana Đorđević Simić, Al Jazeera Balkans: “Nel giornalismo di guerra il bianco o nero non dovrebbe esistere”
Il conflitto dell’ex Jugoslavia raccontato da chi l’ha vissuto. La scrittrice e giornalista di Al Jazeera Balkans e BBC Serbia racconta la sua esperienza: “Trent’anni fa, sotto le bombe NATO, eravamo noi serbi il nemico”.
Tatjana Đorđević Simić è nata in Serbia e quando c’era la guerra nella ex Jugoslavia aveva dodici anni. Suo padre non è stato chiamato alle armi, ma molti suoi conoscenti e i padri dei suoi amici sono stati presi dalla guerra. Quando veniva la polizia sua madre nascondeva nel suo negozio i ragazzi giovani perché non fossero mandati a combattere, perché se rifiutavi di andare in guerra l’alternativa era la prigione.
Le sue parole sembrano descrivere un tempo lontanissimo: “Era diventato impossibile uscire dal Paese e siamo stati anche sotto embargo. C’era un periodo in cui mancava tutto e nei supermercati si trovavano solo pane e latte. Ricordo file interminabili e un’inflazione così forte che appena mia madre riceveva lo stipendio doveva andare a comprare tutto quello che poteva, altrimenti il giorno successivo con quei soldi non avrebbe comprato nulla, neanche il pane”. Sembra un tempo lontanissimo. Era solo il 1991.
Le file che abbiamo fatto davanti ai supermercati durante la pandemia l’hanno portata indietro di trent’anni, però con una grande differenza: nel 2020 uscivamo dai supermercati con i carrelli stracolmi, mentre durante la guerra lei e sua madre facevano file immense per un pezzo di pane. Per questo, tante volte, quando i media hanno paragonato la pandemia alla guerra, lei ha quasi sorriso perché “chi ha vissuto davvero la guerra, la pandemia l’ha interpretata quasi come una vacanza. L’assedio delle bombe non è paragonabile a quello del virus”.
Anche io ho inevitabilmente ripensato a quante frasi inutili sono state pronunciate in quel periodo. Difficile sì, ma combattuto dal divano a colpi di serie televisive e pizza fatta in casa. Oggi che veramente l’Europa è in guerra, con Tatjana sono inevitabili i confronti, i paragoni e l’analisi dei punti di contatto con il passato. Oggi Tatjana vive in Italia, è giornalista, scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC, ed è autrice del romanzo Il Pioniere. Dalle sue parole si capisce molto chiaramente che non sappiamo imparare dalla storia, che ciò che è successo in passato non ci ha insegnato nulla.
Siamo pronti, tutti, a commettere gli stessi errori come se avessimo fatto tabula rasa di quello che è stato?
In Serbia si sono rifugiati tanti profughi dalla Croazia (300.000 persone), ma nel primo periodo non potevamo sapere che cosa succedeva davvero a Sarajevo perché la censura dei media era molto forte. La propaganda mediatica in tempi di guerra ci deve mettere tutti sull’attenti, ieri come oggi. Noi crediamo di sapere tutto quello che succede in Ucraina o in Russia e questo è un grave errore perché la rete non ha il potenziale che pensiamo. Anzi, spesso la rete porta le persone a farsi opinioni sbagliate.
Che cosa pensi dell’informazione che arriva in Italia?
La guerra è sempre una condizione estrema e io come giornalista sono sorpresa dalle informazioni che ci raggiungono. Sono troppo lineari, mentre in queste situazioni non esiste il bianco e il nero. Negli anni Novanta c’era un’opinione universale: è tutta colpa dei serbi, e anche ora si dà tutta la colpa ai russi, ma non è mai così. Prima di distribuire responsabilità dobbiamo chiederci qual è stato il ruolo della Nato in tutti questi anni in tanti Paesi come Afghanistan, Iran, Siria. Certo nessuno giustifica Putin, ma noi stiamo facendo un grave errore, stiamo discriminando tutto il popolo russo. Invece bisogna distinguere chi sono i dittatori, chi sono i criminali di guerra e chi è il popolo. Politici e criminali di guerra hanno nomi, cognomi e ruoli precisi.
E poi ci sono tutti i cittadini che sono le vere vittime di tutti i conflitti.
Vero, ma le vittime non sono solo le persone che risiedono nei Paesi colpiti. Io ho una collega russa che vive in Italia dal 2006 e da quando è iniziata la guerra non riceve più gli accrediti stampa. Io come serba ho vissuto per anni la stessa discriminazione, perché venivo da un Paese ritenuto colpevole. Dobbiamo stare molto attenti perché in questo momento le vittime sono i cittadini e non solo gli ucraini, anche i russi. I Balcani sono come un matrimonio fallito, e anche russi e ucraini hanno più o meno la stessa storia. Quello che si è scatenato è frutto di anni di conflitti e temo che il periodo post bellico sarà molto lungo, come il nostro.
Che cosa ci insegna la Jugoslavia per capire il conflitto in Ucraina?
Che Putin non è l’unico colpevole, perché non è il solo a volere questa guerra. Neanche gli americani hanno interesse a fermare il conflitto. Solo in futuro sapremo davvero che cosa è successo in Ucraina, e tanti criminali di guerra non saranno mai puniti per quello che hanno fatto.
Ci sono altre similitudini tra questa guerra e quella che hai vissuto trent’anni fa?
Sicuramente il ruolo dell’Unione europea, che nel ’91, quando è iniziato il conflitto, ha soltanto introdotto sanzioni, non è stata capace di fermarlo. Da noi l’Europa non mandava le armi; ora le manda, ma sappiamo tutti che le armi non sono mai la soluzione. La diplomazia europea ha fallito ieri come oggi. Io ero sotto le bombe Nato come gli ucraini sono sotto le bombe di Putin. Perché ricordiamoci che anche la Nato ha violato i diritti internazionali. E nessuno riconosce mai le proprie colpe.
Portare la colpa collettiva non è mai facile. I tedeschi oggi sentono un diffuso senso di colpa per quello che accadde con Hitler, ma sono pochi i Paesi che ammettono le loro responsabilità davanti a un conflitto.
Tutti ti diranno sempre che ha cominciato prima qualcun altro. Ma non si devono fare paragoni, né tra crimini, né tra vittime. Ogni vittima ha il suo nome e cognome e deve essere rispettata. E se non si accettano le proprie colpe ci sarà sempre un limbo che nutre l’odio e il nazionalismo. Lo dimostra il fatto che, anche se sono passati trent’anni, i Balcani vengono sempre visti come un focolaio pronto a esplodere.
Riconoscere le proprie colpe è quindi il primo strumento di pace?
Io prendo sempre l’esempio dei Balcani. Se ogni Paese oggi indipendente riconoscesse le proprie responsabilità, non saremmo in una situazione così calda. L’odio non sarebbe nutrito anche dalle nuove generazioni, ad esempio. Oggi ci sono nazionalisti estremi che non erano neanche nati durante la guerra, eppure sono pronti a incolpare, accusare, odiare. Senza conoscere, ma sapendo solo quello che gli è stato raccontato dai genitori.
Tu hai ricordi di come vivevi nel tuo Paese durante la guerra e di cosa facevano i tuoi genitori?
Quando ti bombardano ti adatti e attivi immediatamente tutti i meccanismi necessari per sopravvivere. Mia madre era una manager, durante la guerra si è riciclata organizzando la vita della comunità che era rimasta senza l’acqua e senza l’elettricità. C’erano tanti volontari che mettevano la gente in fila e distribuivano le poche risorse disponibili, ad esempio le candele. Praticamente le persone si sostituivano alla protezione civile e tutti si organizzano per sopravvivere.
Con la guerra la vita non si ferma.
La vita va avanti e alla fine ci si abitua anche al suono delle bombe. All’inizio sei molto preoccupato, poi diventi naturalmente più indifferente, è un meccanismo di difesa necessario per non impazzire. Anche se non siamo tutti uguali. I veri eroi sono le persone semplici, quelle che si aiutano a vicenda indipendentemente dagli schieramenti (il nemico ieri o l’altro ieri era il tuo vicino). Mia madre lavorava in una fabbrica che si occupava della ricostruzione dei treni ed era costretta ad andare al lavoro anche quando bombardavano. Molte fabbriche sono state bombardate e molte donne si sono improvvisate infermiere in quelle situazioni.
Con l’embargo che cosa è cambiato?
Con l’embargo si è diffuso largamente il lavoro nero, anzi il commercio nero. La benzina, il grano e tutto quello che serviva era venduto in nero, perché regole e valori non valevano più. A mia madre a un certo punto non davano neanche più lo stipendio. Le davano cibo, vestiti, wurstel e farina. Ricordo che mangiavo tantissimi wurstel in quel periodo. Un amico invece mi ha raccontato che a un certo punto a Sarajevo hanno tagliato tutti gli alberi, perché non sapevano come scaldarsi.
L’essere umano è capace di improvvisarsi e di adattarsi a ogni situazione.
Siamo animali con un istinto molto forte e quando tutto finisce cerchi di dimenticare, anche se le ferite rimangono.
Quali cicatrici ti porti addosso?
In molti mi hanno chiesto come mai ho scritto il mio libro dopo tanti anni. Quello che posso rispondere è che c’è voluto tanto tempo per digerire e maturare, e nel libro ci sono tante storie, non solo mie ma anche di amici e conoscenti, che in passato non sarei riuscita a raccontare. Io ho scelto questa strada che mi ha aiutato a perdonare e andare avanti, ma ci sono ancora tanti nazionalismi che nutrono l’odio nelle nuove generazioni. Invece è giusto raccontare la storia e studiarla per aiutare i ragazzi a capire gli orrori e le costrizioni della guerra.
Tatjana mi lascia con questa citazione Pablo Neruda, che conoscevo, ma che detta da lei dopo che abbiamo parlato per più di un’ora ha tutto un altro sapore: “Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono”.
Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.
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In copertina Khan Sheikkun, Siria: mig dell’aviazione siriana bombarda la città. Foto di Ugo Lucio Borga/SixDegrees
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