TikTok spiegato a mia nonna. Il libro che racconta l’ultimo social

Si chiama TikTok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial (Hoepli), ed è una raccolta di saggi sulla semiotica della piattaforma cinese con 1,5 miliardi di utenti in tutto il mondo. Intervistiamo gli autori Gabriele Marino e Bruno Surace

La copertina del libro "TikTok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial"

La verità è che non lo capiamo abbastanza. Facciamo un gran parlare del “social del momento”, TikTok di qui, TikTok di là, ma non abbiamo mica capito come funziona davvero questa piattaforma cinese che sembra aver travolto i più giovani, risucchiando nel vortice anche i fratelli maggiori, i genitori, a volte perfino i nonni.

La verità è che una fetta sempre più larga di adulti insospettabili e rispettati professionisti si sta affrettando a creare un profilo per paura di essere esclusi, di venire etichettati come boomer, perché Facebook è morto (ma ha ancora tre miliardi di utenti attivi), Instagram non si sente tanto bene e questo benedetto TikTok – una base di utenti mondiali di 1,5 miliardi di persone, di cui 15 milioni in Italia – pare essere il presente e il futuro dei social, o forse siamo già nell’era post-social, o dovremmo dire ipersocial. Aiuto.

Ne parlo con qualcuno che mastica bene l’argomento. Gabriele Marino e Bruno Surace, semiologi e ricercatori dell’Università di Torino, sono senz’altro ferrati in materia: hanno appena pubblicato per Hoepli TikTok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial, il primo volume che analizza il fenomeno TikTok dal punto di vista socioculturale. Né un manuale d’uso né una guida ai segreti del TikTok marketing, ma una raccolta di saggi con l’ambizione di essere punto di partenza e non di arrivo, di aprire un campo, spalancare le porte a nuove domande e indagini. Chiacchieriamo per più di un’ora, ma di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante.

Uno zapping che ti riconosce. La semiotica di TikTok

Partiamo dall’inizio. Marino è nato nel 1985, Surace è del 1990: due Millennial, secondo il dato anagrafico; probabilmente due boomer per qualche giovinastro nato dopo il Duemila. Il ciclo di seminari ideato e diretto dai due autori, trasmesso su Facebook e YouTube da marzo 2020, si chiama proprio #SEMIOBOOMER.

Voglio sapere se sono su TikTok, tanto per cominciare. Mi rispondono che sì, hanno un profilo, ma osservano senza partecipare, sono dei lurker. Parlano della sensazione di sgomento che hanno provato la prima volta che hanno curiosato su TikTok – dove mi trovo? E adesso che succede? –, che comprendo benissimo. Io ho un profilo, ma lo utilizzo solo per fare degli esperimenti, rispondo sempre a chi mi chiede di TikTok, incastrata tra il desiderio di capirne di più e la voglia di restarne fuori perché mi sento troppo vecchia per quel mondo. Comunque sia, dalla piattaforma cinese non si scappa: se non arrivi tu su TikTok, sono i video di TikTok ad arrivare a te, ricondivisi su altri social come Instagram.

Semplifichiamo all’osso: come spieghereste cos’è TikTok a vostra nonna?

“È come fare zapping sulla televisione”, dice Bruno Surace. “TikTok è come una piccola televisione con un unico tasto, puoi solo andare avanti. Più la guardi, più è in grado di capire cosa ti piace e di darti le cose che ti interessano”. Gabriele Marino paragona TikTok a una puntata di Blob, assemblata da un algoritmo che monitora le nostre azioni – guardare o passare avanti – dandoci così l’impressione di conoscerci a fondo.

Ah, il diabolico algoritmo! Surace lo spiega molto bene: “L’algoritmo è uno dei motori nel gioco della contemporaneità. Lo trattiamo come una divinità, tanto che ne parliamo al singolare. Dovremmo parlare di algoritmi. Piattaforme come TikTok ti danno potenzialmente accesso a un’infinità di contenuti, a un pluralismo di voci. Hai una grande ricchezza comunicativa a portata di scrolling che in realtà non riesci mai a raggiungere davvero, perché stretto in certi imbuti che ti impediscono di vedere quello che c’è fuori”.

TikTok e la deriva performativa della società

TikTok non è (più) solo il social per fare i balletti e condividere video divertenti. Come accaduto con Facebook e con tutte le altre piattaforme venute dopo, è diventato ben presto uno strumento per vendere, fidelizzare, fare marketing. Una presenza tutt’altro che neutra, che agisce sul mercato e lancia nuove professioni, come l’influencer, il content creator, il tiktoker.

Ne ha parlato – con una certa approssimazione, vabbè – perfino il Papa, che deve avere un ghostwriter con figli preadolescenti. “Tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato” ha detto a inizio agosto ai partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona.

“TikTok è stato molto bravo fin da subito a dare l’impressione di essere una cosa che viene dal basso e allo stesso tempo a dirigerla in maniera molto esplicita. Ci sono molti manuali che aiutano a capire come funziona l’algoritmo, che ti insegnano a creare contenuti e a monetizzarli. Noi volevamo riempire un buco, affrontare il tema dal punto di vista culturale, far entrare TikTok nelle università, dove si parla ancora di Facebook”, dice Gabriele Marino.

Challenge a volte spinte fino alle estreme conseguenze, come la cronaca a volte ci ricorda, trend da (in)seguire, la ricerca della viralità che non è mai raggiunta una volta per tutte, si ricomincia da capo a ogni video. Possiamo definire TikTok come un social della performance?

“TikTok intercetta e allo stesso tempo detta una tendenza che è dentro e fuori dal social, e che ha a che fare con una deriva performativa della società. TikTok è prepotentemente performativo, invita a mostrarsi con l’obiettivo di diventare virali. I tiktoker sono persone che fanno balletti, cucinano, fanno piccole cose cercando di ottenere grandi risultati. Se dovessi spiegare chi è un tiktoker a mia nonna, direi che è una persona di età variabile che fa delle cose che per qualche motivo risultano interessanti, anche se in apparenza non lo sono. Cose che su un medium tradizionale non avrebbero trovato spazio e che invece su TikTok trovano un luogo e, grazie all’algoritmo, un target a cui rivolgersi”, dice Surace.

Prosegue il ragionamento Marino: “Su TikTok si tratta di performare la propria identità. Sulla piattaforma tutto è discorso, tutto è brand, sia la persona che cucina che la ragazza che piange parlando della sua neurodiversità. Siamo tutti online per fare personal branding, ognuno con il proprio stile comunicativo. Content è la nuova buzzword con cui abbiamo etichettato le figure che animano questa piattaforma e i content creator oggi assumono più ruoli; sono sia autori che attori sul palco”.

Dopo TikTok, il diluvio: il futuro dei social e il nodo della formazione

Esserci, mostrarsi, metterci la faccia. Mi chiedo quali effetti stia producendo TikTok al racconto del lavoro. Penso alla ginecologa che dà consigli soprattutto alle giovanissime, all’estetista che mette alla berlina alcune tipologie di clienti, al medico anestesista che si mostra in sala operatoria e racconta le sue giornate.

Secondo Surace “il mondo del lavoro viene catturato in questo vortice in cui bisogna legittimarsi pubblicamente e costruire un’identità che passa attraverso un soggetto digitale. Non puoi prescindere dalla tua presenza digitale; in un mondo in cui la soddisfazione personale è figlia di un certo tipo di riconoscimento, non si può che passare da lì. Dovremmo chiederci perché un professionista affermato abbia bisogno di questo riconoscimento. Con TikTok è nata di certo una nuova forma di divulgazione, oggi ogni forma di diversità trova una comunità. Allo stesso tempo, si rischia di dipendere da una forma di riconoscimento che è molto aleatoria, transitoria. La psicologia sociale si interessa sempre di più a queste nuove dinamiche, noi non siamo ancora alfabetizzati a sufficienza da questo punto di vista”.

 

Balletti e video divertenti, ma anche episodi di bullismo, abilismo, minori con gravi patologie esposti da genitori palesemente a caccia di un pretesto per monetizzare. Chiedo ai due autori se esista un lato oscuro di TikTok.

Surace parla di un’oscuritàblanda”: “più che i contenuti morbosi o parapornografici, che pure ci sono e sono in qualche modo premiati dall’algoritmo, mi preoccupa il fatto che TikTok è costruito per creare dipendenza, spingere all’infinite scrolling. Un social che ti fornisce modelli di costruzione dell’identità che predicano l’inclusività ma che sono in realtà molto esclusivi. Per questo è importante lavorare fin dalle scuole primarie per sviluppare un’alfabetizzazione all’utilizzo dei media”.

Il nodo della formazione è centrale anche per Marino, tra i membri di Olindinum, gruppo di studio italo-francese che cerca di mappare il mondo della comunicazione digitale per formare gli insegnanti. “A chi studia comunicazione è necessario parlare di post-social, di ipersocial. C’è un vuoto di offerta formativa che l’università dovrebbe colmare, insegnando per esempio perché è importante avere un background semiotico per creare contenuti efficaci. Un vuoto che altrimenti sarà riempito da un tiktoker, bravo o cialtrone che sia. Occupiamoci anche dei cosiddetti nativi digitali, che sono nati immersi in queste piattaforme ma sono del tutto inconsapevoli delle dinamiche che le muovono. Manca un pezzo della storia anche al nonno che finisce nel video TikTok del nipote. Trovo assurdo che nel 2023 alle elementari non ci sia un’ora di comunicazione che spieghi ai ragazzini quello che già sanno fare ma che non sanno comprendere, come funzionano le piattaforme, che cosa significa mettere un’immagine sul web. Spero che questo libro apra la strada”.

Difficile dire cosa accadrà domani. Si parla in modo ciclico di morte dei social, mentre il dibattito sulle sfide e i timori legati all’Intelligenza Artificiale è appena all’inizio. Surace accetta la sfida e, per gioco, si lancia in una previsione.

“Secondo me è difficile che dopo TikTok ci sia un altro social in senso stretto che spopolerà. TikTok ha sancito l’apoteosi e la morte dei social come li abbiamo conosciuti nei primi venti anni del Duemila. Eravamo stati educati a pensare che questa forma, che ha effettivamente rivoluzionato il nostro mondo e noi stessi, avrebbe continuato a proliferare ed evolversi, ma non è scritto da nessuna parte che in futuro non avremo un mondo molto meno social e più tiktokiano dal punto di vista delle dinamiche. Anche la professione del tiktoker non credo che durerà a lungo. Ma sono solo congetture, non ho la sfera di cristallo”.

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