Vitaliano Trevisan, il mestiere di vivere e di morire

La morte di Vitaliano Trevisan si colloca in uno scenario di miseria politica e sociale esasperato da due anni di pandemia, che coinvolge anche la cultura del lavoro. La nostra recensione del suo libro “Works”.

Il 7 gennaio è morto Vitaliano Trevisan. Si moltiplicano in rete bonomie e sciacallaggi, gli avremmo potuto e i non avremmo dovuto. A nulla è valso l’ultimo messaggio dell’autore, «nessuno si senta responsabile, nessuno avrebbe potuto fare nulla», perché è chiaro che le sue parole servono a discolpare, ma non ad assolvere.

Per scrivere bisogna aver molto vissuto e molto sofferto, e Vitaliano Trevisan scriveva bene davvero.

Dopo decenni di impieghi di ogni genere, di quei lavori che entrano sottopelle e distorcono ossa e psiche, la sua scrittura era un’espunzione dalla carne di quarant’anni di parole, automatismi, ambienti. Nel mezzo ci sono le ossessioni buone – per chi legge – di un autore che ha cercato con ostinazione di riassorbire la trama e i personaggi nel flusso del racconto, per comporre sovvertendo cent’anni di studi narratologici, in parte perfino con successo; una prosa che guarda con sospetto ai suoi costituenti e li rigenera per sottrazione, che rinuncia al necessario in un’implosione cristallizzata.

In Works (Einaudi, 2016) Trevisan ha raccontato le sue reincarnazioni lavorative come «linee spezzate» che si dipartono «da un diploma da geometra»: le premesse al suo ultimo mestiere, quello di scrittore, e al primo, quello di esistere.

Perché leggere Works di Vitaliano Trevisan

È un testo articolato in una prosa che non è possibile leggere altrove, periodi lunghi di un nitore e una densità senza pari che danno respiro alla lettura, invece di sottrarglielo. Nelle oltre seicento pagine del testo si avverte chiaro il marchio di uno stile, cosa assai rara nello scenario della narrativa italiana contemporanea, derivata dal feroce rifiuto dell’autore nei confronti di qualunque tipo di editing («O la nostra scrittura è cosa solo ed esclusivamente nostra, oppure è altro. Se è altro non vale la pena»).

Dal cumulo (in)coerente di mestieri emergono un luogo e un’epoca, la provincia vicentina di quarant’anni fa; un tratteggio squallido e viscerale della locomotiva economica che ha regalato all’Italia decenni di crescita. In Trevisan il lavoro è una maledizione che scarnifica operai e territori per alleviare l’insensatezza di esserci con la brevissima euforia della produzione. Lo sa bene il Nord Est, che ne ha ospitato la vita e le storie, e lo sa anche l’Italia, che si appresta a riviverle dentro e fuori dalle pagine.

Trevisan è morto da solo, per sua scelta – basta questo, senza i dettagli pelosi che pure sono emersi su qualche giornale – dopo anni di grave disagio psichico acuito dalla pandemia, come molti altri. È morto, lui che sui mestieri aveva incardinato le due metà della sua esistenza, dopo un ventennio di aggressione politica al mondo del lavoro e alla sua cultura, mentre il governante di turno decide di tagliare proprio sulla salute mentale dei cittadini.

Se il lavoro è una maledizione, e la vita è lavoro, l’ultimo atto di Trevisan è la conclusione del suo sillogismo. Eppure, stavolta neanche questo ci basta per sovrapporre alla fine l’idea del riposo.

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