“Ci hanno liquidato con belle parole”: la fine di Monster e il grido dei dipendenti contro il gigante Randstad

Un’acquisizione “ingenua” da parte del colosso dell’HR olandese ha affondato uno dei più grandi siti di recruiting con la complicità del fondo di private equity Apollo. E adesso, secondo il management, mentre i dipendenti americani saranno tutelati, quelli europei finiranno in carico ai loro Stati: la testimonianza esclusiva di un dirigente

09.08.2025

“C’è una rabbia diffusa a vari livelli”. Nelle parole di Matteo Nicolò, Direttore Vendite Internazionali di Monster France e portavoce dei dipendenti in questa vertenza, non c’è solo frustrazione, ma il sapore amaro di un tradimento.

La storia della fine delle attività europee di Monster, un tempo pioniere del recruiting online, è un dramma umano e finanziario che vede i suoi dipendenti intrappolati tra le manovre di due colossi: il gigante olandese delle risorse umane Randstad e il fondo di private equity Apollo Global Management. Quella che era stata presentata come “una nuova alba” si è trasformata in una liquidazione senza scrupoli, lasciando i lavoratori europei a chiedersi come i valori “human forward” sbandierati da Randstad possano coesistere con l’abbandono totale che stanno subendo.

Una mossa ingenua: le radici del declino

Per comprendere la rabbia odierna bisogna fare un passo indietro, al 2016.

È l’anno in cui Randstad, leader mondiale del lavoro interinale, acquisisce Monster per 429 milioni di dollari, un’operazione che fin da subito appare piuttosto ingenua agli occhi degli addetti ai lavori. Il motivo è semplice: i principali clienti di Monster, coloro che ne riempivano le pagine di annunci, erano le grandi agenzie per il lavoro come Adecco, Manpower, GiGroup e altre società di selezione dirette concorrenti di Randstad.

Nonostante le rassicurazioni del nuovo proprietario sulla neutralità della piattaforma e la garanzie di tutela della privacy, gli inserzionisti si sfilarono uno a uno, non volendo consegnare i propri dati a un rivale.

La gestione successiva, secondo le parole di Matteo Nicolò, fu disastrosa: “Randstad non ha mai capito il nostro business, ha voluto sostituire dirigenti strategici con manager inadeguati e nel corso di otto anni il fatturato era stato diviso per tre in un mercato in crescita”. Anni di emorragia finanziaria avevano preparato il terreno per il crollo.

La joint venture: l’inizio della fine

Nel luglio 2024, Randstad annuncia la mossa che segnerà il destino di Monster: la creazione di una joint venture, un’alleanza strategica, con il fondo di private equity americano Apollo Global Management. Nell’accordo viene fusa anche un’altra società in difficoltà del portafoglio di Apollo, CareerBuilder.
In questa operazione Randstad cede il controllo, mantenendo una quota – comunque consistente – del 49%.

Le premesse erano pessime. CareerBuilder si presentava all’alleanza con un fardello di 135 milioni di dollari di debito e un fatturato in caduta libera. Apollo, fedele al tipico modello di private equity speculativo, si è concentrato non sull’investimento, ma sullo smantellamento, vendendo rapidamente gli asset più redditizi e tecnologicamente avanzati del gruppo, come Broadbean e Textkernel, due gioielli specializzati in tecnologie per il recruiting. Al contrario, Monster si presentava all’acquisizione senza debiti.

Randstad, da parte sua, all’inizio ha tentato di tenere a galla la barca: al momento della fusione ha iniettato un prestito di 19,6 milioni di dollari per garantire la liquidità, a cui si sono aggiunti altri 20 milioni di dollari a febbraio 2025. Ma erano cerotti su una ferita troppo profonda.

Con la “scusa dell’instabilità macroeconomica”, il castello è crollato: il 5 giugno Apollo e Randstad hanno comunicato che non avrebbero più messo soldi, innescando la decisione di una “vendita accelerata” di tutte le divisioni e una massiccia distruzione di valore.

Il labirinto finanziario: salvezza per gli USA, condanna per l’Europa

È a questo punto che la strada per i dipendenti americani e quelli europei si divide in maniera tragica.

Per gestire la vendita in un ambiente protetto, la joint venture statunitense viene posta sotto la protezione del Chapter 11. Per chi non conosce i termini finanziari, il Chapter 11 non è una bancarotta totale, ma una ristrutturazione controllata. È come se un’azienda finisse in terapia intensiva: il tribunale le concede una pausa dai debiti per permetterle di continuare a operare, riorganizzarsi e presentare un piano per tornare in salute, ripagando i creditori nel tempo. È uno strumento pensato per salvare l’azienda e, con essa, i posti di lavoro.

Per le filiali europee, invece, si prospetta uno scenario ben più drammatico, assimilabile alla liquidazione totale o bancarotta. In questo caso, non c’è salvezza. L’azienda viene dichiarata morta, cessa ogni attività e un curatore vende tutto ciò che resta per pagare i creditori. Per i dipendenti europei di Monster, la beffa è che questa liquidazione avverrà senza nemmeno le tutele di una procedura formale: semplicemente i fondi dagli USA hanno smesso di arrivare, lasciando le società europee in balia degli Stati che dovranno provvedere con soldi pubblici alla loro tutela.

Tutto questo si consuma in gran fretta, senza permettere al team dirigenziale di Monster di valutare – per esempio – un working buy out che avrebbe quantomeno permesso, anche se in tempi meno accelerati, un’acquisizione più virtuosa da parte dei dipendenti con il supporto magari di un investitore virtuoso.

L’asta di New York: l’ultimo chiodo sulla bara europea

A giugno viene annunciata la vendita delle tre principali divisioni del gruppo: MMP (Military.com), MGS (Monster Government Solutions) e il cuore del business, il sito di annunci Monster. Il destino si compie il 18 luglio a New York, durante l’asta proprio per il sito. La vincitrice è una società americana, BOLD, che si aggiudica il pacchetto per soli 28,6 milioni di dollari, una cifra irrisoria per un marchio così noto.

Ma è una clausola dell’accordo a segnare la condanna definitiva per l’Europa: BOLD dichiara subito che non prenderà il business internazionale. Non solo: l’accordo prevede l’acquisizione di tutti i domini globali (monster.fr, monster.de, monster.it, ecc.) a prezzi da saldo. Questo significa che BOLD si accaparrerà il brand in tutto il mondo, impedendo di fatto a qualsiasi potenziale acquirente locale in Europa di poter rilevare le attività e continuare a operare con il nome “Monster”. Inoltre, l’Europa non vedrà un centesimo per la vendita dei propri domini.

Del resto, che per l’Europa buttasse male era chiaro già da giugno, quando il CEO della joint venture ed ex CEO di Career Builder, Jeff Furman, aveva ammesso che per le filiali europee semplicemente “non ci sono state offerte”.

La beffa per i dipendenti/clienti/candidati europei è proseguita con la chiusura di tutti i siti Monster europei senza nessuna previa comunicazione. Dal 30 luglio i clienti non possono neppure più accedere ai servizi acquistati.

Dipendenti senza stipendio e bonus per i manager: “Considerate questo etico?”

Mentre la procedura americana viene blindata con milioni di dollari spesi in consulenti legali, in Europa si consuma il dramma umano.

Gli impiegati, e non solo ‘il business’, vengono liquidati” scrive Matteo Nicolò in una e-mail ai vertici di Randstad. Contratti stracciati, accordi sulla buonuscita non rispettati e, soprattutto, l’incubo di non ricevere lo stipendio e di perdere la copertura sanitaria.

“I dipendenti di Monster rimarranno in un limbo SENZA STIPENDIO per diversi mesi, lasciandoli in una situazione di alta precarietà” denuncia Nicolò. “I dipendenti francesi perderanno anche l’assicurazione sanitaria da un giorno all’altro, nonostante alcuni di loro stiano affrontando cure pesanti”.

La rabbia esplode quando i lavoratori scoprono che, mentre a loro viene negato tutto, un bonus da 1,2 milioni di dollari è stato messo a budget per un piccolo gruppo di manager per premiare il “successo” della vendita. Nella lettera inviata al board, la domanda suona come un pugno nello stomaco: “Considerate questo etico?”.

Il muro di gomma di Randstad

La risposta di Randstad alle disperate richieste d’aiuto è gelida. Il CEO, Sander van’t Noordende, risponde con una frase lapidaria: “Vi ricordo che siamo un azionista di minoranza”. Una posizione ribadita da tutti i manager contattati, inclusa la Chief Human Resources Officer, Myriam Beatove Moreale, e la General Counsel di Randstad, Fiona Van Lede, i quali hanno difeso l’operato di Randstad, ma per i dipendenti è una logica inaccettabile.

“Randstad era proprietaria al 100% di Monster fino a nove mesi fa” ribatte Matteo Nicolò, ricordando che l’azienda ha ancora tre membri nel consiglio di amministrazione della joint venture. La sensazione è che la struttura sia stata creata ad arte per scaricare le responsabilità.

Come ha detto Nicolò: “Da una parte abbiamo una delle società di private equity più ricche, Apollo, e dall’altra il leader mondiale del lavoro interinale, Randstad, e chiedono ai contribuenti di pagare per una manciata di dipendenti?”.

L’offerta finale di Randstad suona quasi come un insulto: nessun piano di outplacement, e inoltre “i dipendenti licenziati possono candidarsi”, come se fosse una gentile concessione, “alle posizioni aperte nel gruppo, ma qualsiasi candidatura seguirà il processo di reclutamento standard senza privilegi”, come specificato da Isabelle Callebaut, Global HR Leader.

Un gesto vuoto per chi si sente tradito da un’azienda che, come ricordato da Matteo Nicolò, ama citare i valori del suo fondatore, Frits Goldschmeding: “Rispetto per le persone e responsabilità sociale”. Una contraddizione che Nicolò sintetizza con amara lucidità: “Non glielo ha chiesto il dottore di scrivere tutti questi slogan, ma almeno rispettateli”.

 

 

 

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Photo credits: glassdoor.com

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