La trama del romanzo è presto riassunta: il romano Gabriele Bilancini, figlio di un meccanico del Tuscolano, ha fatto li sordi a Milano come designer d’arredi che in pochi possono permettersi, figuriamoci i suoi amici d’infanzia che si vestono a caso, parlano male e campano peggio. Ma i soldi non fanno la felicità, e chi ha il pane non ha i denti.
Il derelitto Gabriele torna a casa con le tasche piene di soldi (è pur sempre l’allievo/giocattolo prediletto del guru!) e la morte nel cuore: nella casa dove è nato c’è ancora il letto come l’ha lasciato lui, e ci si ostina a mangiare primo-secondo-e-contorno per pranzo, quando basterebbe una bella insalatina con una proteina come si usa fare a Milano.
Svegliato tutte le mattina dalla madre che gli annuncia di aver preparato i suoi piatti preferiti, Gabriele oscilla tra attrazione e nausea, come forse anche il lettore, sballottato di qua e di là dalla fastidiosa rassegnazione di alcuni personaggi e dal poderoso rancore di altri.
Andare, restare, che fare? Non chiedetelo a me, ché il finale non l’ho capito (e anche ChatGPT non è di aiuto).
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