Abbiamo usurato gli operai. Chi fabbrica i nuovi?

Il ricambio generazionale delle professioni tecniche è al palo: poco ricambio anche tra i manutentori meccatronici, responsabili della robotica. Luisa Cazzaro, presidente dell’Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda Lombardia: “Il sistema è scoppiato da anni”.

Fine lavoro mai. Più che un presagio una condanna certa per le generazioni più giovani, a leggere l’attualità di queste settimane.

Il Governo Draghi ha di fatto superato la tanto discussa quota 100 attraverso una tappa intermedia, definita quota 102, che nel 2022 permetterà a chi ha compiuto 64 anni e maturato almeno 38 anni di contributi di andare in pensione prima rispetto a quanto previsto dalle regole ordinarie, ovvero 67 anni di età e 20 anni di contributi. Dal 2023 si torna invece alla tanto temuta Fornero, salvo imprevedibili colpi di scena in grado di sparigliare le carte sui tavoli istituzionali.

Scavalcando la consueta retorica sui vecchi al lavoro e i giovani al palo, siamo davvero sicuri che questa cornice nefasta rispecchi in toto la realtà dei fatti? Se infatti guardiamo alle statistiche sappiamo che l’Italia, partita da un’età effettiva di pensionamento molto bassa e di certo al di sotto dei colleghi europei, sta recuperando terreno solo negli ultimi anni. Inoltre, a fronte di tutti gli annunci sugli aumenti dell’età pensionabile, ci sono stati nel tempo diversi interventi di tipo categoriale a frenare l’ascesa.

Ragion per cui, se del futuro non v’è certezza, possiamo con cognizione di causa affermare che oggi l’età di uscita dal lavoro si avvicina più ai 62 anni che ai 67, a maggior ragione (e giustamente) per chi ha speso una vita in fabbrica o in attività di tipo usurante.

Operai in via d’estinzione? Diminuisce anche chi si occupa dei robot

L’impressione è che, se per molte categorie lo spettro della mancata pensione rappresenta un problema serio per il futuro, per altre la differenza negativa tra nuovi assunti e usciti disegna un panorama concreto e già piuttosto attuale. E sono proprio queste, in prospettiva, a destare le maggiori preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.

Leggendo i dati ISTAT dell’ultimo triennio sulle professioni, per esempio, emerge un’evidente spaccatura tra i giovani che si approcciano al lavoro in ruoli di manutenzione o di operai specializzati e i lavoratori esperti in procinto di lasciare l’azienda per sopraggiunti limiti di età.

A livello generale, per fornire un’immagine chiara del ragionamento, è sufficiente focalizzarsi sulla qualifica degli operai. Nel totale delle nuove assunzioni degli ultimi tre anni, appena l’11,4% rappresenta il popolo degli operatori specializzati, con un misero 5% che ha iniziato la propria avventura in azienda insignito del ruolo di conduttore d’impianto. Peccato che nello stesso periodo, sui pensionati registrati, ne sia uscito complessivamente il 25,3%, con un livello di esperienza giocoforza più importante e con un’età variabile dai 55 anni in su. Quindi non tutti ultrasessantenni, a quanto pare.

L’analisi è corroborata dall’elemento sulle professioni tecniche, dove rientrano i tanto richiesti manutentori meccatronici. In questo caso la percentuale in uscita è del 16,4%, contro il 15,6% in ingresso. Dati non drammatici ma comunque preoccupanti, che di certo non possono essere ricondotti solo alla trasformazione digitale, all’intelligenza artificiale e all’automazione. Perché se il crollo di assunzioni tra gli operai è in questo senso giustificabile, è viceversa innegabile il fatto che senza operatori meccanici, elettrici ed elettronici non è possibile programmare i robot e manutenerli.

Manutentori e conduttori d’impianti sono quindi una categoria a rischio estinzione? Chi può dirlo. Sicuro è che il plotone di meccanici ed elettrici al crepuscolo non troverà ad attenderlo un adeguato ricambio generazionale.

Luisa Cazzaro, AIDDA: “Ricambio generazionale? Il sistema è scoppiato da anni. Serve un piano di sviluppo”

Il futuro di tutte le figure tecniche è in discussione, tema fondamentale, ma ancora nessuno ne parla. I nuovi professionisti meccanici ed elettrici, per esempio, sono di fatto mosche bianche. Non è possibile che un Paese come il nostro non riesca a sostenere un cambio della guardia capace quanto meno di garantire continuità.”

Luisa Cazzaro è presidente dell’Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda (AIDDA) per la delegazione Lombardia, oltre che titolare di Cusa, officine meccaniche di precisione. Anche lei, come tutti i datori di lavoro, è impegnata in prima linea sul tema pensione e sul conseguente ricambio.

“In questi anni tanti manutentori esperti stanno per andare in pensione, nella mia come in molte altre realtà di piccola e media impresa. La nostra, per esempio, è una piccola azienda di lavorazioni meccaniche abbastanza sartoriali, con tante richieste particolari e su misura. L’obiettivo è portare a bordo persone esperte oppure formare giovani ragazzi”.

Qual è la difficoltà rispetto alla formazione di figure junior?

Le scuole, dal mio punto di vista, non sono in sinergia con la realtà di impresa. Quello che manca è un piano di sviluppo di ogni singolo territorio. Purtroppo il sistema è scoppiato da anni. Com’è possibile che la Regione nella quale lavoro, seconda solo alla Germania per le lavorazioni meccaniche, abbia istituti scolastici che prevedono solo quaranta ore di AutoCAD in tre anni? Perché non si riesce a formare gli studenti all’utilizzo delle macchine utensili? Non dico saper effettuare rettifiche, ma una propedeutica sul tornio, la conoscenza del disegno tecnico e degli strumenti di misura mi sembra il minimo.

Però la formazione on the job, dopo un processo di selezione accurato sulle competenze trasversali, può sopperire alla mancanza di preparazione tecnica. Con un attento lavoro preventivo, si possono organizzare affiancamenti strutturati insieme a chi sta per andare in pensione; non è così?

Noi, come tanti altri, abbiamo sempre formato internamente le persone. Capisco che non tutti seguano questa strada, ma bisogna considerare che per le piccole realtà è più difficile rispetto alle grandi aziende. Soprattutto se c’è nebbia totale dal punto di vista delle competenze. Il rischio al quale siamo esposti, spesso, è di un turn over molto alto, che non ci permette di creare professionalità.

Riassumendo, i potenziali nuovi manutentori sono in misura minore rispetto ai colleghi esperti in uscita, e per giunta sono pure meno preparati. Ma mancano le scuole o i ragazzi preferiscono in gran percentuale un percorso universitario?

Ripeto, manca un progetto. Il territorio nazionale è costellato di tante piccole realtà di valore e con una professionalità eufemisticamente diffusa. La geografia delle competenze è parecchio diversificata. Quel che serve è un’ottimizzazione tra quello che propone la scuola e le esigenze delle aziende.

Con gli esperti che preparano i bagagli, destinazione pensione.

Il futuro è l’automazione. Ed è necessaria una forza lavoro con determinate caratteristiche, non necessariamente maschile. Sono dell’idea che le lavoratrici abbiano grandi potenzialità sul fronte meccanico, bisogna dar loro fiducia. Ma se nessuna si approccia a questo mondo è difficile.

Un retaggio culturale difficile da estirpare.

E non è l’unico. La transizione ecologica è all’orizzonte, con il suo carico di cambiamenti sulle professioni. Se i meccanici studiano come sostituire un carburatore, cosa sapranno fare se il carburatore scompare in ottica green?

Un contesto mutevole, anche da un punto di vista geopolitico.

Quello che è successo negli ultimi due anni con la pandemia è significativo. Mi sento di poter affermare che le aziende tenderanno a riportare in Italia alcune lavorazioni, per non incappare più nei disagi legati alla mancanza di materia prima. Come pensiamo di sostenere un’opportunità simile? La meccanica è la base di tutto, ma nessuno sembra essersene reso conto.

Il dibattito sul mondo del lavoro non è quindi legato solo allo smart working. Un’analisi sulla popolazione in uscita per pensionamento rappresenta una buona occasione per allargare gli orizzonti?

Dobbiamo iniziare a parlare anche di chi presta servizio al tornio. Servono motivazioni e un piano di sviluppo preciso per governare questa situazione, individuando le tempistiche per formare i giovani e le modalità di gestione per sostenere la fase intermedia. Consapevoli che a sessant’anni è più che lecito non vedere l’ora di andare in pensione.

Impossibile non convenire su quest’ultimo punto. Il lavoro usurante merita un’età di pensionamento dignitosa e in linea con gli sforzi sostenuti. E l’antidoto per un costruttivo ricambio generazionale ha la solita ma non scontata formula: pianificazione e formazione.

Photo credits: dazebaonews.it

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