Accesso all’università: anche gli studenti hanno le loro caste

Il numero dei laureati in Italia è tra i più bassi d’Europa, le tasse sono tra le più alte e il lavoro non è garantito. Alle famiglie conviene ancora investire sull’università? Ne parliamo con Luisa Pomarici dell’associazione Tortuga e con il sociologo Franco Amicucci.

Alla fine dello scorso anno il nostro Paese ha fatto registrare un aumento del 7% del numero degli studenti iscritti all’Università rispetto al 2020, secondo i dati forniti dal Miur. È interessante notare come, secondo i primissimi dati forniti all’inizio del 2021 sempre dal ministero dell’Università e della ricerca, l’orientamento degli studenti italiani su quale tipologia di scuola frequentare per la formazione secondaria fosse già piuttosto evidente: per il 57,1% la scelta cadeva sui licei; molto distanziati gli istituti tecnici con una preferenza pari al 30,3%; fanalino di coda le scuole professionali con l’11,9%.

I dati sull’aumento del numero delle immatricolazioni universitarie nel nostro Paese sono positivi, ma in realtà nascondono anche diverse ombre: aumentano gli studenti nonostante secondo un recente rapporto di Eurydice (la rete istituzionale che raccoglie, analizza e diffonde informazioni sulle politiche e la struttura dei sistemi educativi europei) l’Italia figura tra i Paesi con le tasse universitarie più alte rispetto agli altri Paesi europei.

E ancora, secondo uno studio Openpolis su dati Eurostat l’Italia è al penultimo posto in Europa per percentuale di laureati tra i 30-34 anni con il 27,6%. Peggio di noi solo la Romania con il 25,8%.

Un primato e un vice primato di cui non andare particolarmente orgogliosi: se si pensa poi che nella Strategia Europa 2020 l’Unione europea invita i Paesi membri a promuovere il conseguimento di un livello di istruzione elevato per tutti, fino al raggiungimento della soglia pari al 40% nella percentuale di laureati tra i 30-34 anni, si evince come siamo molto lontani dal raggiungere l’obiettivo richiesto.

Scuole superiori e università sono fortemente interconnesse. Spesso si parla di retaggio culturale delle famiglie degli studenti quando non scelgono istituti tecnici per i figli a vantaggio dei licei. È una scelta che paga o che pagherà per il futuro degli studenti italiani?

Lo abbiamo chiesto a Franco Amicucci, sociologo e presidente di Skilla, e Luisa Pomarici, studentessa laureata in Economic and social sciences alla Bocconi di Milano e facente parte dell’associazione Tortuga dal dicembre 2020, dove è responsabile networking ed eventi.

Luisa Pomarici, economista che fa parte dell’associazione Tortuga, sul palco di Nobìlita 2021 – Ivrea.

Luisa Pomarici, associazione Tortuga: “Cambiare l’accesso all’università a partire dalla consapevolezza degli studenti”

Dottoressa Pomarici, con lei vorrei partire dal concetto del “privilegio chiama privilegio” che ha espresso sul palco di Nobìlita ad Ivrea. L’università a suo avviso può essere ancora considerata una sorta di ascensore sociale per tutti i suoi studenti?

I dati globali dimostrano che nel 1971 l’accesso all’educazione terziaria era pari al 10% della popolazione, mentre nel 2013 si era alzato al 30%. C’è stata una grande espansione che è assai positiva, e significa che c’è stata una maggiore inclusione, ma allo stesso tempo ha portato una maggiore stratificazione del sistema terziario: ci sono lauree di primo livello, magistrali, i dottorati, i master. Si sono moltiplicati anche i vari corsi di laurea di tipo orizzontale, creando percorsi di qualificazione differente che sono collegati a dei livelli salariali e a dei livelli di occupabilità differenti. Tendenzialmente i dati mostrano come chi ha una posizione socioeconomica famigliare più vantaggiosa raggiunge percorsi professionali e retributivi migliori, e questo rappresenta un grande elemento di complessità. È importante sottolineare che svolgere stage e/o internship durante l’università, percorsi propedeutici alla carriera che poi si vuole intraprendere, è fondamentale: spesso queste attività non sono retribuite ed è altrettanto difficile trovarle in modo autonomo. Il problema della non retribuzione degli internship e degli stage è molto importante, soprattutto per chi si deve mantenere per studiare: lavorando come cameriera al bar, o facendo anche semplici ripetizioni, poi non si ha il tempo materiale di cercare percorsi di quel tipo, per giunta non retribuiti. Proprio per questi motivi in Tortuga pensiamo che per colmare il mismatch durante la triennale occorra avere un periodo di stage gestito dall’università stessa, evitando così che la ricerca sia tutta sulle spalle degli studenti che devono trovare l’internship senza avere gli strumenti adeguati a farlo.

Fonte Miur – Ministero Università e Ricerca

Come pensare a università non troppo elitarie e magari irraggiungibili per qualcuno, senza parlare di vera e propria discriminazione in base alle condizioni economiche di partenza degli studenti?

È importante sottolineare che non tutti gli studenti e le famiglie hanno le possibilità di affrontare l’investimento economico del percorso universitario. In Italia spendiamo nell’educazione primaria e secondaria quanto gli altri Paesi europei, ma spendiamo meno per l’educazione terziaria; è inoltre da considerare che le tasse universitarie in Italia sono tra le più alte in Europa, e questo non viene compensato da un numero di borse di studio altrettanto alto. Come Tortuga crediamo che occorra fare in modo che tutti gli studenti siano a conoscenza degli strumenti a sostegno dello studio universitario. Secondo punto: i soldi delle borse di studio dovrebbero essere erogati all’inizio dell’anno e non a rimborso, pensando alle famiglie che hanno problemi di liquidità, dove il rischio reale è che si decida di non iscrivere i propri figli all’università proprio per mancanza di disponibilità economica. Un tema altrettanto importante è quello del costo di vitto e alloggio: se una persona arriva da un contesto socioeconomico modesto non può permettersi questo scenario, proprio perché andare a vivere in un’altra città con i relativi costi da sostenere diventa proibitivo per alcune famiglie, e questo è un altro elemento di complessità.

Fonte Miur – Ministero Università e Ricerca
Franco Amicucci, sociologo e presidente di Skilla, sul palco di Nobìlita 2021 – Ivrea.

Il sociologo Franco Amicucci: “Il lavoro manuale di domani avrà una forte componente intellettuale”

Dottor Amicucci , se andiamo verso una società ibrida e incerta, come ha dichiarato proprio lei sul palco di Nobìlita a Ivrea, che cosa dovrebbero studiare i giovani per il loro futuro? E ancora: esiste un ROI per le famiglie che decidono di far studiare i propri figli?

Il tema è profondamente culturale: noi pensiamo alla laurea dal punto di vista del Return Of Investment immediato perché diamo un significato alla posizione lavorativa soddisfacente da conquistare. Vediamo meno il vero valore dello studio, che è quello di acquisire competenze di base, fondamentali per apprendere ad apprendere lungo tutto l’arco della vita. Siamo entrati nell’epoca del continuo cambiamento. Siamo poi figli di una cultura che separa nettamente il lavoro manuale da quello intellettuale: l’impiegato è di serie A mentre l’operaio è di serie B.

Come vede il futuro del lavoro?

Mi piace pensare al futuro del lavoro con una buona dose di utopia, dove tutti arrivano alla laurea ma lo sbocco lavorativo potrà essere ovunque: si potrà fare il contadino, l’idraulico, l’operaio, l’artigiano, ma con la laurea, con la stessa dignità dell’insegnante e del magistrato. Questo è il messaggio nuovo che noi dobbiamo dare al lavoro. Non è la liberazione dal concetto di fatica o dalla manualità, considerati come elemento di serie B. Sarà la tecnologia a liberarci dalla fatica, ma il lavoro dovrà rimanere centrale nella dimensione umana.

Che cosa manca al nostro Paese per arrivare a un vero e proprio cambio di paradigma?

Occorre pensare che il cambiamento nel nostro Paese avverrà attraverso questi due passaggi: la rivalutazione del lavoro manuale, che sarà da pagare di più, e far capire come la tipologia di nuovo lavoro manuale sarà strategica in futuro. Ci mancano la visione e la capacità di imbastire una riflessione collettiva sul futuro del lavoro che oggi è totalmente assente: stiamo vivendo il futuro guardandolo dagli specchietti retrovisori, utilizzando le categorie del passato. Non comprendiamo come il lavoro manuale futuro sarà un lavoro ibrido, ad altissima intensità intellettuale. Per questo sarà importante altresì che la cultura umanistica venga inserita anche negli ITS, ma ancora più importante sarà inserire la manualità nei licei: l’attività dello “sporcarsi le mani” è da ritenersi fondamentale. Pensiamo ancora al rapporto con l’ambiente: il lavorare nei campi, riprendere il rapporto con il verde e la manualità nei giardini urbani; questa perdita di corporeità rischia di essere pesantissima per le generazioni future. Non fermiamoci al mero dibattito sull’inserimento della filosofia negli ITS, ma allarghiamo queste riflessioni a tutto il sistema educativo.

Si discute molto anche sulle discipline STEM nel nostro Paese per la formazione del futuro per i giovani.

Concludo proprio con il concetto di STEM: manualità e intellettualità. Il concetto di futuro va ribaltato. Non si tratta di che cosa facciamo fare ai giovani; la domanda corretta è: quali strumenti diamo ai giovani perché creino il lavoro uscendo dalla vecchia cultura padronale e paternalistica? Non possiamo sempre pensare che sia un problema dello Stato e dell’impresa, quello di trovare il lavoro per i giovani del futuro. Non pensiamo di dare lavoro, ma di offrire gli strumenti affinché il giovane crei da sé il proprio lavoro del futuro.

Se da una parte aumenta il numero degli studenti universitari e dall’altra, citando Franco Amicucci, il futuro è totalmente incerto, per i giovani di oggi il cambio di paradigma si rende assolutamente necessario. Anche in considerazione del fatto che laurearsi, per loro, non corrisponderà per forza a un lavoro certo, quanto piuttosto alla capacità di affrontare con le competenze acquisite anche nuovi percorsi professionali, e perché no manuali, che consentano sbocchi anche non convenzionali. Dei mestieri che facciano uscire dalle secche di attività professionali e lavorative fotocopia, per le quali si rischia da tempo di avere troppa offerta e poca domanda. Saranno proprio i giovani ad accettare il cambiamento e a combattere i retaggi culturali che respirano all’interno del loro nucleo famigliare. La rivoluzione del loro futuro sta tutta qui.

L’articolo prende spunto dal panel “Competenze giovani o giovani competenze?”, che puoi seguire cliccando qui e qui.

Foto: credits Domenico Grossi.

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