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Agro Pontino, dove i caporali coltivano la paura
La morte di Satnam Singh ha provocato lo sdegno della popolazione e quello di una politica immobile da anni sul fronte del caporalato. Un’analisi del sistema di sfruttamento con l’intervista a Gurmukh Singh, presidente della comunità degli indiani del Lazio: “Lavoratori ricattati con i documenti: non possono andarsene”
«Una leggerezza del bracciante, costata cara a tutti». Queste le parole rilasciate al Tg1 dal padre di Antonello Lovato, 37 anni, datore di lavoro del bracciante indiano che lunedì 17 giugno aveva perso un braccio a seguito di un incidente sul lavoro, avvenuto in un’azienda agricola di borgo Santa Maria, nella periferia di Latina.
Satnam Singh, 31 anni, è stato abbandonato da Lovato davanti alla sua abitazione, con il braccio tranciato e poggiato sopra una cassetta per gli ortaggi, accanto alla spazzatura. I soccorsi sono stati allertati solo dopo molte ore, quando il ragazzo aveva perso già molto sangue: il trasporto d’urgenza e il ricovero all’ospedale San Camillo di Roma non sono bastati: il bracciante è morto dopo due giorni di agonia.
Secondo le stime dell’Osservatorio Morti sul Lavoro, si tratterebbe del centesimo migrante morto sul lavoro in Italia nel 2024. Secondo quanto riportato dall’Osservatorio nazionale di Bologna, del resto, gli stranieri presentano un rischio di morte sul lavoro alto più del doppio rispetto agli italiani (65,3 morti ogni milione di occupati contro i 31,1 italiani).
Sony, la moglie di Singh, ha raccontato a la Repubblica delle minacce ricevute dalla sua famiglia: «Il padrone ha preso i nostri telefoni per evitare che si venisse a sapere delle condizioni in cui lavoriamo. Poi ci ha messi sul furgone togliendoci la possibilità anche di chiamare i soccorsi».
Intanto, uno dei braccianti che lavorava con Satnam, nonostante non sia in possesso del permesso di soggiorno, si è presentato dai carabinieri per testimoniare. «Ho deciso comunque di assumermi il rischio di essere cacciato dall’Italia con un foglio di via. Lo devo a Satnam e a sua moglie».
La questione dei permessi di soggiorno è centrale in un contesto come quello dei braccianti agricoli. Adesso La FLAI CGIL chiede il rilascio di permessi ai braccianti presenti per motivi di giustizia così da permettergli di raccontare quanto accaduto, senza paura di ritorsioni o espulsioni. La vedova di Satnam Singh, invece, sta per ricevere dal ministero dell’Interno un permesso di soggiorno dopo il nulla osta dell’autorità giudiziaria.
Nel frattempo la procura di Latina, a seguito della denuncia della FLAI CGIL Latina-Frosinone, ha aperto un’inchiesta per lesioni personali colpose, omissione di soccorso e disposizioni in materia di lavoro irregolare a carico di Antonello Lovato. L’azienda agricola dove è avvenuto l’incidente è invece ora sotto sequestro.
Il presidente della comunità indiana del Lazio: «Ricattati dai permessi di soggiorno. Nessuno denuncia per paura di perdere il lavoro»
«I ragazzi indiani che lavorano nei campi spesso non denunciano le ingiustizie che subiscono e gli infortuni sul lavoro, perché hanno paura di perdere il lavoro. Molti di loro, infatti, non sono in regola, e non possono quindi richiedere il permesso di soggiorno.»
Lo spiega a SenzaFiltro Gurmukh Singh, presidente della comunità indiana del Lazio, composta da più di 32.000 persone. Vive qui da trentadue anni con la sua famiglia, è un indiano sikh e aiuta i suoi connazionali che vengono a lavorare nelle campagne pontine a non venire sfruttati e a ottenere i visti. Nell’aprile del 2016 la sua comunità, assieme alla FLAI CGIL, alla CGIL e alla cooperativa In Migrazione, organizzò a Latina il primo e più importante sciopero di braccianti indiani in Italia, a cui presero parte 4.000 lavoratori e lavoratrici per dire basta al caporalato e allo sfruttamento.
«Conosco un ragazzo – continua a raccontarci – che sta fermo a letto da sei mesi in seguito a un infortunio sul lavoro, anche se ha dichiarato di essere caduto dalla bicicletta. Questo accade perché non c’è sicurezza sul lavoro. È importante che gli immigrati, quando arrivano qui, abbiano la possibilità di aprire una sanatoria per essere regolarizzati così da superare la paura di denunciare. Perché le persone non se ne vanno, mi chiedi? Semplice, perché non trovano di meglio. In più, anche se volessero, non hanno i documenti, e quindi sono costretti ad accettare di lavorare anche a condizioni disumane.»
Quella degli indiani è la comunità di stranieri più numerosa che lavora nei campi della provincia di Latina (secondo i dati INPS sono quasi 9.500). Oltre a questi, «ci sono anche molti africani e rumeni», dichiara Singh. Gli indiani vengono qui per cercare di migliorare la propria situazione economica, ma anche perché in questa zona c’è la più grande comunità sikh d’Italia. Per questo diverse agenzie di collocamento indiane o internazionali organizzano viaggi e trasferimenti per venire a lavorare nell’Agro Pontino, che però spesso trovano un capolinea nelle maglie dello sfruttamento.
Martedì 25 giugno Gurmukh Singh sarà in piazza con tutte le maggiori sigle sindacali «per chiedere dignità, sicurezza su lavoro e il rispetto dei diritti nostri e della famiglia di Satnam Singh». Alla fine del corteo, «chiederemo di essere accolti dal prefetto di Latina per lasciargli una lettera aperta in cui denunciamo tutto quello che succede ogni giorno».
Il caporalato al servizio delle multinazionali: «Chi alza la testa viene picchiato e cacciato»
Gran parte dell’offerta di lavoro nei campi nella provincia di Latina è coperta dalle coltivazioni di kiwi Zespri, esportati in tutta Europa. Qui molti dei lavoratori indiani impiegati nella raccolta vengono sottopagati, e non godono di alcun diritto.
L’Italia, infatti, con 320.000 tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta Paesi e un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi, e il terzo al mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. La prima regione italiana dove si coltiva questo frutto è proprio il Lazio.
Un mercato molto redditizio, controllato per un terzo dalla multinazionale Zespri, che in Italia controlla quasi tremila ettari di campi e lavora con centinaia di produttori e migliaia di braccianti.
Le condizioni dei lavoratori indiani impiegati nei campi di kiwi del basso Lazio sono state rese note in tutto il mondo dall’inchiesta di Irpimedia del 2023 dal titolo Il sapore amaro dei kiwi, che ha vinto anche il premio Tina Merlin per il giornalismo d’inchiesta territoriale.
Gli autori e le autrici dell’inchiesta hanno spiegato nel dettaglio i soprusi, l’assenza di tutela e di garanzie, lo sfruttamento sistematico, ma anche la violenza fisica che subiscono migliaia di lavoratori indiani chiamati ogni anno a raccogliere kiwi per la stagione. La maggior parte di loro guadagna circa 5/6 euro l’ora – ben al di sotto dei circa 9 euro lordi all’ora stabiliti dal contratto provinciale – per giornate di lavoro anche da dieci ore, sette giorni a settimana. A questo si sommano i licenziamenti senza giusta causa, pause brevissime, l’assenza di servizi igienici adeguati e la mancanza di dispositivi di protezione obbligatori, come mascherine e guanti.
«Ci sono anche aziende che non sfruttano, che rispettano la legge e i diritti dei lavoratori – spiega Gurmukh Singh – ma esistono anche i caporali. Se finisce il sistema basato sullo sfruttamento e sul terrore, loro non possono più mangiare sulle spalle degli altri. Per questo chi alza la testa e chiede il rispetto dei propri diritti non viene visto bene da queste persone; anzi, nella maggior parte dei casi viene picchiato e poi cacciato.»
L’Agro Pontino dei caporali: un pantano di sfruttamento e suicidi
Come aveva già spiegato a SenzaFiltro il sociologo ed esperto di migrazioni e sfruttamento dei lavoratori agricoli, Marco Omizzolo, le condizioni di lavoro nelle campagne laziali sono preoccupanti. Non solo per via delle temperature roventi durante l’estate, che portano a numerosi svenimenti dei braccianti nei campi, ma anche per la condizione di ricattabilità dei lavoratori, che sono costretti a fare più ore del dovuto senza essere pagati, anche solo per ottenere il tanto agognato permesso di soggiorno.
Da una parte le lotte sindacali iniziate nel 2016 hanno portato a un aumento delle paghe orarie (passando dai 2,50 ai 6 euro l’ora); dall’altra, secondo Omizzolo, hanno reso il sistema di sfruttamento più sofisticato e difficile da sradicare. Una situazione drammatica che ha portato spesso anche a esiti tragici, come i numerosi suicidi registrati proprio tra i braccianti alle dipendenze dell’aziende dell’Agro Pontino.
Nelle falle del sistema riesce così a insinuarsi il malaffare. Gli imprenditori della zona sono infatti soliti adottare lo stratagemma del “lavoro grigio”, ovvero il pagamento del salario in parte in chiaro e in parte in nero, così da versare meno tasse e contributi, rendendo più difficili i controlli con una parvenza di regolarità.
I commenti della politica contro l’inazione delle istituzioni
«Questo episodio rappresenta una violazione dei diritti umani fondamentali, della dignità umana e delle norme inerenti alla sicurezza dei lavoratori», ha affermato il sindaco di Latina, Matilde Celentano. Anche il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, si è espresso a riguardo, definendo «sconcertante», «crudele» e «vile» la vicenda e ribadendo che la «sicurezza sul lavoro e la lotta al caporalato sono la nostra priorità».
Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, invece, accanto a una come sempre muta ministra del Lavoro, si è preoccupato che non venisse «criminalizzata l’intera filiera» per colpa di «un criminale» isolato.
«La storia di Singh è la fotografia più cupa di quel pezzo di economia criminale fondata sull’abuso e sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli e ricattabili, che dobbiamo sradicare con decisione e senza compromessi», ha aggiunto in una nota la viceministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci. La segretaria del PD, Elly Schlein, ha annunciato invece la sua partecipazione alla manifestazione indetta dai sindacati locali per sabato 22 a Latina.
Queste le parole e le azioni delle istituzioni. Azioni che però, fino ad oggi, non sono sembrate così determinate nel combattere fenomeni sistemici come il caporalato e il lavoro nero, che affliggono diverse zone dell’Italia, come l’Agro Pontino.
Messi insieme tutti i tasselli del puzzle, la morte di Satnam Singh appare allora per quella che è davvero: non un caso criminale isolato, un terribile sfortuna o una “leggerezza”, quanto piuttosto l’ennesima vittima di un sistema marcio. Dalle foglie alle radici.
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