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Baby influencer al lavoro: era meglio postare da piccoli
Minorenni eppure vere e proprie star del web, con milioni di follower, che guadagnano grazie alle aziende e ai social media. In assenza di una legge ad hoc, in Italia i baby influencer rischiano di avere un’infanzia e uno sviluppo psicofisico rovinato. Con il placet dei genitori
Hanno tantissimi follower, sanno muoversi davanti a una telecamera – o meglio, fotocamera dello smartphone – e i brand fanno a gara per contenderseli. Sono i baby influencer, bambini e adolescenti, di solito con un’età dai 4 fino ai 13 anni, che guadagnano migliaia – in alcuni casi milioni – di euro a suon di unboxing (spacchettare prodotti ricevuti in regalo per recensirli e pubblicizzarli), balletti, video, fotografie. Contenuti tutt’altro che spontanei e immediati, ma anzi progettati in ogni loro parte – si parla infatti di content creation – che, attraverso social media come YouTube, Instagram e TikTok, attraggono investimenti, in base alle visualizzazioni, da parte delle aziende e delle piattaforme stesse.
Un fenomeno che esiste da anni, ma che nell’ultimo periodo sta destando sempre più preoccupazione. E non solo per la sovraesposizione online dei bambini, ma anche perché quest’attività può essere paragonata, di fatto, a una modalità di lavoro minorile.
Ma è davvero così? E quali sono i rischi che corrono? Che cosa prevede la legge? Cerchiamo di capirlo partendo dall’inquadramento del fenomeno, per poi dare la parola agli esperti.
Social media e minori, un mondo complesso e “ingestibile”
Tratteggiare i confini del mondo dei baby influencer e del loro pubblico in poche righe non è certo facile, anche quando si conoscono i social media da tempo (come chi scrive quest’articolo).
Se da un lato c’è la famosa generazione Z – dei nati tra il 1997 e il 2012 – che usa sempre di più piattaforme come TikTok, Instagram e Twitch, dall’altro la generazione Alpha non è da meno. Sebbene con questa terminologia si indichino i nati tra il 2012 e il 2021, quindi anche bimbi piccolissimi, bisogna pensare che sono molti più attivi di quanto si creda.
A forza di stare sulle piattaforme social, usando il cellulare dei genitori, sono in grado di riconoscere i brand e possono influenzare le loro scelte d’acquisto più di quanto si creda, e non solo per comprare giocattoli e vestiti, ma anche viaggi e spesa alimentare.
È quanto emerge dal report di Morning Consult, da cui viene fuori anche un altro dato: la metà dei bambini fino a nove anni passa quasi due ore davanti allo schermo, che vanno da tre a sei quando l’età supera i dieci. Ma non sono solo fruitori: bambini e adolescenti sono anche soggetti attivi dei social media, nonostante il decreto legislativo 101 del 2018 (che ha recepito il famoso GDPR) preveda che l’età minima per iscriversi sia 14 anni.
Per chi ha un’età inferiore, le porte dei social comunque non sono sbarrate: basta strappare un sì ai genitori.
Chi sono i baby influencer?
“Hanno un’età inferiore ai 12 anni e superiore ai 5 che permette loro di avere un minimo di ‘consapevolezza’ di quanto stanno facendo e di produrre, con l’aiuto di genitori o altri, contenuti che possano essere in qualche modo ingaggianti e incoraggianti”, spiega Raffaella Amoroso, consulente di digital e influencer marketing.
Ci sono due tipi di baby influencer: quelli ospiti del profilo dei genitori, che guadagnano la loro fetta di pubblico e di mercato anche replicando quanto fanno gli influencer adulti, e quelli che hanno dei profili con i loro nomi, gestiti dai genitori o da persone selezionate. A quest’ultima categoria appartengono per esempio i piccoli influencer su YouTube che attraggono i loro pari grazie a contenuti in cui mostrano l’uso dei giocattoli, come per esempio Diana and Roma che lo fanno attraverso la simulazione di scenette. Ci sono poi attori e modelli baby che aprono i loro profili, anche se di fatto fanno altro, e non dobbiamo dimenticare i figli dei personaggi famosi.
Il loro è quindi un vero e proprio lavoro “sia per il tempo che impiegano per produrre contenuti che per gli accordi economici, inclusivi di diritti e doveri, che vengono stipulati tra i genitori e il brand, o tra agenzie e brand”.
Tra escamotage e vendita di contenuto online: è lavoro minorile
A porre l’accento sulle attività produttive online che coinvolgono bambini e minori è anche Save the Children, con la sua indagine sul lavoro minorile dal titolo Non è un gioco. L’analisi punta i riflettori non solo sul fatto che la produzione di materiale è oggetto di pagamento da parte delle piattaforme, con guadagni che “incrementano notevolmente se entrano in gioco sponsor e investimenti pubblicitari”, ma anche su alcune attività di live streaming. In queste vengono raccolte sovvenzioni “sia nella forma di donazioni estemporanee che in quella dell’abbonamento, utilizzando sistemi di pagamento ad hoc (ad esempio i Bit che si scambiano su Instagram o le monete virtuali in uso su TikTok)”.
Un coinvolgimento che avviene spesso tramite escamotage che permettono di aggirare facilmente le policy previste dalle piattaforme per l’utilizzo da parte dei minorenni. Situazioni che si verificano sui social, ma anche nel mondo dei videogiochi, dove “i giovani gamer trovano opportunità di guadagno tramite la vendita o scambio di contenuti online da loro creati e sviluppati”.
“Il web”, si legge ancora nell’indagine “presenta zone grigie in cui il lavoro minorile, l’abuso e la violazione della privacy di bambine, bambini e adolescenti si presentano in modi non canonici, e che è necessario esplorare e controllare in misura crescente. A livello dell’UE si stanno moltiplicando gli sforzi in questo senso, con un codice di condotta in fase di elaborazione, nella consapevolezza delle sfide aperte sia nella dimensione della privacy e del monitoraggio che, in modo più ampio, rispetto alla necessità di rafforzare le competenze digitali di genitori, bambini e adolescenti”.
E qual è dunque il confine tra attività svolte per divertimento e lavoro minorile? Secondo Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, è necessario “fare una distinzione per fasce d’età: quando i bambini sono molto piccoli, non si rendono conto di quello che è di fatto uno sfruttamento da parte dei genitori. Sono loro che ‘usano’ il bambino per aumentare l’esposizione alle conseguenze economiche che questo comporta. Quando hanno già un’età di 13 anni, ma anche qualche anno prima, acquisiscono consapevolezza. A ogni modo, il bambino occupato in queste attività lo è per tante ore, e se questo comporta una remunerazione può essere assimilato al lavoro minorile. Non dobbiamo poi dimenticare che a volte questi bambini vengono impiegati in orari notturni, la sera molto tardi, nel weekend, incidendo sulla loro possibilità di gioco o di svago e compromettendo il diritto all’istruzione. Qualora ci sia l’educazione parentale, non è detto che questa non presenti criticità, come quella legata al fatto di non entrare in contatto con i propri pari”.
Il lavoro minorile in Italia
L’Italia come si disciplina rispetto a tutto questo?
“Un minorenne non può lavorare fino a quando non ha compiuto 16 anni, un’età in cui il nostro sistema normativo regola una serie di diritti: oltre a quello di accedere al mondo del lavoro, quello di sposarsi o riconoscere un figlio”, precisa Garlatti.
“Le uniche eccezioni riguardano il mondo dello spettacolo, in cui la legge del 1967 prevede una regolamentazione che tutela il minore. Perché il minore possa lavorare deve essere chiesta un’autorizzazione preventiva all’Ispettorato Nazionale del Lavoro in cui è previsto il consenso dei genitori. Tale autorizzazione viene concessa se l’attività che il minore svolgerà non pregiudica la sicurezza, lo sviluppo, l’integrità psicofisica, la frequenza scolastica o la partecipazione a corsi di formazione. In merito alla concessione, se sono passati 15 giorni da quando è stata presentata la domanda, si può ritenere approvata: dal 2020 vige infatti il silenzio-assenso. Per i baby influencer una legge in tal senso non c’è”.
La Francia e i baby influencer: orari di lavoro limitati, guadagni congelati e diritto all’oblio
Un problema che non riguarda solo l’Italia, ma un po’ tutti i Paesi europei. E mentre in Italia c’è un vuoto legislativo, la Francia tre anni fa ha deciso di regolare una volta per tutte il lavoro di queste baby star: orari di lavoro limitati e obbligo per i genitori di versare i guadagni dei figli su un conto intestato a loro che possa rimanere congelato fino ai 16 anni. E in più il diritto all’oblio: se un ex baby influencer non si riconosce nei reel, video e stories degli anni prima, può chiedere alle piattaforme la rimozione dei contenuti, e queste sono obbligate a farlo.
Un aspetto non banale visto che, come ricorda Raffaella Amoroso, che è anche ideatrice con Arianna Chieli del podcast Influencer squad. Come l’influencer marketing ha cambiato le nostre vite, “i 15-16enni hanno un’ottima capacità di utilizzo dei social, ma spesso si autoinvestono di responsabilità e di ruoli che non è ancora il caso da avere. Inoltre, possono essere ‘inseguiti’ da screenshot su attività che avevano fatto pochi anni prima, e sono quindi tenuti a prendersi la responsabilità di parole e azioni che risalgono a quando avevano meno consapevolezza”.
“Necessaria una legge ad hoc per evitare lo sfruttamento dell’attività del minore”
La parola ancora all’Autorità garante, che ricorda che quello dei baby influencer “è un fenomeno molto complesso che mette in gioco tanti aspetti e molti diritti del minorenne; per questo è necessario un puntuale intervento normativo che metta dei limiti per garantire ai bambini svago e riposo e possa contenere l’eccessiva esposizione”.
“Inoltre è necessario un controllo sui proventi di questa attività, che altrimenti rischia di diventare sfruttamento dell’attività del minore. Il guadagno non deve essere utilizzato dai genitori, ma restare di pertinenza del bambino/ragazzo che ne disporrà quando non sarà minorenne.”
Tra le proposte del Garante anche quella di aumentare l’accesso ai social a 16 anni, età indicata dal Regolamento europeo. “Possiamo mettere i limiti che vogliamo, ma se poi non abbiamo un controllo effettivo dell’età con mezzi come lo SPID non serve a nulla”, chiosa Carla Garlatti.
I rischi per i baby influencer
Al di là della regolamentazione, quali sono i rischi che i baby influencer possono correre? Lo abbiamo chiesto a Daniele Novara, pedagogista, fondatore e direttore del CPP, Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
“Di per sé il bambino che fa queste cose non presenta disturbi, perché i bambini, com’è noto, si abituano a tutto. I più piccoli potrebbero essere in un certo senso anche contenti di soddisfare le richieste dei genitori, di essere in simbiosi con loro, e in fondo ricordiamo che loro non decidono nulla. Il problema è la conseguenza sul piano della crescita: l’infanzia è un’età irripetibile, non la recuperi.”
“Un bambino che vive un’infanzia totalmente succube dei bisogni dei genitori rischia di perdere tutta l’area dell’autoregolazione infantile con i compagni, l’area del pensiero magico-fantastico che a livello cognitivo permette di avere dei riscontri in età adulta, la sensorialità pura, l’utilizzo delle mani e del gusto. La sensorialità è importante per i bambini. I baby influencer non possono fare attività sportive e così via: fanno una vita da adulti con obiettivi adulti anziché obiettivi bambini. Un bambino di 8 anni non ha capacità di capire i soldi, non ha la consapevolezza di che cosa voglia dire avere 1.000 euro, si trova dentro un contenuto che lo assorbe in modo del tutto avulso dalle sue capacità: non può esercitare il suo essere bambino.”
“Un baby influencer non può pensare a Babbo Natale o alla sua esistenza”, perché, continua Novara “è impegnato a pensare a come presentarsi in modo adeguato e aggiungere like su like. Il bello dell’infanzia è che fai delle cose senza senso, basate sul puro divertimento. L’infanzia è la base della vita; pertanto, se viene minata, c’è il rischio di dover andare in psicoterapia per recuperare”.
Il problema peggiora con l’avanzare dell’età? “Da preadolescente o adolescente ci sono rischi minori, la risposta è assolutamente positiva; anzi, può essere che il ragazzo o ragazza, più consapevole, si rifiuti, o faccia l’influencer con una maggiore sintonizzazione”.
Non bisogna dimenticare il ruolo centrale dei genitori, come precisa Novara: “Con loro si deve lavorare per sensibilizzarli, dare informazioni, creare un alert di attenzione. Tutto questo non è a costo zero: i bambini possono subire dei cortocircuiti che non verranno fuori nell’età infantile, ma in seguito”.
Photo credits: instagram
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