Basta coi nerd al Politecnico di Torino

L’ingegnere di domani neanche ce lo immaginiamo. Guido Saracco è il Rettore del Politecnico di Torino e non ha dubbi in merito, del resto dalla primavera del 2017 il suo mandato si snoda nella trasformazione di un modello formativo. Mutare, convertire, migliorare, ottimizzare, potenziare, rinnovare, riformare, correggere: il dizionario li infila solitamente uno dietro l’altro […]

L’ingegnere di domani neanche ce lo immaginiamo.

Guido Saracco è il Rettore del Politecnico di Torino e non ha dubbi in merito, del resto dalla primavera del 2017 il suo mandato si snoda nella trasformazione di un modello formativo.

Mutare, convertire, migliorare, ottimizzare, potenziare, rinnovare, riformare, correggere: il dizionario li infila solitamente uno dietro l’altro come sinonimi e lui dà l’impressione di conoscere ad una ad una le sfumature di quei verbi e di saperli vivere più che pronunciare e basta come fanno molti suoi colleghi ai vertici.

“L’ingegnere si è fatto sexy”, e lo dice con tale convinzione dal palco del IX Forum “Le Innovazioni necessarie – InTO the Future” alla Centrale della Nuvola Lavazza di Torino che la platea trova finalmente una sponda originale dopo troppi interventi senza nervo né sostanza.

Aggiunge tre frasi – spiegandole – che fotografano l’Italia presente.

“Per fortuna siamo alla fine della specializzazione”, la prima.

“Il nostro Paese non ha bisogno di Academy aziendali che in tre mesi pensano di risolvere problemi, a seguire.

“Dobbiamo passare da Università-fabbrica staccate dalla società a Università vive, reali”, la terza.

Termina un intervento che tocca la mezz’ora e, scusandosi, lascia la Nuvola per impegni.

Ho appena il tempo di anticiparlo all’uscita e scambiare i biglietti da visita mentre camminiamo, poi la stretta di mano per risentirci. Durante le ferie – è il 21 agosto – l’ennesimo titolo pensato male dalla stampa mi riporta da lui per chiedergli un’intervista e provare ad andare oltre il canone sterile del pro e del contro tra umanisti e tecnocrati che non genera mai buone riflessioni utili a fare un passo. L’algoritmo in cattedra. Exploit delle lauree per capire i big data, con intessuta al Rettore di Padova. Scatto una foto all’articolo, gliela mando dal telefono, mi risponde e fissiamo la data a fine mese. Quando ci ritroviamo, riprendo il filo da Torino perché azzardi come quelli lanciati da lui sul palco meritano tutto il tempo.

“Il concetto è che progressivamente l’Università è andata a preparare figure professionali in modo sempre più specialistico, quasi maniacale, rispetto alle classiche figure da ingegnere industriale o ingegnere delle costruzioni come era un tempo. Si è andati a costruire quelle figure sempre più nel dettaglio: dal chimico al nucleare all’ambientale, e tutto di pari passo con la specializzazione della ricerca portata avanti dalle stesse Università. Insomma, siamo andati avanti in modo settoriale facendo sì che i professori diventassero esperti a livello scientifico di discipline molto ristrette e tutto nella convinzione che una competenza verticale fosse essenziale per far progredire lo sviluppo dell’industria, dei prodotti e della vita in genere, cosa che è diventata sempre meno vera. Poi è saltato tutto perché la velocità a cui viviamo ha reso sempre più difficile l’aggiornamento e la rincorsa: quello che oggi emerge con estrema chiarezza è che per sviluppare un prodotto non serve la specializzazione estrema – serve certamente una specializzazione – ma tanta capacità di dialogare con altri specialisti”. 

Chi prova a sgravare il peso degli inglesismi parla ormai di dure e morbide al posto dell’hard&soft, il Rettore è tra questi.

“Competenze dure e morbide spaccate in due sono il binario su cui si disperdono i tanti dibattiti sui mestieri del domani e di rado si auspica l’intreccio o se ne capisce il valore. Tutte noi Università abbiamo una responsabilità enorme in questo senso, dobbiamo spiegare ai giovani l’importanza di sviluppare prima possibile l’attitudine al lavoro di gruppo non solo tra studenti ma insieme a professionisti diversi da loro; sennò dovranno farlo poi nel tempo e da soli. Qui ad Ingegneria laureiamo in media a sette anni dall’immatricolazione e se le persone impiegano ancora un paio di anni per ottenere maggiori conoscenze nel campo normativo o delle dinamiche di gruppo o nell’economia vuol dire che l’arco temporale della formazione si fa davvero troppo lungo, non solo come tempo ma anche come risorse spese”. 

Nei vari Atenei, da nord a sud, aumentano i corsi universitari dall’approccio pratico che coinvolgono gli studenti in progetti di team commissionati dalle aziende in cerca di risposte e soluzioni. Ma qualcuno poi li paga questi studenti che grazie all’intuito e alla ricerca sbloccano l’inerzia delle imprese? Altrimenti finiamo per fare tanta polvere intorno allo scivolone di Carpisa e del suo “Compra una borsa e vinci uno stage” – che alla fine si scoprì essere la richiesta di elaborare un piano di comunicazione per un prodotto vero e proprio da lanciare, a fronte di un’indennità di 500 euro – e non mettiamo il naso negli ingranaggi di chi forma i professionisti di domani ogni volta che li coinvolgono in contest ad elevato abbattimento dei costi interni per le aziende, alta resa economica e freschezza di idee. “Certo che c’è uno scambio economico ma ovviamente tra aziende ed Ateneo, gli studenti non possono essere pagati ma ne beneficiano indirettamente. Aggiungo anche che se la ricerca diventa più applicata e meno specialistica si ha il vantaggio di poter produrre brevetti e scoperte più direttamente applicabili: la direzione che stanno prendendo le Università è questa, compreso il nostro Politecnico”. Il lato buono sta anche nelle sfide in cui studenti provenienti da percorsi diversi si misurano per uscire dalla loro iniziale convinzione: niente, quanto il dubbio, fa così bene alla crescita.

Avere idee certe a vent’anni è un rischio troppo alto. “Lo penso anch’io, soprattutto sulle scienze nuove dell’umanità, complementari a quelle delle scienze dure che certamente restano l’impalcatura del nostro percorso al Politecnico. Voglio spingere sempre più per poter sviluppare nei ragazzi un senso critico e fare in modo che valorizzino la comunicazione. Insomma vorrei che l’ingegnere passasse da nerd a creativo, da esperto a persona a tutto tondo”.

Non può aver trovato la strada liscia nemmeno lui dentro i rovi delle università italiane anche se parla come se fosse già tutto in atto. Sposto la domanda sulle resistenze e, facendo un parallelo tra la figura di un Rettore e quella di un Presidente della Repubblica, gli chiedo se si sente più alla francese o all’Italiana, se è un esecutivo oltre che un simbolo, se ha le mani libere o meno quando si spengono i microfoni delle interviste, se oltre che idee lucide ha anche la strada libera. “Il nostro è un mondo chiuso, lo sappiamo bene, ma passi avanti si possono fare. Io ho ottenuto un mandato di grande fiducia, di resistenze ne ho anch’io ma sto facendo di tutto per questo schema di rivoluzione che un’Università rigorosa come Torino, di alta reputazione per 160 anni ma rimasta uguale a se stessa, deve per forza abbracciare se vuole cambiare rotta. Anche perché è questo che chiede oggi il mondo del lavoro e questo dobbiamo eticamente continuare a fare essendo una realtà pubblica che deve dare un senso e un valore all’investimento che lo Stato ci riconosce”.  

Nella formazione degli ingegneri al Politecnico di Torino diminuiranno i contenuti e aumenteranno le relazioni. Parola di Rettore, con lode.

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