Carlo Petrini, presidente Slow Food: “Dietro il Ministero per la Transizione ecologica c’è il nulla”

Il fondatore di Slow Food, in un’intervista esclusiva a SenzaFiltro, commenta lo stato dell’arte di sostenibilità e ambiente in Italia: l’unico cambiamento possibile è quello che avviene dal basso, tra gli interpreti individuali dei territori.

“Si parla tanto del Ministero della Transizione ecologica, affidato a un ministro-tecnico. Per ora è soltanto un nome nuovo, scelto per far credere che sapremo spendere i fondi europei destinati alla ripresa dopo la pandemia. Purtroppo dietro, a livello politico, c’è il nulla: mancano del tutto un pensiero, un’elaborazione, qualcosa che vada al di là dell’aria fritta”.

Non usa mezzi termini il presidente internazionale e fondatore di Slow Food, Carlo Petrini, mentre con SenzaFiltro discute del presente e del futuro, dopo più di un anno di emergenza sanitaria mondiale.

Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images for Slow Food Terra Madre

Carlo Petrini, Slow Food: “Con il nuovo ministero la politica vuole apparire credibile per accedere alle risorse europee”

Langarolo doc, nato a Bra (Cuneo) nel 1949, detto Carlin, Petrini oggi è tra le personalità più influenti a livello globale, tanto che già nel 2008 è stato l’unico italiano inserito dal quotidiano inglese The Guardian tra le cinquanta persone che “potrebbero salvare il pianeta”. Con lui si confrontano e dialogano molti potenti della Terra. Parla anche con papa Francesco, che lo ha definito un “agnostico pio”, perché è mosso da “un atteggiamento nobile”, quello della “pietà per la natura”.

Oggi Slow Food, nata nel 1986 come ArciGola (in seno all’associazionismo di sinistra), è divenuta internazionale nel 1989 e ha radici in 160 Paesi (con oltre 1 milione di attivisti, di cui 24.000 soci in Italia). Da allora il suo cuore batte a Bra, dove è stata tenuta a battesimo. È sempre in prima linea: nella difesa del cibo “buono, pulito e giusto” (slogan che ne riassume la visione del mondo) e della biodiversità; nel rispetto di chi produce in armonia con l’ambiente e gli ecosistemi.

Presidente, più di un anno dopo l’inizio della pandemia in Italia, come vede la situazione delle aziende, dei contadini, delle osterie che seguono il modello di Slow Food?

È stata ed è una botta enorme. A livello economico siamo agli sgoccioli. La vendita diretta – nei mercati e non solo – era un punto di forza per produttori, contadini, trasformatori. Ma è tutto fermo da fine febbraio 2020 e non credo che vogliano farli ripartire prima di un mese e mezzo. La pandemia ha emarginato particolarmente i sistemi locali di produzione del cibo. Pure la ristorazione e l’alberghiero, cardini di tutto il settore turistico, hanno subito una profondissima ferita. Vedo, nel settore, gente che campa alla giornata, che dà fondo a tutte le risorse. Spesso le saracinesche rischiano di rimanere abbassate. Per giunta, anche chiudere costa ed è difficile sostenere persino questa spesa.

Ne ha tratto vantaggio la grande distribuzione?

La maggior parte dei cittadini ha aumentato il consumo di cibo industriale e a lunga conservazione. La grande distribuzione italiana ha avuto un incremento degli affari del 3-4%. Il botto vero lo ha fatto Amazon, che ha toccato un +20%; infatti la pandemia ha spinto verso un aumento degli acquisti online e, quindi, degli imballaggi, plastica monouso inclusa.

Meno di un anno fa, nel pieno della prima ondata pandemica, l’Alleanza Slow Food dei cuochi aveva lanciato un appello al governo e alle regioni per il sostegno alla ristorazione di qualità e ai produttori che la riforniscono. Qualcuno ha mai risposto?

Ovviamente, no. Chiedevano di sostenere gli acquisti di prodotti agricoli e di artigianato alimentare di piccola scala, legati a filiere locali. La parte migliore dell’agricoltura italiana dipende moltissimo dalla ristorazione di qualità.

Però, grazie alle vaccinazioni, sembra che presto potrà esserci una ripresa…

Certo. Sarà una prima boccata di ossigeno. Il problema però è un altro, di fondo.

Qual è?

Se manca una visione d’insieme, è difficile ricostruire. Eppure occorre fare le scelte adesso, mica tra dieci anni, se vogliamo che l’emergenza sanitaria diventi un’occasione di rinascita.

Nel senso che è un’opportunità?

Ci offre l’opportunità per pensare sul serio a un altro modello di sviluppo. Quello adottato finora ci ha trascinati nella gigantesca crisi – climatica, sanitaria e non solo – che stiamo vivendo. Semmai, sarebbe drammatico se la pandemia diventasse l’alibi per portare ancora avanti, in nome della ripresa, politiche sciagurate: quelle che negli ultimi cinque o sei decenni hanno devastato il pianeta. Non è possibile che la parola d’ordine, anche in Italia, sia solo il cosiddetto “ritorno alla normalità”. Non può essere questa la speranza. Come se quella normalità non c’entrasse niente con ciò che sta succedendo.

Proprio per pensare a un nuovo modello di sviluppo in Italia è nato, col Governo Draghi, il Ministero della Transizione ecologica. Non è un buon segno?

Bah. Da qualche settimana, a certi livelli, si fa un gran parlare di questo nuovo ministero, che sarebbe quello dell’Ambiente con un nome diverso e un tecnico come ministro (il fisico Roberto Cingolani, N.d.R.). Sa cosa penso?

Che cosa pensa?

Proviamo a chiedere per strada, a dieci italiani, se sono a conoscenza di ciò che fa quel ministero. Secondo me, non lo sanno. Forse manco sanno che esiste. Mi dicono però che il ministro sia una brava persona. Ci credo. Certo, a volte rimango un po’ perplesso…

Perché?

Perché il ministro è stato sentito affermare che, per arrivare alla transizione, la cosa più sostenibile sia il gas; ha anche detto che bisogna mangiare la carne artificiale, fatta in vitro, per diminuire il consumo di proteine animali. Vabbè. Sono le idee di un tecnico, collocato lì senza che dietro ci sia niente a livello politico: c’è il nulla; mancano un pensiero, un’elaborazione, qualcosa che vada al di là delle frasi fatte. Di certo, non basta il cambiamento del nome di un ministero.

Insomma, quel ministero le pare insufficiente?

Diciamo che, inventandosi un nuovo nome, il mondo politico vorrebbe mettersi in pace la coscienza. Vorrebbe anche apparire credibile per accedere alle risorse europee, visto che il piano Next Generation cita proprio la necessità della transizione ecologica. Si cerca di far credere che l’Italia saprà spendere quei fondi, destinati alla ripresa dopo la pandemia. D’altra parte persino le multinazionali stanno recitando la stessa parte.

In che senso?

Per esempio, se si guarda la pubblicità di Amazon in questi ultimi tempi, sembra che sia la punta di diamante della sostenibilità. Ma va’ là… insomma, per ora si sta parlando solo di aria fritta. Serve ben altro.

Che cosa serve?

Anche in Italia, per realizzare la transizione ecologica, occorre una mobilitazione politica, culturale, empatica. Decine di milioni di persone devono cambiare stile di vita. Si deve conciliare la ripresa con le buone pratiche di una società che si trasforma.

Eppure lo slogan che va per la maggiore è “ne usciremo migliori di prima”.

Ne usciremo meglio di prima? È una balla galattica, senza una mobilitazione politica e culturale. D’altra parte nel nostro Paese su questi temi i partiti di sinistra non sono aggiornati, tentennano, non hanno argomenti forti. Il Movimento 5 Stelle sembrava avere argomenti, ma una volta arrivato al governo non ha saputo interpretarli. I Verdi di fatto in Italia non esistono. Per non parlare degli altri. Ho poca fiducia nella politica di questi partiti, se l’obiettivo è quello di giungere a un vero cambiamento. Occorre avviare una mobilitazione in modo capillare.

Sembra piuttosto pessimista. O è solo un’impressione?

Pessimista? Io? No, tutt’altro. La mia presa di posizione vuole essere una provocazione, un incitamento alla mobilitazione. Perché vanno ridisegnate le politiche agroalimentari, quelle ambientali, le attività industriali e artigianali di trasformazione, la piccola e grande distribuzione, il turismo, l’educazione alimentare, la salute e tanto altro.

Certo. Ma chi dovrebbe provvedere alla mobilitazione, se lei dice che i partiti per ora non sono all’altezza della situazione?

Io penso che si debba iniziare dal basso per arrivare in alto. Dai movimenti, incluso il nostro. E poi dai comuni, da sindaci, dalle amministrazioni locali. Ecco, credo molto nel ruolo dei sindaci come interpreti del loro territorio, della loro gente e delle esigenze reali. Insomma, viva la politica a livello locale.

Anche Slow Food uscirà cambiato da questa tremenda esperienza?

Noi siamo in tutto il mondo, anche in aree dimenticate, con una situazione disperata, cui nessuno sembra fare caso. Intanto, mentre stiamo chiacchierando, le multinazionali stanno ragionando, e investendo, sul metodo tecnologico per risolvere, si fa per dire…, i problemi causati dall’impatto sull’ambiente dei loro allevamenti e delle loro colture intensive. Come? Spendono milioni negli investimenti sulla carne in vitro, sull’agricoltura cellulare. Vogliono produrre alimenti che non hanno bisogno di terra, né di allevatori, né di agricoltori. Con tanti saluti al cibo come espressione della collettività, della cultura, della diversità biologica, del territorio, della storia. Per Slow Food, dunque, il punto centrale è la difesa della biodiversità.

Come coinvolgere cittadini, istituzioni e Stati?

Per noi è importante promuovere un ragionamento – a livello locale e internazionale – su tematiche che tocchino il cambiamento del modello di sviluppo. Inoltre dobbiamo essere in grado di far comprendere facilmente quale nesso ci sia tra sostenibilità, biodiversità e cibo. Questo è il dovere di Slow Food. Altrimenti che cavolo ci stiamo a fare?

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