Che pelle ha la disoccupazione?

«Aumentano le imprese condotte da stranieri in maniera rilevante: erano 436.894 nel 2016 (il 13,9% sul totale dei titolari d’impresa) e negli ultimi tre anni sono cresciute dell’11,9%». A confermare questa straordinaria ricchezza italiana sono i dati del Censis, pubblicati nel Rapporto L’inarrestabile proliferazione dei soggetti nel sistema italiano. Il contenuto del documento delinea un’analisi […]

«Aumentano le imprese condotte da stranieri in maniera rilevante: erano 436.894 nel 2016 (il 13,9% sul totale dei titolari d’impresa) e negli ultimi tre anni sono cresciute dell’11,9%». A confermare questa straordinaria ricchezza italiana sono i dati del Censis, pubblicati nel Rapporto L’inarrestabile proliferazione dei soggetti nel sistema italiano. Il contenuto del documento delinea un’analisi economica e sociologica sul processo di rinnovamento conseguente al cambio di paradigma sociale del XXI secolo.

Il mondo del lavoro subisce una profonda trasformazione mentre arrivano le nuove figure professionali, da valorizzare adeguatamente. Tra questi profili spiccano gli stranieri perché è cambiato il contesto sociale internazionale. Il dibattito sociale ed economico sull’immigrazione non analizza accuratamente il valore aggiunto delle nuove professionalità; possono arricchire il mondo del lavoro portando altre filosofie, che devono integrarsi con il paradigma economico italiano. È una sfida da vincere per evitare di dissipare un patrimonio culturale prezioso, il quale proviene proprio dalle differenti preparazioni delle persone vissute in altri Paesi.

Fabio Ranchetti: “Gli stranieri, un valore aggiunto per il lavoro”

«Il lavoro degli immigrati – commenta Fabio Ranchetti, docente di Economia Politica alla Cattolica di Milano e di Economic Geography presso la Statale di Milano – in un paese come l’Italia, secondo gli studi più seri (anche econometrici), è qualcosa che apporta un valore aggiunto. Su questo non ho nulla da dire perché è un argomento molto studiato. Culturalmente, però, siamo molto indietro per diversi motivi.»

«Il primo motivo deriva dal non aver ridefinito il lavoro secondo le nuove forme che l’attività umana ha sviluppato oggi. Il secondo motivo riguarda il fatto che molti continuano, in un ritardo appunto culturale, a considerare gli immigrati come qualcosa di dannoso anche dal punto di vista economico: “portano via il lavoro agli italiani”. Ed è lo stesso ritardo culturale che si manifesta nei riguardi degli anziani: “portano via il lavoro ai giovani”. Purtroppo, con questo approccio culturale, si genera un preoccupante conflitto generazionale (la mia collega economista Alessandra Del Boca ha recentemente pubblicato il libro L’inganno generazionale in cui, teoria e dati alla mano, confuta queste tesi).»

«L’affermazione di Branko Milanovic è chiara: “quando si parla di lavoro e migrazioni, manca una governance globale di qualsiasi tipo”. Milanovic, del quale condivido il pensiero, suggerisce due cambiamenti essenziali per poter governare almeno parzialmente la grave situazione che si è venuta determinando: una ridefinizione di che cosa sia la cittadinanza e un multilateralismo che coinvolga i paesi di origine e quelli di arrivo dei migranti. Comunque, anche se si realizzassero politiche di questo tipo, rimarrebbe il fondamentale problema dello sviluppo/crescita delle nazioni più povere, da cui origina fondamentalmente il problema attuale delle migrazioni; ma nella storia è sempre stato così.»

Ranchetti conclude: «Personalmente non vedo, a differenza di quanto si legge e si afferma di solito, una contrapposizione o un’identificazione tra globalizzazione e cosmopolitismo. Mi spiego. La globalizzazione tende a nascondere le differenze tra gli individui pur provocando grandissime e riconosciute disuguaglianze, soprattutto economiche e sociali; il cosmopolitismo viene considerato come un’ideologia che afferma l’uguaglianza di tutti e l’abolizione di ogni barriera geografica, culturale ed economica. Penso, invece, che si debba iniziare a “disvelare le differenze” e a sfruttarle positivamente».

Le attività dei lavoratori stranieri

Gli impieghi dei lavoratori stranieri sono i più variegati e devono fare i conti con le esigenze delle aziende. La forza contrattuale di questo popolo dei lavoratori è nel loro spirito di adattamento, per cui accettano mansioni e ruoli che ormai gli italiani rifiutano costantemente.

«Sono diversi i mestieri dove trovano un impiego i lavoratori stranieri», spiega Marco Zamarchi, direttore della cooperativa sociale Il Villaggio Globale di Venezia. «Dal nostro piccolo osservatorio registriamo un discreto numero di lavoratori occupati nel settore del turismo, ricoprendo soprattutto i ruoli di cuoco e di cameriere. L’agricoltura è un settore che impiega molti lavoratori stranieri. A seconda dell’etnia c’è anche da segnalare una preferenza rispetto ad alcuni lavori. Gli africani, per esempio, scelgono di guidare i camion. È importante sottolineare un buon 5% di presone impiegate nel settore della meccanica. Invece, non c’è molta richiesta di lavoratori stranieri per i lavori da svolgere all’interno degli aeroporti».

L’argomento dei lavoratori stranieri diventa spesso uno spiacevole scontro nel dibattito politico; sarebbe opportuno esaminare la risorsa lavoro senza strumentalizzare il fenomeno sociale. È senza dubbio un dato interessante su cui riflettere per comprendere l’importanza di questi professionisti che arricchiscono il mercato del lavoro italiano. I mestieri sono diversificati ed è necessario comprendere il tipo di impiego maggiormente richiesto per inserire i lavoratori stranieri nei contesti produttivi più adeguati.

Chiara Tronchin: “Gli stranieri non mettono a rischio l’occupazione degli italiani”

«Negli ultimi anni – commenta Chiara Tronchin, ricercatrice della Fondazione Leone Moressa – il peso dell’occupazione straniera nel nostro paese è continuato a crescere. Dal 2008 al 2017 la presenza straniera nel mercato del lavoro nazionale si è fatta sempre più evidente: da 1,7 milioni di occupati di nazionalità straniera si è passati a 2,4 milioni. Di conseguenza, nel medesimo periodo, il peso della componente straniera sul totale degli occupati è passato dal 7,3% al 10,5%».

«Uno degli slogan più diffusi nel dibattito pubblico sull’immigrazione è “gli stranieri ci rubano il lavoro”, nato dalla semplice constatazione che in Italia vi sono complessivamente 2,5 milioni di disoccupati italiani e 2,4 milioni di occupati stranieri. Tuttavia, pur assecondando l’ipotesi (puramente teorica, giacché stiamo parlando di persone regolarmente residenti nel nostro paese) di mandare via tutti gli occupati stranieri, non risolveremmo il problema della disoccupazione italiana, in quanto il mercato del lavoro degli stranieri e quello degli italiani sono nettamente separati (e, in molti casi, complementari).»

«Gli stranieri sono occupati prevalentemente in lavori dalla media e bassa qualifica. In particolare, oltre un terzo degli immigrati (35,6%) è occupato in professioni non qualificate (a ulteriore conferma, su 100 occupati con queste caratteristiche 34 sono stranieri). Il 29,3% degli stranieri ricopre funzioni da operaio specializzato e solo il 6,7% è un professionista qualificato. »

«Se si considerano le singole professionalità, possiamo analizzare quali sono i lavori con una maggiore specializzazione “straniera”: ci sono molte professioni che superano di gran lunga il 10% dell’incidenza dell’occupazione totale. Il 74% degli occupati nel personale non qualificato addetto ai servizi domestici (collaboratore domestico) è straniero, così come il 56% delle professioni qualificate nei servizi personali (badante). Anche tra i venditori ambulanti gli stranieri sono superiori agli italiani, mentre il peso sta diventando sempre maggiore nel personale non qualificato dell’agricoltura (pescatori, pastori, braccianti), nelle costruzioni (come manovali nell’edilizia civile), nei servizi (addetti nella pulizia negli esercizi alberghieri, uffici). Del tutto esclusi o quasi gli stranieri in professioni più qualificate, come i professori, gli specialisti nelle scienze giuridiche, gli ingegneri oppure i bancari. La ragione non è tanto che gli italiani “non vogliono più fare” certi lavori, quanto invece che si sono spostati verso professioni più qualificate, liberando le fasce produttive più basse che sono state in parte occupate dagli stranieri».

Questa tendenza si rafforza quotidianamente, costringendo a rivedere drasticamente il modello occupazionale del XX secolo. La nuova frontiera del lavoro sancisce i cambiamenti sociali vissuti dall’Italia in questo periodo storico.

 

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