Classi sociali o classi social?

La sociolinguista Vera Gheno racconta la sua esperienza a Nobìlita, con il panel “Classi sociali o classi social?”, visto dall’altra parte del palco.

Classi sociali o classi social? è il titolo del panel a cui abbiamo partecipato Bruno Mastroianni e io, in compagnia di Alfonso Giordano e Massimo Guastini, sotto la moderazione di Stefania Zolotti “pugno-di-ferro-in-guanto-di-velluto”. Un filosofo-giornalista-social media manager e una sociolinguista in compagnia di un demografo statistico e un copywriter: che cosa avremo mai avuto da dirci? Io e Bruno ne facciamo tante di conferenze, lezioni, workshop, tavole rotonde e tutta quella miriade di forme di condivisione e discussione del sapere che possono capitare; non è raro, peraltro, trovarci a parlare con persone con le quali non era mai capitato di incontrarsi dal vivo. Questo è stato uno di quei casi: conoscevamo Giordano e Guastini di fama, ma mai era capitato di incrociarli di persona. Stefania si è quindi trovata a gestire una strana interazione, che, ovviamente, poteva andare molto bene o molto male.

L’abbraccio di Nobìlita

Prima di parlare dell’esperienza in sé, vorrei descrivere le sensazioni regalatemi dall’arrivo a Nobìlita: intanto, immaginatevi l’impatto della struttura, luminosa, poderosa, in equilibrio tra passato e presente, tra pietra e vetro: l’Opificio Golinelli di Bologna. Ancor più dell’edificio, sono rimasta colpita dalle persone al suo interno; come in una sorta di operoso formicaio, ogni angolo era percorso da volontari, speaker, professionisti, studenti, curiosi, tutti sorridenti, affaccendati, in costante movimento, intenti a discutere in crocicchi disseminati nei quattro angoli dell’Opificio.

Al nostro arrivo siamo stati accolti da abbracci e strette di mano – e da
sospiri di sollievo: ormai siamo cintura nera di
arrivo-alle-conferenze-appena-in-tempo (ma non è spocchia, è che facciamo una
vita un po’ agitata, ultimamente!). Ci
siamo sentiti subito
nobilitati”,
benevolmente assimilati dalla famiglia di Nobìlita: è bastato appenderci il
badge al collo (per chi non lo sapesse, io li colleziono e poi li appendo sull’albero
di Natale: ognuno ha le sue perversioni).

Prima di salire sul palco, a causa dei nostri orari rocamboleschi, c’è stato solo il tempo di una stretta di mano tra i quattro relatori e di due parole con Stefania, resa ancora più bella da un sorriso contagioso.

In quei pochi minuti ho avuto modo di farmi solamente una prima impressione dei due personaggi con cui avremmo dovuto condividere il palco. Da una parte Alfonso Giordano, vestito, sì, “da prof”, come si addice a un docente in forza alla LUISS (Geografia Politica, mica noccioline!), ma con un particolare insolito: mi ha dato l’impressione di essere uno che fino al momento prima era stato impegnato in un incontro di arti marziali, e solo dopo aveva indossato giacca e cravatta. Dall’altra parte Massimo Guastini, lungo, dinoccolato e scapigliato come si addice a un pubblicitario, ma con un modo di muoversi serafico che mi ha fatto pensare a una certa propensione per qualche disciplina meditativa (non a caso, durante il panel ho scoperto che è maestro di yoga: bingo!). Bruno non lo devo certo descrivere: filosofo, social media manager, docente, giornalista e mio “sparring partner” nelle nostre scorribande ai confini della comunicazione, occhi bonari che, quando vogliono, ti inchiodano come un insetto trafitto da uno spillone. Insomma, tre soggetti da sorvegliare strettamente con cui salire sul palco e io, unica donna, in preda a una fortissima sindrome dell’impostore.

È con questa lieve sensazione di disagio, un misto di tensione e aspettativa, che sono salita sul palco, tra l’altro nel panel finale di Nobìlita, sabato pomeriggio, alle quattro e mezza (e con chiusura prevista alle sei!), appena dopo il JobX di enorme successo di Yvan Sagnet dedicato alla questione del caporalato, che aveva fatto lacrimare di commozione e scattare in piedi l’uditorio per una standing ovation durata diversi minuti. Gli ingredienti per il proverbiale epic fail, insomma, c’erano tutti: il rischio di una platea ormai (giustamente) stanca e anche emotivamente scarica, magari sul punto di andarsene, la necessità di intelaiare un discorso sensato tra quattro persone non abituate a parlare assieme…

Un panel di Nobìlita, dall’altra parte del palco

Dopo averci fatto accomodare, Stefania ha mirabilmente rotto il ghiaccio con
una domanda che ci ha permesso di prendere confidenza gli uni con gli altri e
con il pubblico, che, peraltro,
mentre abbiamo iniziato a parlare, si è nuovamente seduto per ascoltare. Questa
è stata la prima soddisfazione: non sono scappati appena abbiamo aperto bocca!
E dopo il primo turno di interventi, che Stefania è riuscita a collegare tra
loro pur partendo ognuno di noi da posizioni non dico antitetiche, ma almeno in
apparenza lontane, è successa la magia:
non so esprimerlo altrimenti, se non dicendo che è iniziata a fluire una strana
energia; l’energia di quattro persone stimolate a parlare di ciò che conoscono
e in cui credono – tanto per scomodare alcune delle massime di Grice – in
maniera chiara e non in gara, come talvolta succede, ma cooperando verso un
fine comune, ovvero dare davvero qualcosa ai presenti, tutti insieme. Dovendo descrivere la
sensazione, per come la sentivamo dal palco, direi che è come se avessimo
“beccato” una lunghezza d’onda comune fino a entrare reciprocamente in
risonanza: ogni cosa che uno di noi diceva veniva intrecciata al discorso
portato avanti dagli altri, rafforzandosi ulteriormente proprio grazie a tale
intreccio. È stata una sensazione molto potente, e che non si avverte spesso, o
per lo meno non con questa forza.

E di cosa abbiamo parlato? Di classi
sociali
e di classi social,
ovviamente. Di correlazioni tra classe media, cultura e linguaggio nella
storia, di falsi miti riguardanti i social network, di cambiamenti nel modo di
fare pubblicità nel corso del tempo e dell’eternità della retorica, sempre
valida, ma anche di statistica e delle conseguenze di un Paese vecchio (come
età media degli abitanti), di struzzi visionari (!), di disputa felice (cioè della possibilità di dissentire
senza litigare) e di bisogno di autoironia, i cavalli di battaglia di Bruno, di
effetto-tinello (una delle mie
fissazioni: persone che comunicano sui social come se fossero nel salotto di
casa loro), di giovani preziosi da ricercare come pepite d’oro, i cui bisogni
cognitivi vanno intercettati da docenti e adulti volenterosi.

Ho scorso, qualche giorno più tardi, le
conversazioni social riguardanti il nostro panel
: decine e decine di post,
commenti, tweet sui vari canali, che tra l’altro sintetizzavano con grande
chiarezza il succo di questo o di quell’intervento. Messaggi di chi stava
curando le dirette social del panel, certo, ma anche di persone che ci stavano
semplicemente ascoltando, che hanno ritenuto rilevante ricondividere le nostre
parole con gli altri. È stato un piacere rivedere ciò che avevamo detto,
ritrovarsi in quelle parole, notare come l’uditorio si fosse appropriato dei
nostri pensieri, trasformandoli e portandoli fuori dal salone dell’Opificio
Golinelli e in giro per la rete.

E forse non è tanto il cosa che
ha, secondo me e con mia grande sorpresa, incollato i presenti alle poltrone,
ma il come: il destino, con lo zampino
degli organizzatori di Nobìlita, ha fatto incrociare quattro persone che amano
ciò che fanno, amano parlarne, amano condividere le loro convinzioni e i loro
punti di vista e amano pure il contraddittorio. Noi abbiamo sentito questa
piccola esplosione nucleare sul palco, e forse proprio per questo abbiamo
trasmesso qualcosa di inatteso e di imprevedibile a chi ci ha ascoltato.

È stato bello? Sì. È stato potente? Anche. Me lo ricorderò a lungo? Certamente. Quindi che fare? Posso chiudere con un grazie: ad Alfonso, Massimo e Bruno; a Stefania che ci ha guidati saldamente, con leggerezza e maestria; a Osvaldo, anima di Nobìlita, e a tutti gli altri che hanno lavorato alla realizzazione di questo coacervo di professionisti un po’ svitati, desiderosi di cambiare il mondo del lavoro (e non solo). Alla prossima edizione!

Photo credits: Andrea Verzola

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