Come ti firmo la città

Il Rinascimento ci ha abituato a modelli progettuali di città ispirati a visioni ideali. Da Platone in poi nessuno si è sottratto alla riflessione sull’anima della città, sul suo rapporto con il territorio e con il potere che la governa e la plasma. Lo stesso Leonardo da Vinci, dopo che la peste aveva ucciso migliaia […]

Il Rinascimento ci ha abituato a modelli progettuali di città ispirati a visioni ideali. Da Platone in poi nessuno si è sottratto alla riflessione sull’anima della città, sul suo rapporto con il territorio e con il potere che la governa e la plasma. Lo stesso Leonardo da Vinci, dopo che la peste aveva ucciso migliaia di persone a Milano, aveva elaborato, in linea con i tempi, un suo prototipo ideale: una città salubre e spaziosa, morfologicamente distante dalle vie tortuose e dalle case buie del Medioevo.

Leonardo fu il primo a connettere i concetti di bellezza e di funzionalità. Potremmo provare a definire bello ciò che è buono e soddisfa esigenze, e brutto il suo contrario; nel nostro caso, adoperando la definizione dell’urbanista Giuseppe Campos Venuti, “il fatto che la città non eserciti più oggi in Italia il ruolo per cui è nata millenni fa: un luogo in cui gli uomini potessero raccogliersi per soddisfare le proprie necessità, creando assistenza reciproca e servizi comuni”.

L’avvento delle archistar

Negli ultimi decenni la mancanza di una visione integrata e di una strategia politica condivisa, che coniughi insieme estetica e funzione, ha fatto emergere il protagonismo esasperato delle archistar: architetti famosi a livello internazionale, chiamati a lasciare segni indelebili nel tessuto cittadino con i loro progetti griffati. Segni che, a onor del vero, rischiamo di vedere simili in più angoli del pianeta, a prescindere dal clima e dalla storia del luogo. Il nome dell’archistar diventa un vero e proprio brand.

Ma abbiamo davvero bisogno di città firmate? Fausto Gallucci e Paolo Poponessi parlano di marketing dei luoghi, e di “architettura come spettacolo per trasformare le città in prodotti e i visitatori in consumatori”. Negli anni Ottanta l’urbanistica è diventata una disciplina così burocratizzata e ideologicamente complessa da essere accantonata a favore dell’architettura. Cioè a favore del progetto architettonico, presentato come deus ex machina per tamponare la crisi del disegno dell’ambiente urbano.

La polemica del progetto contro il piano regolatore maschera spesso mere operazioni immobiliari. L’urbanista Italo Insolera nel 2010 ha dichiarato: “L’urbanistica? È ormai figlia dell’architettura. E l’architettura ridotta a pura forma assorbe tutto il dibattito culturale. Tutto lo spazio dell’informazione. Diventa il paradiso delle archistar. Si bada più al singolo progetto che non al disegno complessivo. Più al singolo manufatto che non alla città. Più all’individuo che non al collettivo”.

I mass media preferiscono l’affascinante archistar al grigio pianificatore, di solito un consulente che opera all’interno di un’organizzazione pubblica in cui la politica gioca un ruolo determinante. La legge urbanistica del 1942, che è rimasta per molto tempo la normativa fondamentale di riferimento, ha visto l’istituzionalizzazione dell’uso delle varianti ai piani comunali. Esse permettono singole trasformazioni del territorio in deroga alla visione generale, e nascondono a volte incrementi della cubatura o cambi di destinazione a favore della proprietà. Le inchieste di Mani Pulite degli anni Novanta relative a opere pubbliche e appalti indicano un cambio di rotta, ma le varianti, stranamente, non vi sono coinvolte.

Progetti incompiuti e utopie stravolte

Archistar, dunque, danno o benedizione? Secondo Campos Venuti “gli architetti hanno dato spesso contributi più o meno consapevolmente negativi, ma non possono essere considerati capri espiatori. Archistar non è certo un complimento, ma è la società che vuole essere star e non ha la forza né la capacità di esserlo”.

In realtà anche i progettisti più famosi non vedono quasi mai realizzate come vorrebbero le loro idee perché, finita la fase ideativa, la gestione passa a qualcun altro. Si pensi al progetto di Città dello sport di Tor Vergata, elaborato da Santiago Calatrava per i campionati mondiali di nuoto del 2009: iconica la copertura dello stadio con l’intelaiatura rappresentante una vela a pinna di squalo, visibile da lontano. La costruzione inizia nel 2005, ma nel 2009, nonostante si sia già speso il quadruplo di quanto preventivato, il cantiere si blocca per mancanza di soldi e si decide che i campionati si svolgano al “vecchio” Foro Italico.

Sempre a Roma, periferia sud, si staglia il Corviale, progettato da Mario Fiorentino; un edificio lungo un chilometro per 1.200 case popolari. Il “Serpentone” del film Scusate se esisto ha una storia tutt’altro che risolta. I due corpi di fabbrica ispirati alle Unités d’Habitation di Le Corbusier implementano un’utopia per cui la società italiana non è pronta. Non terminato, ma abitato dal 1982, è sottoposto a manutenzioni continue perché più volte occupato abusivamente.

Stesso senso di estraniamento a Palermo, nel Quartiere Zen pensato per 16.000 persone da Vittorio Gregotti. Cominciato nel 1969, non ha mai visto ultimate le opere di urbanizzazione essenziali, e si presenta ancora oggi come un pezzo di super-città non integrato con il resto. Gregotti ha creato un tessuto urbano sovradimensionato sia per qualità che per complessità.

Il caso della vecchia Fiera di Milano, sfociato nel progetto CityLife che doveva essere terminato per l’Expo 2015, è la dimostrazione di come le archistar siano solo strumenti. La fiera non viene decentrata finché il valore dell’area non diventa così importante da rendere appetibile il suo trasloco. Il progetto di Renzo Piano è accantonato a favore della proposta firmata dal trio Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Zaha Hadid. Un layout architettonico che all’inizio suscita perfino ironia per la morfologia di uno dei tre grattacieli: “il dritto” (50 piani di uffici per 207 metri di altezza), “lo storto” e “il curvo”. Concepito come una delle più grandi aree pedonali d’Europa, il progetto attira critiche in quanto apparentemente selezionato perché agevola meglio di altri gli interessi immobiliari.

Vicenda particolare poi il Palais Lumière a Porto Marghera, osannato dai media ancor prima che si abbia la certezza della sua compatibilità con il traffico aereo dell’aeroporto veneziano. Un baluardo luminoso di 60 piani alto 255 metri, inserito nel piano di risanamento della zona industriale. È chiamato “Torre Cardin”, e non a caso: si tratta di un intervento nato dalla tesi del nipote dello stilista, laureatosi a Padova nel 2011, considerato invasivo per come avrebbe modificato lo skyline lagunare. Mentre lo stilista finanziatore afferma: “Voglio che sia a Venezia, oppure che non sia da nessuna parte”, l’operazione promette di far entrare nelle casse del Comune 40 milioni di euro, ma si arena nel 2013 quando vengono meno gli accordi tra le parti.

L’architettura, oltre le archistar

Si evince come, con una realtà così complessa e forze in gioco così variegate, non si possa attribuire tutta la responsabilità a singoli individui, sebbene essi siano a capo di studi faraonici. Alcuni hanno preso le distanze dal neologismo “archistar”. L’architetto Peter Eismann, per esempio, ha detto: “L’architettura è risolvere problemi, non mi interessano immagine e brand. Nel marketing non si abita”.

Concludo con le eloquenti parole di Insolera, quando gli proposero la candidatura a sindaco di Roma: “Un uomo, un’idea, un progetto, non cambiano niente. Può riuscirci solo un lavoro faticoso, paziente, di tante persone. Solo la società può cambiare la società”.

 

By 233627 from Italia (Milano CityLife) [CC BY-SA 2.0], via Wikimedia Commons

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