Cominciare a 65 anni una seconda carriera da manager

Quando gli chiedo: posso definirla un pensionato? Ferdinando Beccalli Falco non raccoglie la provocazione. Seduto al tavolo per riunioni nel suo enorme (e spoglio) ufficio romano di presidente dell’ENAV, l’ente che gestisce il traffico aereo in Italia, il manager dai capelli brizzolati sorride gentilmente e mi risponde che non si sente un pensionato bensì uno che […]

Quando gli chiedo: posso definirla un pensionato? Ferdinando Beccalli Falco non raccoglie la provocazione. Seduto al tavolo per riunioni nel suo enorme (e spoglio) ufficio romano di presidente dell’ENAV, l’ente che gestisce il traffico aereo in Italia, il manager dai capelli brizzolati sorride gentilmente e mi risponde che non si sente un pensionato bensì uno che a 65 anni è all’inizio della seconda carriera. Di fatto abbiamo ragione tutti e due. Beccalli Falco, detto “Nani” (così firma le email) torinese con laurea in ingegneria chimica, ha lasciato lo scorso dicembre la General Electric (GE) dopo 40 anni: una lunghissima carriera cominciata negli Stati Uniti nel 1975 e che l’ha portato a ricoprire la carica di amministratore delegato in Germania, vice presidente di GE e di responsabile delle attività europee. Quello che è uno dei top manager italiani più conosciuti a livello internazionale ha dovuto accettare l’inflessibile regola della multinazionale americana che vuole, a 65 anni, tutti fuori dalle scatole. Il suo periodo di disoccupazione è durato però poco.

 È vero che questo all’ENAV è il suo primo lavoro in Italia?

Si, sono qui dal 30 giugno e mi trovo con gli stessi dubbi della “prima” carriera, con le stesse incertezze sul successo e la necessità di imparare umilmente. A dicembre 2012 sono andato dal presidente di GE Jack Welch per chiederli consiglio su cosa avrei dovuto fare dopo e lui mi ha detto: “vai a fare il private equity” [ndr: investimenti privati]. Ed è quello che ho fatto aprendo una società a Zurigo, mantenendo la presidenza del CDA di alcune aziende. È difficile passare da una grandissima società, una large corporation, al private equity. Quando lavoravo a GE loro erano la controparte, non avevo mai affrontato il loro modello. Questa nuova situazione personale e professionale, dicevo, va affrontata con totale umiltà, però rinfresca e apre nuovi orizzonti. Ad esempio, ti ritrovi a dover fare un’intervista con un cacciatore di teste come accadeva con il tuo primo lavoro. Certo è un po’ diverso: adesso hai esperienza, non c’è il panico finanziario, ma sei comunque di fronte a qualcuno al quale cerchi di piacere e ne vuoi catturare lo “spirito”.

Perché GE manda via a 65 anni mentre la tendenza è a far lavorare più a lungo i dipendenti?

Puoi andare via a 60 e devi andartene a 65. E’ una vecchia regola che fa parte della storia della società: si è sempre fatto così. Penso sia stata creata in un periodo in cui la gente campava meno. Se non ricordo male anche alcune grandi banche svizzere ti congedano a 60 anni.

Non è una perdita di risorse?

Si. È una regola che dovrebbero correggere. Però a 65 si può anche cominciare una seconda carriera. A 70 anni non lo so: magari si, magari no. A 70 anni ti guardano in modo diverso; meglio cambiare a 65.

 Cosa ne pensa di quella che in Italia viene chiamata “staffetta generazionale”: lasci il lavoro un po’ prima della pensione per fare assumere un giovane o magari tuo figlio?

Andarsene per fare assumere il figlio? Non lo condivido: magari il figlio è un cretino. Lasciare perché un giovane possa essere assunto mi sembra invece un’ottima idea.

Lei una volta ha dichiarato che la vera flessibilità è la libertà totale di licenziare: ne è ancora convinto?

La flessibilità è la totale libertà di licenziare. Si può però avere meno flessibilità ed un sistema che funziona lo stesso come accade ad esempio in Germania. Il concetto di flessibilità deve insomma essere interpretato all’interno del sistema economico.

In Italia che sistema economico abbiamo? Ma soprattutto: c’è la consapevolezza tra le Parti Sociali che ne abbiamo uno?

Andiamo per ordine. Prendiamo il sistema americano: è aggressivo e brutale – forse troppo – libero, liberale ma è accettato da tutte le parti ed è efficace e produttivo. Quello giapponese: dal giorno in cui ti assume, l’Azienda si prende carico di te fino a quando muori. Non esagero: anche da pensionato partecipi alle attività per la terza età dell’azienda. Ricordo che quando ero amministratore delegato di una società giapponese dovevo persino approvare i matrimoni dei dipendenti. Il sistema tedesco ha invece un equilibrio tra sindacati ed imprenditori che risulta vantaggioso: tutti capiscono le necessità degli altri. Ora, non so se in Italia c’è questa – chiamiamola – “capacità sociale”. Non siamo americani, non siamo giapponesi… direi che siamo a metà tra questi ultimi e i tedeschi, magari forse un po’ più vicini alla Germania. Il vero problema è che qua in Italia c’è troppa conflittualità tra le Parti Sociali: uno deve essere sempre “contro” qualcuno. E questo non porta a decisioni che favoriscono il progresso.

Da 1 a 10 quanto favorisce il licenziamento il Jobs Act?

Sono da poco in Italia, non glielo so dire. Dovrei approfondire.

Che ne pensa del recente salto dell’Italia di 6 posizioni nella classifica della competitività del World Economic Forum?

Leggere le classifiche non aiuta e non dovrebbe aiutare, potrebbe essere misleading [ndr: trarre in inganno]. Quand’ero in GE sono stato in Paesi “fuori dal mondo” ma la visita sul territorio, il contatto con la gente alla fine è più importante di qualsiasi classifica per prendere le decisioni su dove aprire stabilimenti. Per fare investimenti ritengo poi sia più importante per le grandi corporation essere in contatto con i Governi. Le classifiche insomma non ti fanno prendere la decisione definitiva, anche se possono aiutarti.

Lo scorso agosto al Meeting di CL di Rimini il ministro dell’economia Padoan – il suo azionista di maggioranza – ha fatto un ragionamento sulla produttività, di fatto assolvendo i lavoratori e addossando la colpa alle aziende che non li mettono in condizione di essere più produttivi. Che ne pensa?

Che Padoan ha ragione, ma in un senso diverso. Gli italiani non sono fannulloni, lavorano tantissimo. Il problema è il Sistema-Italia: ingessato, bloccato, stitico. I passi che si devono fare per ottemperare alle regole e leggi sono talmente tanti che un dirigente italiano – pubblico o privato – si trova automaticamente in svantaggio nei confronti dei medesimi colleghi di altri paesi dove le regole sono più semplici. Le porto un mio esempio. Io presiedo quattro società, una tedesca, due americane ed una italiana: il tempo passato a cavillare nel CDA italiano è superiore che negli altri consigli (a pensarci bene i tedeschi forse sono anche troppo sbrigativi). Gli italiani ripeto non sono fannulloni ma i loro risultati sono frenati dal Sistema, che è il vero problema.

Che si può fare per rimediare?

Bisogna imparare dai Sistemi più agili, non occorre necessariamente cambiare ma correggere e snellire. Non si fa però dall’oggi al domani: ci vogliono almeno due generazioni per cambiare le cose.

Che si può fare per il Sud? Padoan dice che non bisogna adottare politiche speciali ma fare politica con più assiduità e usare le risorse che già ci sono.

È un dato di fatto che nel Sud Italia ci sono aree che sono messe bene, penso ad alcune parti della Sicilia e della Puglia dove esistono realtà attraenti e soddisfacenti. Quello che penalizza il Sud è il livello di sperpero e di corruzione. C’è dovunque in Italia ma è più presente nel Sud. Fino a quando non si affronta il problema non si muoverà niente. Tempo fa leggevo il rapporto di Trasparency international, la classifica della corruzione percepita nei paesi del mondo: Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono in testa. Sono gli stessi paesi più colpiti dalla crisi del 2008: c’è una chiara connessione tra corruzione e ripresa. Non parlo solo di grande corruzione, ma anche di quella piccola: gente che non paga le tasse, l’idraulico, l’elettricista che lavorano in nero. Sono convinto che con una bella botta alla corruzione si risolverebbero molti problemi. Certo, poi c’è la criminalità organizzata, ma quella è dappertutto.

Lei è stato chiamato all’ENAV per privatizzarne il 49%. Che situazione ha trovato?

Quando dal ministero dell’Economia mi hanno contattato per propormi la presidenza, non sapevo neppure cosa fosse l’ENAV. Ho chiesto: “E che animale è?”. Di recente mi hanno portato a visitare il nostro centro di controllo di Ciampino e allora, lì, ho capito che abbiamo in Italia un’azienda con fatturato notevole, ottimi ricavi ed un contenuto tecnologico ambìto da altri. Tra l’altro il business model di ENAV – per tutta una questione legata ai rimborsi che le compagnie aeree devono pagare in caso di mancato traffico – è di fatto risk free, privo di rischi per i potenziali azionisti. Tra gennaio e febbraio andremo in road show: devo pensare bene a come presentare l’azienda, sto riflettendo sullo slogan. Bisogna usare tecniche di marketing moderno per far conoscere ENAV in ambito finanziario. Direi che questa azienda è una gemma nascosta.

Lei è stato per tre anni amministratore delegato di GE in Germania e quindi la conosce bene. Cosa ha pensato di fronte alla notizia che c’erano 11 milioni di Volkswagen col motore diesel taroccato?

Ho pensato che ce ne devono essere almeno altre 60 milioni in altre parti nel mondo e davvero mi stupirei fossero solo Volkswagen.

Ha le prove?

No. Le dico però subito che sono cliente soddisfatto di auto del gruppo Volkswagen. Tornando alla mia reazione: non mi sono scandalizzato, mi è dispiaciuto. Di sicuro bisogna fare qualcosa ma addossare tutte le colpe all’ex amministratore delegato Winterkorn mi sembra esagerato: magari era a conoscenza di qualcosa ma non sapeva la portata. Come le ho già detto sono stato per GE amministratore delegato di una società di materie plastiche in Giappone e in quell’occasione mi sono trovato in una situazione simile: i materiali uscivano dalla produzione con specifiche tecniche non corrette. Ho trovato i responsabili e li ho licenziati: mi ci è voluta una vita per scoprirli. E quella società non era certamente gigantesca come Volkswagen!

Non basterebbe avere una figura che raccoglie le soffiate dei dipendenti, quelli che nel mondo anglosassone si chiamano whistleblower?

In GE l’avevamo. Di solito era un dirigente con una certa anzianità e rispettato da tutti che ricopriva la figura di ombudsman. Il suo compito era di ricevere i dossier con le segnalazioni e aveva l’obbligo di non rivelare la fonte, tipo confessore. Svolgeva un’inchiesta, si attivava per scoprire se c’era malaffare e in tal caso lo segnalava. In GE funzionava molto bene. Il problema nella fabbrica giapponese l’ho scoperto così.

 

 

 

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