Dal Cairo all’Italia: “Sono imprenditore ma lavoro con spirito da operaio”

Sawa’, “insieme” in lingua araba. È questo il significato dell’associazione Sawa Onlus, fondata da Medhat Moussa insieme ai suoi compagni di viaggio. Nato al Cairo 54 anni fa, oggi è imprenditore a Milano, dove ha creato un locale molto noto che riunisce panetteria, pasticceria, caffetteria e ristorazione in viale Monza. Moussa ha vissuto sulla sua […]

Sawa’, “insieme” in lingua araba. È questo il significato dell’associazione Sawa Onlus, fondata da Medhat Moussa insieme ai suoi compagni di viaggio. Nato al Cairo 54 anni fa, oggi è imprenditore a Milano, dove ha creato un locale molto noto che riunisce panetteria, pasticceria, caffetteria e ristorazione in viale Monza. Moussa ha vissuto sulla sua pelle che cosa vuol dire ritrovarsi lontano da casa, ma non si è mai arreso, e ora prova con la sua associazione ad aiutare gli stranieri a integrarsi nella società italiana.

Gli inizi a Milano

Medhat studia Storia e Geografia all’Università del Cairo. Avrebbe dovuto insegnare, ma la vita lo conduce su un’altra strada. Durante un viaggio in Spagna, infatti, Moussa conosce sua moglie. Per lei, una volta terminata l’università, Medhat si trasferisce in Italia. È il 1988.

“Ho cominciato a studiare l’italiano e ad accettare qualsiasi lavoro che trovavo: imbianchino, addetto alle pulizie, eccetera. Dopo qualche mese, ho visto un cartello fuori da un panificio in piazzale Istria dove cercavano apprendisti”. Il panificio in questione è il primo aperto da un noto panificatore milanese e lì Moussa impara tutto in merito all’arte della panificazione, pur nella fatica di trovarsi in un ambiente nuovo e impegnativo. “Ho lavorato qui circa sette mesi. Non sapevo come si facesse il pane, non parlavo bene l’italiano, eppure ho cominciato. I primi giorni ho sofferto, era un ritmo duro e per me erano tutte cose nuove, ma non potevo fallire perché voleva dire tornare a casa. Ho resistito e ho imparato quanto più potevo. Dopo questa esperienza per alcuni anni sono andato a lavorare in diversi panifici”.

L’imprenditoria

Moussa nel frattempo lavora, perfeziona l’italiano e sale di livello. “Nessuno avrebbe potuto assumermi come operaio e quindi ho cercato un’attività in proprio. Ho aperto il primo panificio in una viuzza laterale nel 1993: era piccolissimo, ma quello potevo permettermi. Nel 2000 sono riuscito a trasferirmi sulla via principale: c’era una macelleria che stava chiudendo e l’ho trasformata in un panificio”.

Nel corso degli anni Moussa fa sacrifici, chiede mutui, e ogni volta che si svuota un edificio lo acquista e lo trasforma, fino a creare la realtà di oggi. “Cerco di fare le cose bene, con lo spirito da operaio”, racconta con umiltà.

Un’associazione per integrare

Il messaggio di Moussa è chiaro: i pregiudizi ci sono da ogni parte, ma bisogna imparare a integrarsi, a conoscere bene la lingua e la cultura, diventare “cittadino attivo, coinvolto nel tessuto sociale”, abbattendo così ogni paura che può creare preconcetti.

“Mi è capitato di avere una cliente che sottolineava come suo figlio laureato non trovasse lavoro, mentre gli stranieri in Italia aprono i negozi. Io non ho rubato il posto a nessuno: non potevo pretendere di lavorare in Italia con la mia laurea e così ho rincominciato, come un bambino. Bisogna capire come funziona la società in cui ci si trova per entrare a farne parte. Solo così si può tirare fuori quello che ognuno di noi ha dentro. Quando è cresciuta l’immigrazione, vedevo molti giovani che non sanno parlare l’italiano e che magari stavano davanti a una chiesa con in mano un cappellino. Mi sono chiesto che cosa potessi fare per aiutarli a integrarsi e così è nata questa associazione”.

Sawa Onlus è aperta a tutti, ma è rivolta principalmente agli stranieri provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa. L’obiettivo principale è di supportare chi arriva in Italia in un percorso di integrazione nella società, mostrando anche esempi concreti di chi ce l’ha fatta.

Mani che si stringono

La ricetta di Medhat Moussa per l’integrazione

La strada è questa: prima di tutto bisogna imparare l’italiano, sia per capire che cosa dice la gente, sia per esprimersi; poi iniziare a vivere come vivono le persone nella società in cui ci si trova. Per esempio, se si investono pochi euro per un abbonamento alla metropolitana, non si viene percepiti come lo straniero che non rispetta la legge. Sono piccole cose che si risolvono con la conoscenza. C’è abbastanza risposta perché ci sono tante persone che vogliono vivere meglio, ma ancora non conoscono la strada.”

Insomma, il rischio di arrivare in Italia e iniziare ad adattarsi senza parlare bene la lingua e appoggiandosi a situazioni lavorative poco dignitose c’è, ma si può tentare di risolverlo con tanta volontà e coraggio di osare, cercando di capire bene come la società stessa ragiona. E se ognuno, imboccata la strada giusta, tende una mano a un altro, ecco che allora tutti vivono meglio. Lo sanno bene nell’associazione di Moussa: “Chi vuole entrare nella nostra associazione ed essere aiutato, deve a sua volta essere utile ad altri. È una piccola regola. Integrarsi vuol dire essere utili per la società”.

Ma se gli stranieri devono imparare a conoscere la società italiana, questa a sua volta deve conoscere gli sforzi di chi viene in Italia e prova a trovare la sua strada. “Ciò che non conosciamo fa paura – spiega Moussa – è normale. Non è un problema che riguarda tutti gli stranieri, ma quelli che non conosci. Per questo è importante che da una parte gli stranieri si integrino, e dall’altra che la società stessa comprenda questo concetto, in modo da togliere i luoghi comuni. Parola d’ordine: conoscenza. Solo conoscendosi l’un l’altro si arriva all’integrazione”.

 

Il reportage continua con i seguenti articoli:

Stranieri al lavoro: almeno i numeri non sono razzisti

Dall’Albania all’Italia: “La cultura non sfama, ma cura”

Dalla Siria all’Italia: “Ho tre lauree, sono giornalista, faccio la barista”

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