L’analisi è semplice: mobbing. Sottinteso o trasparente. L’orario flessibile, agognato dal 73,8% dei dipendenti, è adottato solo dal 36,9% delle aziende. I permessi retribuiti per le visite mediche, utili per il 70,8%, sono concessi dal 28,6% delle organizzazioni. E ancora, l’estensione dei congedi genitoriali è più una chimera che una logica realtà. Anche i tanto osannati asili aziendali, rattoppo forse adatto a sopperire alle mancanze pubbliche in materia, sono strutturati solo nell’8,3% delle imprese.
Infine, il capitolo salari. Senza scomodare tutte le statistiche che, sulla questione, ci vedono fermi da trent’anni, decido di portare un caso pratico.
Mi risponde Roberta, neomamma di due gemelli nel veronese. “Ogni mese con affitto e nido per i figli, la spesa di partenza è 1.400 euro. Ai quali bisogna aggiungere tutte i costi necessari per il mantenimento, oltre alle bollette di acqua, luce e gas. In pratica solo di spese vive siamo oltre i 2.000 euro mensili. Poi, è vero che l’assegno unico allevia e il bonus nido garantisce il rimborso di parte delle rette, però è anche vero che questi soldi (soprattutto i secondi) arrivano molto dopo averli sborsati. Lì per lì le fatture vanno pagate”.
Seguendo il ragionamento e i salari medi, in famiglia servono quindi due contratti a tempo indeterminato di almeno 1.500 euro al mese per mantenere un nucleo con più figli. Sempre che ci sia qualcuno disponibile ad accudirli e a recuperarli al termine delle attività quotidiana, nell’attesa che i genitori rientrino dalle rispettive attività professionali.
L’alternativa è, appunto, culturale. Ed è fatta di flessibilità, smart working, solidarietà aziendale. E proprio qui, le ultime statistiche offerte dalla Community Research & Analysis, non sono rassicuranti: il 41% dei lavoratori con figli ha la percezione che venga richiesto loro di anteporvi il lavoro, e appena il 35% dichiara di collaborare con manager solidali.