Se la denatalità ha le radici nelle aziende

Il welfare italiano tutelerebbe i neogenitori, ma la cultura aziendale, dati alla mano, non lo fa: un italiano su due dichiara di non avere figli per motivi economici e lavorativi

La denatalità ha radici nelle aziende: una madre costretta a lavorare con due figlie piccole

Il 31,5% dei lavoratori italiani sente la necessità di sviluppare una famiglia. È quanto emerso dalla ricerca condotta per Plasmon da Community Research & Analysis, in collaborazione dell’Università degli studi di Padova. Presentato in concomitanza con gli Stati Generali della Natalità dell’11 e 12 maggio scorsi, occasione di passerella per le cariche più importanti come la presidente Giorgia Meloni o Papa Francesco, lo studio sottolinea che i problemi legati alla scarsa fertilità sono legati a motivi perlopiù economici e lavorativi. Questo, almeno, sostengono il 53,5% degli intervistati.

Necessario, in proposito, analizzare tutti gli elementi a disposizione sul tavolo. Già, perché se togliamo i giorni di paternità obbligatoria – aspetto sul quale, nonostante in passi avanti, l’Italia si trova in forte ritardo rispetto alla media europea – bisogna pur ammettere che i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa, nel loro complesso, sono congrui con le esigenze dei neogenitori. Non solo: la maternità anticipata legata al rischio di specifiche mansioni e i permessi di allattamento post partum, ad esempio, sono la dimostrazione che il nostro welfare state, tutto sommato, non è preistorico rispetto alle doverose tutele.

La criticità, ancora una volta, si evidenzia sotto il profilo culturale delle imprese italiane. Non è un caso, tornando alla ricerca citata, che gli italiani siano restii ad allargare il nucleo famigliare, a causa proprio del timore di perdere il lavoro. Ma se le tutele ci sono, dove sta il tema?

Le norme tutelerebbero i neogenitori, ma le imprese no: lo dicono i dati

L’analisi è semplice: mobbing. Sottinteso o trasparente. L’orario flessibile, agognato dal 73,8% dei dipendenti, è adottato solo dal 36,9% delle aziende. I permessi retribuiti per le visite mediche, utili per il 70,8%, sono concessi dal 28,6% delle organizzazioni. E ancora, l’estensione dei congedi genitoriali è più una chimera che una logica realtà. Anche i tanto osannati asili aziendali, rattoppo forse adatto a sopperire alle mancanze pubbliche in materia, sono strutturati solo nell’8,3% delle imprese.

Infine, il capitolo salari. Senza scomodare tutte le statistiche che, sulla questione, ci vedono fermi da trent’anni, decido di portare un caso pratico.

Mi risponde Roberta, neomamma di due gemelli nel veronese. “Ogni mese con affitto e nido per i figli, la spesa di partenza è 1.400 euro. Ai quali bisogna aggiungere tutte i costi necessari per il mantenimento, oltre alle bollette di acqua, luce e gas. In pratica solo di spese vive siamo oltre i 2.000 euro mensili. Poi, è vero che l’assegno unico allevia e il bonus nido garantisce il rimborso di parte delle rette, però è anche vero che questi soldi (soprattutto i secondi) arrivano molto dopo averli sborsati. Lì per lì le fatture vanno pagate”.

Seguendo il ragionamento e i salari medi, in famiglia servono quindi due contratti a tempo indeterminato di almeno 1.500 euro al mese per mantenere un nucleo con più figli. Sempre che ci sia qualcuno disponibile ad accudirli e a recuperarli al termine delle attività quotidiana, nell’attesa che i genitori rientrino dalle rispettive attività professionali.

L’alternativa è, appunto, culturale. Ed è fatta di flessibilità, smart working, solidarietà aziendale. E proprio qui, le ultime statistiche offerte dalla Community Research & Analysis, non sono rassicuranti: il 41% dei lavoratori con figli ha la percezione che venga richiesto loro di anteporvi il lavoro, e appena il 35% dichiara di collaborare con manager solidali.

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