Ansia, presentismo, disturbi mentali? Siete affetti da partita IVA

C’è chi non dorme per trovare clienti, chi ne cerca anche se non avrebbe bisogno, e molto, molto peggio. Abbiamo dato voce alle testimonianze di cinque partite IVA sulle criticità della loro salute mentale, di cui si parla ancora troppo poco.

Ansia, attacchi di panico, presentismo, paura di restare senza soldi. E ancora: burnout, dipendenza dal lavoro, sbalzi di umore e insonnia, che spesso compromettono la vita privata riducendo i rapporti con gli altri al minimo. Per non parlare del tempo libero, praticamente inesistente perché “si è indietro”, “il cliente ha bisogno di me” e così via, a lavorare in ogni momento e dovunque: sui mezzi pubblici, mentre si è a cena con amici, o addirittura ricoverati in ospedale.

Le partite IVA in Italia oggi sono anche questo. Dietro al mito del “posso organizzarmi quando voglio”, che ovviamente in parte è vero (e chi scrive lo sa bene), ci sono tanti disturbi mentali di cui si parla ancora troppo poco. Situazioni di disagio, a volte causate dal lavoro stesso, che compromettono tutta l’esistenza. E a questo si aggiunge che per chi è libero professionista le tutele in caso di malattia sono davvero scarse o assenti.

SenzaFiltro ha raccolto le storie di cinque freelance. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Beatrice: “Mi caricavo di lavoro per non pensare alla mancata maternità”

Beatrice Verga ha 35 anni, è web writer e ghostwriter freelance ed è un vulcano. Lo si sente in ogni parola che pronuncia tra una poppata e l’altra alla sua bambina, Azzurra, di quattro mesi, dalla sua casa in Brianza.

Ma per lei, milanese d’origine trasferitasi per amore, avere una figlia non è stato facile: ha dovuto sottoporsi a diversi trattamenti di PMA, sigla che sta per Procreazione Medicalmente Assistita. Ha iniziato nel 2019 fino a che quest’anno non ha dato alla luce sua figlia. In mezzo una dipendenza eccessiva dal lavoro che si è tramutata in burnout per “essermi caricata come un mulo per non pensare. A causa dei tanti transfer (di embrioni, N.d.R.) non andati a buon fine ho accumulato fallimenti su fallimenti. Inoltre, ho avuto una gravidanza biochimica (aborto molto precoce, N.d.R.) nel luglio 2019. Nella mia testa esistevano solo la gravidanza e l’aborto. E così ho iniziato ad accumulare lavoro su lavoro. Lavoro che mi ‘arrivava’, ma che ero anche io stessa a cercare: se c’erano degli annunci rispondevo”.

Beatrice occupava ogni momento per portare avanti le sue attività, senza fermarsi a pensare. “Dovevo trovarmi con gli amici a fare un aperitivo alle 18.30? Fino alle 18.29 lavoravo dal bar. Una volta ero al compleanno di un’amica, e mentre gli altri erano a bere io ero fuori dal locale a fare una riunione su Skype. Non esserci per me voleva dire perdere il controllo della situazione. E poi, se non finivo quello che dovevo fare, era la morte”.

Presentismo e FOMO: le “malattie” dei freelance

Qualcuno la chiama FOMO, ossia Fear of Missing Out, paura cioè di perdersi dei pezzi, che all’estremo porta al presentismo, tipico dei liberi professionisti che devono e vogliono esserci per clienti, colleghi, collaboratori, in ogni momento. Beatrice ha persino lavorato dall’ospedale dopo il secondo pick-up, che prevede il prelievo chirurgico degli ovociti dopo una stimolazione ormonale.

“Una volta tornata in camera, nonostante fossi affaticata e con bassa sedazione, ho corretto un articolo a suon di messaggi vocali. La persona con cui interagivo mi ha detto ‘rispetto alla prima volta ti sento sofferente’”.

Un primo cambiamento per lei c’è stato nel settembre 2020: “La pandemia non aveva avuto un grosso impatto sulla mole di lavoro. Io però cominciavo a sentirmi poco bene, inoltre mi ero legata a persone con cui condividevo solo il lavoro o il modo di approcciarsi: single e senza figli, super avvocati che venivano chiamati di continuo durante le cene. Finché non mi sono confrontata con una psicoterapeuta e business coach, che mi ha detto che avevo sviluppato una vera e propria dipendenza dal lavoro. Grazie a lei e all’aiuto di un’altra dottoressa, oltre che di mio marito e mia sorella, ho cominciato pian piano a riprendermi, anche se nel giugno 2021 ho avuto una ricaduta. Ho preso a fare colazione, cosa che non facevo, ad allenarmi e a darmi delle regole. E, mentre pensavo all’adozione e alla fecondazione eterologa, nel novembre 2021 la prima ecografia ha confermato la bella notizia che la PMA era andata a buon fine”.

Dalla bulimia lavorativa al burnout a soli 27 anni: la storia di Jessica

Di bulimia lavorativa tramutatasi in burnout ha sofferto anche Jessica, oggi ventinovenne, digital strategist freelance romana. E questo a causa del rapporto con i soldi: “Sono nata povera, figlia di operai, e ho dovuto lavorare per pagarmi gli studi; avevo un impiego full time e studiavo di notte o la mattina presto. E nonostante questo mi sono laureata prima di quanto avessi pensato”.

Una volta ottenuto il titolo, Jessica inizia a fare il lavoro che voleva, dopo aver provato a fare la giornalista: “Ho deciso di coniugare il mio interesse per la vendita con il marketing, pensando inizialmente di non poterci vivere. D’altronde ero figlia della narrativa di chi in questo settore viene pagato poco”.

E invece per lei è tutto il contrario: guadagna fin da subito fino a che, nel 2019, sviluppa una vera e propria dipendenza dal lavoro: “Mi ero accorta che per me guadagnare con la mia professione non era così difficile, avevo capito come organizzarmi al meglio, e così ho cominciato a prendere clienti su clienti, inebriata dal fatturato, dai soldi, dalla crescita. Quando nasci povera e cominci a vedere 3-4.000 euro netti al mese la vita ti cambia. Io mi svegliavo la mattina, guardavo su LinkedIn e cercavo clienti che, comunque, arrivavano anche da soli. Facevo call su call pensando di avere bisogno di nuove aziende, ma in realtà non era così: rincorrevo qualcosa che non mi serviva sentendo che dovevo alzare l’asticella. Ero convinta che potesse finire da un momento all’altro e mi sembrava impossibile che io, a 27 anni, fossi riuscita a costruirmi una fortuna”.

Jessica lavora dalle 8 del mattino alle 11 di sera, 7 giorni su 7, e arriva addirittura a pensare che stare a casa senza fare nulla voglia dire perdere tempo. “Mi dicevo: perché stare qui a vedere una serie TV quando posso guadagnare 300 euro facendo delle cose?”.

Una dipendenza tale che l’allontana da tutto e tutti: fidanzato, amici, famiglia. “Le persone non mi riconoscevano più, mi dicevano ‘cosa sei diventata?’. Ma io negavo dicendo che non era vero, era solo un momento. In fondo pensavo: se non lo faccio adesso, quando? Ero perfino arrivata a valutare la bravura di un professionista in base a quanto guadagnasse”.

“Ho perso 15 kg e pensavo che mangiare fosse una perdita di tempo”

Fino a che il corpo non le dà i primi segnali: “Ho cominciato a svegliarmi la notte con dei pesi sullo stomaco, mi è sparito il ciclo e sono dimagrita di 15 kg. Non mangiavo, nella mia testa era una perdita di tempo, non bevevo, non parlavo con nessuno. Ho smesso anche di chiamare mia madre. Poi ho iniziato a perdere interesse per il lavoro. Mi sentivo risucchiata, e allora mi sono detta ‘facciamo finta che voglio dire basta’, e così ho iniziato a cercare aiuto, prima su internet, e poi su consiglio del medico di base sono andata in terapia per un anno. Grazie a questo e a un ansiolitico ne sono uscita. Ma soprattutto sono riuscita a riconoscere che avevo un problema: non volevo vivere la mia vita perché non ce l’avevo, volevo guadagnare per riempire degli spazi, pensavo di essere programmata per il dovere. Mi sentivo rifiutata da piccola perché povera e non volevo che fosse ancora così”.

Oggi Jessica, che convive con un’altra persona, ha imparato a riconoscere i segnali: “Se mi balla la palpebra vuol dire che devo fermarmi. Non lavoro mai più di otto ore, interrompo qualsiasi cosa stia facendo. Ora riesco a riposarmi anche per due-tre giorni di seguito e ho cominciato ad andare in vacanza. Il burnout mi è servito per capire quali sono i miei limiti e chi sono davvero adesso”.

“Quegli attacchi di panico che mi prendono durante le call”: la storia di Luisa

Luisa Fassino, 39 anni, webmaster della provincia di Asti, soffre di attacchi di panico dalle elementari, ma “finché non avevo chissà che responsabilità, li gestivo in maniera diversa. Prima facevo un lavoro in ufficio, stavo dietro le quinte, non avevo contatti con il pubblico. Aprire la partita IVA per me è stata una sfida. Sono avvantaggiata dal fatto che lavoro da casa, sebbene anche qui mi prendano gli attacchi di panico. Sono abbastanza invalidanti, quando succede mi gira la testa, non mi reggo in piedi, ho la sensazione fisica di cadere per terra, e questo anche se sono seduta”.

Per chi non lo sapesse, un attacco di panico è un episodio di improvvisa paura o di rapida escalation dell’ansia che può essere accompagnato da vertigini, sensazioni di soffocamento, palpitazioni, nausea, e “condito” dal timore di morire o di impazzire.

Come ricorda Luisa, può avvenire “senza un fattore scatenante, anche quando potenzialmente potrei essere tranquilla. A me è capitato diverse volte prima o durante le call: mi prende un affanno intenso, mi manca la voce, è come se mi accasciassi sulla scrivania. È una sensazione bruttissima, se posso spengo la telecamera dicendo che ho problemi di connessione o è suonato il campanello. Mi succede in particolare quando ho riunioni l’una di seguito all’altra o quando arrivo da fuori e ho una call già fissata. Quello che devo fare è prendere dei tempi tra una cosa e l’altra, ma non sempre ci riesco”.

Episodi simili a Luisa capitano anche fuori casa: “Specie se sto tanto in piedi, anche se devo dire che tutte le persone con cui interagisco sono sempre comprensive. Io non dico ‘ho un attacco di panico’, cerco di mascherare la causa dicendo che mi gira la testa e mi devo sedere. Purtroppo in quel momento ho la sensazione di morire. In passato mi duravano anche ore, ora li so gestire meglio. Sono stata in cura da una psicologa, ora vado da un neurologo, ogni tanto”.

Nonostante gli attacchi di panico, Luisa tende sempre a sfidarsi: “Voglio vivere la mia vita, ecco perché provo a fare anche cose che mi provocano disagio confidando nel fatto che ‘non morirò’. Paradossalmente, se la giornata è frenetica e ho poco tempo per pensare sto meglio, mi preparo prima; il problema è quando lo diventa in itinere. In realtà è una paura della paura. Penso: ‘Devo fare questa cosa, e se non stessi bene che cosa succederebbe?’. È come se l’autoalimentassi”.

Quando le chiedo se sa da che cosa hanno origine gli attacchi di panico, Luisa ci pensa un attimo e poi risponde: “Credo sia dovuto al fatto che dalle elementari alle superiori sono stata vittima di bullismo, e da lì è come se nella mia testa il problema fossi io. Ma sto lavorando per risolverlo”.

Fatico ad alzarmi e penso “oggi non ce la farò”: Giacomo e la sua ansia dentro e fuori dal lavoro

Anche per Giacomo (nome di fantasia), 50 anni, consulente informatico, le situazioni di ansia sono una costante. Il suo è un lavoro da partita IVA atipica, perché ha un unico cliente con cui lavora da tanti anni e con cui ha un buon rapporto. Ma nonostante tutto non sta attraversando un bel momento.

“Dal secondo lockdown ho avuto problemi di depressione e ansia, che un po’ fa parte anche del mio carattere, sono stato anche ricoverato. Credo sia dovuto al fatto di avere vissuto un periodo stressante, tra problemi al lavoro, la ristrutturazione della casa, il COVID-19, il bambino piccolo e altre situazioni famigliari che mi hanno portato a un carico che non sono riuscito a sostenere. Pensando solo al lavoro, a volte credo sia una causa, altre un effetto; per me è come se fosse uno spauracchio”.

E in effetti a Giacomo l’ansia comincia a venire la domenica sera, quando sa che il giorno dopo dovrà andare in ufficio o lavorare in smart. “Poi invece parto e sto bene. Però devo ammettere che al mattino per me è difficile alzarmi, ho dei tremori, mi sento carente di energia, vorrei restare a dormire perché mi alzo con un pensiero fisso: ‘Oggi non ce la farò’. 99 volte su 100 riesco a superarlo; quella volta in cui non ce la faccio lo dico. In azienda mi hanno sempre aiutato, ho avuto dei colleghi che mi hanno supportato e ho potuto essere sincero senza avere ripercussioni”.

L’ansia di Giacomo ha comunque una ricaduta sul lavoro: “Essendo un’azienda molto piccola a volte ci troviamo ad affrontare situazioni che vanno oltre quello che potremmo, e questo mi genera molto stress. Ma anche vivere situazioni nuove mi spaventa, mi crea una sorta di ansia anticipatoria che a volte può minare il mio lavoro e quello con i colleghi. Devo dire che per una partita IVA non è semplice e perdere le giornate, può compromettere la reputazione che ti sei costruito nel tempo. Allo stesso tempo ho imparato che raccontare quello che sta succedendo ti aiuta. Perché lo facciamo per le malattie e non per i problemi psicologici? Tutte le volte in cui l’ho fatto mi sono sentito meglio, non giudicato e soprattutto aiutato”.

Ansia di trovare clienti e di dover essere sempre originali: il lavoro di un freelance è anche questo

Un continuo sali e scendi di emozioni, ansia che fa svegliare nel cuore della notte, il peso di dover prendere delle decisioni da soli, perdita di concentrazione, sono situazioni apparentemente più leggere di quelle appena descritte, ma che rischiano ugualmente di compromettere la vita di un freelance.

Per Sabrina, 50 anni, travel blogger e web writer, spesso è così: “Sono attanagliata dall’ansia di proporre dei contenuti originali, mi sveglio con i pensieri di quello che devo fare, ho una vera e propria ansia da prestazione lavorativa. Oltre a quella di non trovare clienti. Ci sono momenti come ora in cui sono meno sotto pressione, ma in generale questo stato d’animo rimane. E spesso si traduce in giorni – a volte due o tre – in cui non riesco a portare avanti quello che ho iniziato, e per noi partite IVA, come sai, non lavorare incide sui guadagni. Momenti che a volte mi mettono così tanto in crisi da farmi piangere e arrabbiare. Arrivo pure a non sopportare i rumori esterni!”.

“Pian piano sto imparando a organizzare il mio lavoro in base a come mi sento e a cercare di lasciar andare, ma lotto con il fatto di voler portare a termine le cose a tutti i costi. Ho fatto tanti anni da dipendente, e anche se ho lavorato con persone con disabilità devo dire che avevo l’indennità di malattia, e in quel caso c’è sempre qualcuno che pensa per te. Per il libero professionista non è così: è tutto sulle sue spalle.”

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Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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In copertina foto di StockSnap da Pixabay

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