Erik Gandini: “Chi lavora meno consuma meno. La libertà nobilita l’uomo”

SenzaFiltro ha intervistato il documentarista svedese in occasione dell’uscita del suo After Work, opera in cui indaga la possibilità di togliere il lavoro dal centro dell’etica e delle attività umane attraverso l’esempio di diversi Paesi, dalla Corea del Sud fino all’Italia

Un fotogramma da After Work, di Erik Gandini: un uomo asiatico in veste da ufficio lavora al centro di un labirinto

Regista, scrittore e produttore italiano naturalizzato svedese, nonché professore di cinema documentario alla Stockholm University of the Arts, Erik Gandini – noto per titoli come Surplus – Terrorized into Being Consumers e soprattutto Videocracy – si è ispirato per il suo nuovo documentario After Work agli scritti del sociologo svedese Roland Paulsen su “L’ideologia del lavoro”, “un insieme di paure, valori e idee che giustificano il fatto che dovremmo continuare a lavorare tanto, o anche di più, indipendentemente da quanto la tecnologia diventi efficace”.

E se davvero la maggior parte dei lavori esistenti scomparisse a causa dell’intelligenza artificiale, cosa saremo? Cosa faremo quando non dovremo più lavorare? Il documentario, attraverso storie, testimonianze e opinioni celebri, evidenzia i paradossi e le storture del rapporto tra esistenza e lavoro, attraversando società con modelli di sviluppo molto distanti tra loro – Kuwait, Corea del Sud, Stati Uniti e Italia – e immaginando uno scenario futuro.

After Work non offre risposte, ma induce lo spettatore alla riflessione, coinvolgendolo con un’estetica mozzafiato (il direttore della fotografia è Fredrik Wenzel, collaboratore del regista due volte Palma d’Oro a Cannes Ruben Östlund). Una produzione Fasad Production AB in coproduzione con Propaganda Italia con Rai Cinema e Indie Film, è nelle sale dal 15 giugno.

SenzaFiltro ha incontrato Erik Gandini in occasione del Biografilm Festival di Bologna.

 

 

 

L’idea di un possibile mondo senza lavoro è utopica o distopica?

Premetto un aspetto: con un documentario è quasi una contraddizione parlare di futuro. Di solito si racconta il presente o il passato. Cercare di delineare una proiezione verso il futuro con questo genere è già di per sé una sfida estetica e narrativa. Di fronte alle grandi rivoluzioni a cui stiamo assistendo, vorrei pensare alla situazione attuale come a una grande opportunità per rivedere il nostro rapporto con il lavoro. Nel film, infatti, cerco di raccontare anche le parti più aberranti di questo rapporto attraverso società perfette per lo scopo. Il mio interesse è approfondire non tanto il lavoro come necessità, che è la realtà di fatto per la maggior parte delle persone del mondo, ma la sua dimensione più ideologica o esistenziale: quanto il lavoro abbia preso forza nei nostri valori e come rappresenti il massimo significato della nostra vita, della nostra identità, dello scopo del sistema educativo.

La Corea del Sud, come emerge dal documentario, ha un’etica del lavoro unica che le ha permesso di uscire dalla povertà, ma che oggi presenta un conto molto salato in termini sociali: calo delle nascite; famiglie distrutte; alte statistiche di suicidi; morti per eccesso di lavoro (Gwarosa). Le nuove generazioni vedono il lavoro in maniera diversa?

Quando entro in un progetto non so per certo cosa troverò, è quella componente di imprevedibilità che mi sorprende e rende speciale il mio lavoro. In Corea del Sud, oltre al tema del troppo lavoro e delle malattie a esso legate, come il burnout, ho visto le nuove generazioni segnate dal mancato rapporto con i padri. Da padre di tre figli mi ha molto colpito, e devo confessare di essermi in parte riconosciuto in quest’uomo così immerso nel lavoro, perché a volte anch’io sono stato distratto con i miei figli. In Asia (Cina, Giappone) si registra un forte conflitto generazionale, ma anche da noi le persone della mia generazione – io sono nato negli anni Sessanta – vedono i propri figli come più individualisti, proiettati su sé stessi, se non addirittura pigri. Ripongo, invece, molte speranze nella generazione Z. Vedo nelle mie figlie grandi un’idea di lavoro molto distante da quella che descrive per esempio Noam Chomsky nel film: il concetto che fin dall’infanzia si indirizzi l’educazione dell’individuo verso l’obiettivo massimo che è il lavoro. Penso che nelle generazioni più giovani si stia affermando una libertà molto promettente e salutare, se vogliamo, da questa etica tradizionale.

L’intelligenza artificiale potrebbe aiutare a lavorare meno?

Chi lavora meno consuma di meno. Questa è una delle grandi verità che pochi sanno e che potrebbe avere effetti molto positivi anche sui problemi ecologici che stiamo affrontando. Sì, penso che far fare lavori noiosi o pericolosi alle macchine, e quindi avere molto tempo in più, sia una possibilità che in questo momento ci spaventa, ma che, sono convinto, può offrire enormi possibilità. Al contrario, l’IA non dovrebbe sostituire i lavori creativi. L’etica del lavoro è nata con la Rivoluzione industriale, 350 anni fa, ma prima l’essere umano non lavorava in questo modo. Perché non si sono colte da allora le opportunità che la storia ci ha dato per lavorare di meno? Mi interessava esplorare questa morsa ideologica rappresentata dall’etica del lavoro. Penso che questa chance offerta dall’intelligenza artificiale vada accompagnata da una maggiore fiducia verso l’essere umano, non come in Kuwait.

Il Kuwait, lo ricordiamo, è secondo l’OMS il paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti i cittadini hanno un impiego e sono ben retribuiti. Vanno al lavoro, ma è una farsa: non hanno nulla da fare, se non guardare film dalle piattaforme o lo schermo degli smartphone. Il risultato, come raccontano le testimonianze del film, è spesso uno stato depressivo, dato dalla mancanza di scopo e dal senso di inutilità.

In Kuwait c’è proprio una componente di fiducia nell’essere umano che viene meno; la convinzione che l’essere umano sia fondamentalmente pigro, inattivo, poco creativo. Ci sono le risorse economiche, ci sono gli schiavi-robot (gli immigrati) che si occupano dei lavori indesiderati. E c’è però anche una paura sottesa: se lasciamo che la gente faccia quello che vuole, poi cosa succederà? Sono convinto che, anche con ChatGPT, non smetteremo di essere creature attive, creative, con voglia di fare e di preoccuparci per gli altri. Non sta a me dire cosa fare. Il film non vuole proporre dritte o soluzioni, ma invita a un grande sforzo di tolleranza per accettare il fatto che ognuno di noi trova significato in cose diverse e che per ciascuno il noi il significato del “fare” assume accezioni differenti.

A offrire un’ulteriore prospettiva sono gli Stati Uniti, la “No Vacation Nation”. Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati. Il sogno americano è sinonimo di cultura del superlavoro?

Dell’America mi ha sempre colpito quest’avversione alla vacanza e il fatto che non esiste una legge federale che imponga ai datori di lavoro di fornire ferie retribuite. E il Paese non sembra nemmeno voler riconoscere il problema, al contrario della Corea del Sud, dove ho intervistato l’attuale e il precedente ministro del Lavoro: l’unico ministro del Lavoro al mondo che è in missione per far lavorare meno i lavoratori. Nel film inserisco questa campagna pubblicitaria che è emblematica per la mancanza di immaginario collettivo che emerge, quando un governo deve suggerire alla popolazione le varie possibilità del tempo libero: dipingere un quadro, mangiare con la famiglia, fare sport. È una riflessione sui nostri limiti. Anche la logica corporate del management coaching convogliata nel documentario da Josh Davis propone ormai un’idea anacronistica dell’essere umano, incompatibile con il futuro.

Non manca l’Italia nel suo documentario, rappresentata dai super-ricchi e dai NEET, di cui il nostro Paese ha il primato in Europa. Una scelta provocatoria?

Sì, descrivendo esperienze in dimensioni così diverse ci sta proporre anche idee scomode. Ero innanzitutto alla ricerca della work free existence, e poi mi ha incuriosito questo primato italiano dei NEET. È stata una sfida per me quella di non abbracciare il preconcetto che circonda queste due categorie. Volevo esplorare l’idea del tempo libero e la dimensione del “non fare” che viene molto stigmatizzata, ma che penso sia necessario riconquistare come diritto, soprattutto immaginando un futuro dove il lavoro diminuisce e il tempo libero aumenta. Per quanto riguarda i NEET, è uscito di recente un osservatorio di Intesa Sanpaolo che individua cinque archetipi di giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in attività di formazione. Tra questi ci sono anche le giovani mamme. Ciò mi ha scioccato, non solo perché prendersi cura dei piccoli è un lavoro durissimo, ma anche perché una delle conquiste del movimento femminista negli anni Settanta in America era proprio il riconoscimento del lavoro di cura delle donne. Che nella categoria NEET venga inclusa questa categoria è per me la dimostrazione di come questo concetto vada letto oltre i cliché. Sono cresciuto in una famiglia di sinistra, in cui si è sempre detto che noi lavoriamo sodo, per cui siamo di certo meglio dei ricchi, ma l’incontro con Rory (Marzotto) mi ha fatto pensare che non forse non è solo il lavoro a nobilitare l’uomo, ma la libertà: quando puoi guardare dentro te stesso e scegliere cosa fare, senza adattarti a regole e strutture predefinite. In Svezia insegno in una scuola di cinema e quando lascio ai miei studenti la libertà più totale si scatena il panico perché non sono allenati a questo; penso sia un’evidenzia sintomatica di tutti i sistemi educativi, che dovrebbero aprire maggiormente all’introspezione e alla scoperta delle passioni individuali.

Secondo il sondaggio della società di analisi e consulenza Gallup mostrato nel documentario, la maggioranza dei lavoratori (l’85%) non è motivata dalla propria occupazione, anzi è attivamente disimpegnata. Il tema tra uomo e lavoro è spezzato?

L’antropologo David Graeber (scomparso in Italia nel 2020) ha coniato il concetto del bullshit job, cioè del lavoro inutile, dimostrando che anche nel sistema capitalistico, non solo come si pensava nei sistemi comunisti, ci sono lavori assolutamente inutili. E la sua definizione di lavoro inutile è che è il lavoratore stesso a definirlo come tale: quando ti rendi conto che stai facendo un lavoro inutile allora lo è. L’introduzione di questo pensiero è fondamentale per mettere in discussione un sistema che va assolutamente rivisto. La pandemia ci ha aiutato a comprendere quali sono i lavori realmente essenziali e il paradosso è che spesso questi sono pagati peggio rispetto ad altri che essenziali non sono.

Ha dichiarato che in Svezia, secondo lei, non si diffonderà la settimana corta. Perché?

La Svezia, nonostante abbia un equilibrio notevole sul fronte del work life balance, è comunque un Paese protestante con un retaggio calvinista e una impronta socialdemocratica – sebbene non sia in questo momento al potere – che vede il lavoro come la soluzione di tutto: per l’integrazione degli immigrati, per l’emancipazione femminile e per dare un senso alla vita. Si fa fatica rispetto, per esempio, alla Francia a valorizzare il “meno lavoro”. Ho le mie teorie, di cui ho parlato in La teoria svedese dell’amore, dove racconto una società di grande distanza fra le persone.

Tornando infine all’intelligenza artificiale, il rischio di una “disoccupazione tecnologica” c’è.

Se milioni di lavori spariranno, serviranno una rete di sicurezza e un sistema di redistribuzione più equa delle ricchezze. Quando Elon Musk parla di Universal Basic Income, intravedo una motivazione opportunistica: in caso di licenziamenti di massa a fronte di un’ulteriore automazione e robotizzazione, i lavoratori avrebbero un paracadute e lui non dovrebbe preoccuparsene. Diversa la motivazione di Varoufakis per cui un contributo di questo tipo aiuta a esercitare il diritto di dire no a un lavoro sfruttato o non adeguatamente retribuito. Io però non sono un’economista, ma un artista che fa le sue riflessioni.

 

 

 

Photo credits: moviedigger.it

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