FIAT Mirafiori, da industriale a immobiliare: Stellantis non rassicura e Draghi tace

Nello stabilimento simbolo della Torino operaia si parla di riallocazione degli spazi, dopo un’emorragia di lavoratori che non sembra destinata a fermarsi: oggi sono 10.000, vent’anni fa erano il doppio. Le opinioni di Gianni Mannori della FIOM CGIL e dello storico e scrittore Marco Revelli.

C’era una volta Mirafiori. È ci sarà ancora, parola di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, la ex FIAT, che la scorsa settimana ha rassicurato i sindacati e i politici piemontesi in merito al futuro del sito, simbolo della FIAT di Torino fin dal dopoguerra.

Che cosa ci faranno e come, nella ex città fabbrica, rimane un mistero. Il timore diffuso tra gli addetti ai lavori è che Stellantis metta a disposizione parte degli spazi ad aziende esterne, che fanno parte dell’indotto, il quale nel corso degli anni si è ridotto in maniera sensibile. Si teme che ci sia un’operazione più immobiliare che industriale. Alle agenzie l’AD ha detto: «Su Mirafiori abbiamo diverse idee, abbiamo incontrato i vertici locali e lavoriamo per renderle redditizie. Mi aspetto che entro due mesi queste idee si concretizzino. Non cerchiamo titoli di giornale, ma progetti eseguibili, sia sulla produzione che in ambito di economia circolare».

Per quasi tutta la settimana il manager portoghese ha girato la ex capitale sabauda, cercando di rassicurare tutti sul futuro del mega stabilimento, ma non ci è proprio riuscito del tutto. Ha incontrato il sindaco di Torino, l’assessore regionale al lavoro e anche i rappresentanti delle componenti sindacali.

«Stiamo assistendo, in questi ultimi anni», dice Gianni Mannori della FIOM CGIL, «a licenziamenti volontari anche di cinquantenni, che spesso accettano anche perché il lavoro in certi reparti alla catena di montaggio è ripetitivo e logorante. Questo è un segnale preoccupante, che si unisce al fatto che ci sono lavoratori in cassa integrazione da anni. Gli stabilimenti si stanno svuotando e l’incontro con l’AD è stato interlocutorio. Possiamo dire che è un passo per dialogare sui piani di azienda, anche se al momento non è stato ancora reso noto un piano industriale concreto. Ci ha preoccupato il fatto che si sia parlato di riallocazione degli spazi».

L’incertezza, in questo momento difficile per il settore automobilistico, la sta facendo da padrona.

Riconvertire all’elettrico per perdere lavoro. E il Governo non se ne occupa

L’obiettivo nel breve periodo, annunciato dal CEO di Stellantis, è investire sull’economia circolare, che farà il paio con la riconversione degli stabilimenti nell’ottica di produrre auto elettriche. Si parla ad esempio di un polo che possa smaltire le batterie in modo ecologico. Ma questo potrebbe non bastare, e c’è chi pensa che gli spazi di Mirafiori possano essere aperti alle aziende dell’indotto. Che negli ultimi anni non se la sta passando bene.

«Oggi a Mirafiori – continua Mannori – ci sono 2.500 lavoratori in carrozzeria, 7.000 agli enti centrali e 400 alle presse. In tutto parliamo di 10.000 lavoratori, quando vent’anni fa erano almeno il doppio. L’indotto patisce di più, perché almeno la casa madre gode degli ammortizzatori sociali. Si parla di 30.000 persone senza più lavoro.»

L’operazione di “apertura” di Mirafiori agli esterni potrebbe essere effettuata anche con l’aiuto di contributi statali, sebbene al momento Stellantis non sia tra le aziende che avranno accesso ai fondi del PNRR e addirittura non ci sono stati incontri tra Tavares e il presidente del consiglio Mario Draghi, almeno non in via ufficiale. Questo non è un dato positivo, dal momento che stiamo parlando di una realtà che è importante per tutto il Paese, e il Governo non può non occuparsene.

Poi c’è la grande partita della riconversione in auto elettriche. Al momento a Mirafiori si produce già la 500 elettrica, ma il passaggio prevede al momento l’impiego di 7.000 persone. Anche questa soluzione sembra non convincere i sindacati, perché «finora – spiega Mannori – la riconversione all’elettrico non ha aumentato i posti di lavoro. Anzi il contrario. Quello che lascia perplessi è che davanti a un processo di deindustrializzazione a tutti gli effetti la politica nazionale non stia intervenendo».

Il rapporto tra FIAT e Torino. Marco Revelli: “Città e fabbrica si devono molto a vicenda. A Mirafiori tecnica dell’ultra spezzatino”

Al centro del dibattito ancora una volta torna il rapporto tra la storica fabbrica torinese e lo stato italiano.

«La paura – dice lo storico e scrittore Marco Revelli – è che vogliano fare di Mirafiori una specie di incubatore di piccole e medie imprese. Insomma è la tecnica dell’ultra spezzatino. È un modo di trasformare le attività produttive tipiche del capitalismo, che è già stata utilizzata in altri contesti. Dove c’erano insediamenti produttivi si organizzano spazi residenziali. Certo a Torino non sarebbe possibile, perché Mirafiori rappresenta il 10% della superficie di Torino. Ma questa sarebbe una soluzione intermedia».

La vicenda di Mirafiori, simbolo della Torino operaia degli anni Sessanta e Settanta, ma anche del boom economico, attraversa la storia recente d’Italia e negli ultimi anni è stata sempre meno protagonista. «Torino era la capitale industriale ed operaia», dice Revelli. «La città e la fabbrica si sovrapponevano. Io sono arrivato in città alla metà degli anni Sessanta e ci lavoravano 130.000 dipendenti. Ognuno di loro aveva una famiglia di almeno due membri, e questo significava che almeno 300.000 persone ruotavano attorno a quella realtà industriale. Era il baricentro della città, ma io l’ho vista lentamente morire con la fine del fordismo, a partire dall’autunno 1980, quando in 23.000 vennero buttati fuori e non sono mai rientrati. Da lì in poi è progressivamente diventata quella che è oggi, cioè un contenitore vuoto, mentre prima era una realtà che dettava i ritmi sociali e politici della città. La riconversione dell’automotive comunque dimezzerà i posti di lavoro, che sono già stati falcidiati. Ha iniziato Marchionne con la fusione con Chrysler e lanciando il Progetto Italia, che chiese ai dipendenti di approvare promettendo uno sviluppo che in città non c’è stato».

Che oggi l’azienda della famiglia Agnelli (che a Torino chiamano solo “la famiglia”) sia sempre meno piemontese è un dato di fatto, e per qualcuno il legame con la città sabauda potrebbe essere rescisso senza problemi. Ma per i torinesi non è così. Il legame non può essere troncato in modo così semplice, pur essendo stato negli anni a tutti gli effetti un rapporto di amore e odio.

«Torino ha dato molto a quella famiglia», continua Revelli, «che a sua volta ha dato molto in termini di lavoro al capoluogo piemontese. Ma l’ha anche inquinata e occupata. È vero che la FIAT dava posti di lavoro, ma Torino le ha anche dato dei vantaggi. Inoltre la FIAT ha ricevuto anche finanziamenti pubblici, e stiamo parlando di cifre gigantesche. Il Governo in questo caso non deve essere solo un bancomat di imprese, ma può intervenire ponendo dei vincoli. Ricordiamo che la FIAT e Torino hanno avuto un legame doppio e molto forte, che è passato dall’investimento nell’editoria attraverso l’acquisto del giornale La Stampa, fino alla Juventus degli anni Settanta, quando la dirigenza preferiva calciatori meridionali come Causio e Anastasi, per creare un sentimento di immedesimazione da parte dei lavoratori del Sud nella squadra di calcio della famiglia Agnelli».

Del resto per anni a Giovanni Agnelli è stata attribuita la frase: «Ciò che va bene per la FIAT, va bene per l’Italia», che però lui stesso ha smentito e ricorretto in un’intervista a Gianni Minoli, dove disse: «Quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia».

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Photo credits: torinooggi.it

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