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Giancarlo Dall’Ara, Associazione Nazionale Alberghi Diffusi: “Il nostro è un turismo orizzontale, non verticale come gli hotel”
Uno sguardo ravvicinato a un tipo di struttura ricettiva nato in Italia che sta facendo scuola in tutto il mondo: l’albergo diffuso, un modello per il turismo post COVID-19.
Cos’è un albergo diffuso? Per capire, si può raggiungere un pugno di case sull’Appennino tosco-romagnolo, nella provincia di Forlì-Cesena, ai margini del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Siamo nella valle del Montone, lungo la strada tutta curve che, attraverso il passo del Muraglione, collega Firenze a Forlì.
Quel borgo con radici medievali si chiama Portico di Romagna; ha 315 abitanti e fa parte del comune sparso di Portico e San Benedetto, abitato – inclusa la terza frazione, Bocconi – da 774 persone. Proprio qui, secondo la leggenda, Dante Alighieri si sarebbe preso la celebre cotta per Beatrice Portinari, perché il padre di lei, Folco, aveva una casa estiva in paese (tuttora esiste Palazzo Portinari). Per secoli la zona è stata in territorio fiorentino, finché nel 1923 l’egocentrico Mussolini – nato nella vicina Predappio – “traslocò” l’intera area nel Forlivese: per far sgorgare la sorgente del Tevere, “il fiume sacro ai destini di Roma”, nella “sua” zona. Ma questa è un’altra storia.
La storia che interessa a noi racconta l’impresa che ha trasformato Portico, paesino assai grazioso ma non celebre (come tanti altri della nostra splendida Italia “minore”), in una meta turistica più nota agli stranieri che agli italiani. Infatti qui nel 2019, prima dell’emergenza COVID, hanno soggiornato – da alcuni giorni a un paio di settimane – circa undici turisti per ognuno degli abitanti: 3.560 in un anno, provenienti, oltre che dall’Italia (una minoranza), da 34 Paesi, inclusi Giappone e Nuova Zelanda. Tanto che una delegazione di albergatori giapponesi, con strutture in piccoli villaggi, è venuta qui per imparare la “ricetta”, replicata poi dalle loro parti. Ovviamente, nei fine settimana arrivano anche un po’ di italiani, inclusi molti motociclisti che amano questa strade di montagna.
All’origine del concetto di albergo diffuso: Al vecchio convento, a Portico
La ricetta del successo? Mica è segreta. Porta la firma della vulcanica famiglia di Marisa Raggi: lei (la più vulcanica di tutti), classe 1954, e il marito Gianni Cameli, del 1946; due figli, entrambi chef, Matteo e Massimiliano; quattro nipoti; Camilla e Ulla, le mogli (danesi, guarda caso capitate qui per turismo) dei figli.
Marisa racconta volentieri come hanno ridato vita a Portico grazie al suo albergo diffuso Al vecchio convento, con il ristorante omonimo. “Non sono mica gelosa!”, dice, ridendo, col suo bell’accento romagnolo. Gli ingredienti? Il recupero di alcune case del paese trasformate in “camere”; la capacità di mantenere vivo il borgo con suoi abitanti, la storia e le tradizioni, in modo da garantire che gli ospiti si sentano dentro una comunità vera; la cura e la tutela dei prodotti e sapori locali; l’amore per la propria terra.
Tutto è partito da un primo ristorante in via Roma, quella centrale. Marisa e Gianni l’hanno inaugurato da giovanissimi, nel giorno di Pasqua del 1975: erano ragazzi (lei del posto, lui dei paraggi) appena sposati, tornati in paese dopo un anno di lavoro nello smog di Milano (“Ho visto che cadeva la neve grigia e ho detto a Gianni: dai, torniamo a casa”, ricorda lei).
Il ristorante è stato affiancato – nel giro di otto anni – dall’hotel, recuperando un convento in disuso; poi, con altre stanze nel paese, è nato l’albergo diffuso. Insomma, questa simpatica coppia è stata una pioniera e ora, con lo stesso ottimismo di allora, affronta questo periodo non facile in vista del rilancio.
Il successo del modello nel disinteresse di Stato e regioni
Il loro successo lo riconosce pure Giancarlo Dall’Ara, docente di marketing turistico, che nel 1998 ha lanciato il modello “albergo diffuso”, oggi adottato in altri cinque Paesi europei più il Giappone, e imitato in decine di altri. È presidente e fondatore dell’Associazione nazionale Alberghi Diffusi (ADI): “Noi stiamo dentro i paesi, in mezzo alla gente”, spiega. “Siamo un po’ casa, un po’ albergo. Gli alberghi diffusi spingono al recupero e all’utilizzo di vecchie case che altrimenti rischiano l’abbandono. In una c’è la reception, in un’altra il servizio ristorante-bar. Nelle altre gli alloggi. Si sviluppano in modo orizzontale. Per funzionare hanno bisogno di una comunità vera attorno. Tutta un’altra cosa rispetto agli hotel che chiamo verticali, distaccati dal resto”.
Una formula così indovinata da avere le risorse per riprendersi dai lockdown: “È un tipo di hotel perfetto per il dopo-COVID, perché garantisce anche più sicurezza e tranquillità. Insomma, è un modello per il futuro. Nove alberghi su dieci sono aperti sempre. Piacciono agli stranieri, più della metà della clientela”.
Che cosa accadrà dopo l’emergenza sanitaria, con le sue ricadute economiche? Dice Dall’Ara: “Il COVID-19 ha interrotto una lunga serie di anni di crescita. Oggi in Italia gli alberghi diffusi che rispettano gli standard fissati dall’associazione sono circa 140; un altro centinaio si avvicina al modello. Proprio per le loro caratteristiche possono riprendersi bene. Certo, gli enti pubblici e lo Stato dovrebbero accorgersi di noi”.
In che senso? “Gli alberghi diffusi hanno ricevuto pochissimi ristori. Però non vogliono fondi pubblici. Se ci sono, meglio. Tuttavia chi li gestisce è abituato a contare su se stesso: tanto che nel 2020 una decina di hotel è stata ampliata. Semmai vorrebbero essere riconosciuti dalle regioni, delegate al settore del turismo, con regole uniformi”.
Invece che cosa succede? “Solo due regioni hanno realizzato una guida dedicata al settore. Altre ci ignorano, o hanno regole assurde. In Puglia, per esempio, sono stati definiti alberghi diffusi pure i centri di accoglienza per migranti. In Friuli-Venezia Giulia un albergo diffuso può comprendere case sparpagliate in più comuni, in un raggio di parecchi chilometri. Abbiamo chiesto ai governi di invitare le regioni a uniformare le norme. Nessuna risposta, con contraccolpi anche nelle piccole realtà locali”.
La ricetta degli alberghi diffusi: come e perché funzionano?
Marisa Raggi, al timone di un hotel associato all’ADI dal 2007, è d’accordo: “Qui a livello regionale si propaganda solo la Riviera adriatica, come se in Emilia-Romagna non esistesse l’Appennino e ci fossero soltanto bagnini. Ma va’ là! Qui in paese i depliant per illustrare le bellezze del territorio ho dovuto farli a nostre spese, con l’aiuto di storici locali; altrimenti, campa cavallo. Serve solo l’accoglienza, la cosa più banale, ma non c’è”.
Lei però ci sa fare. Può accogliere fino a una quarantina di ospiti. Il cuore di tutto è l’ex convento settecentesco affacciato sulla valle, col ristorante che propone piatti della tradizione, più o meno rivisitati dai figli chef, e una ricca enoteca. Qui si può trovare un gruppo di giapponesi che chiacchiera con una comitiva di signore neozelandesi o americane; magari mentre un gruppo di danesi si prepara a frequentare un corso di ballo.
“Abbiamo differenziato la nostra offerta. Per esempio, da ventun anni promuoviamo una piccola scuola di lingua italiana, ospitata nella canonica, e collaboriamo all’estero con gli Istituti italiani di Cultura e le associazioni Dante Alighieri. Gli studenti frequentano i corsi di mattina e al pomeriggio possono svolgere varie attività, le stesse che offriamo agli altri”.
Quali? “Corsi di pittura o ceramica, gestiti da un artista, Marco Raggi, e da una ceramista, Lucia Gennaretti, residenti in paese. Poi i corsi di cucina: alla fine diamo anche un diplomino. Gli stranieri ci vanno matti. Insegniamo, per esempio, a preparare la pasta fatta a mano o il pane e la pizza, cotti nel forno a legna. Poi ecco la raccolta di funghi nei boschi e quella di verdure negli orti. Matteo e il suo babbo portano gli ospiti a tartufo sulle colline, con i nostri cani lagotti. Proponiamo anche visite guidate alle cantine, degustazioni, incluse quelle in via Roma con cuochi di tutto il mondo, escursioni nelle città vicine – come Ravenna o Faenza, fino a Bologna – e nel parco”.
Insomma, funziona benissimo, quando non c’è il COVID-19. “Ma funziona, eccome! Alla vigilia del disastro avevo tutto il 2020 prenotato da marzo a novembre. Se ci penso…”.
Ristori esigui, credito negato, “ma si va avanti”. E l’albergo diffuso fa scuola in tutto il mondo
Insomma, Marisa non si ferma. Certo, un po’ più di sostegno pubblico non guasterebbe. Nel 2020 lo Stato ha risarcito 20.000 euro, una minuscola parte del loro fatturato perduto. Nel 2021 ancora niente. Ci sono pure sei dipendenti – alcuni sono ex migranti – in cassa integrazione (“I soldi li anticipo io perché i tempi li conosciamo”, dice). A dire il vero, ha chiesto un prestito di 30.000 euro a una banca. “Sapete che cosa mi hanno detto? Che, nell’anno del COVID-19, hanno ricevuto l’ordine di non finanziare le attività in perdita”. Quindi? “Beh, le banche facevano così anche cinquant’anni fa, quando abbiamo iniziato. Mica mi perdo d’animo, si va avanti”.
C’è da crederci. Infatti nel frattempo la famiglia di Marisa ha recuperato un piccolo, antico mulino lungo il fiume, dove macina farine della zona per vendere il pane in un paese poco più sotto. Hanno realizzato una biblioteca con ingresso libero nell’ex negozio del fabbro, dove sono raccolti tantissimi libri in varie lingue, donati dalla gente del posto e dai turisti (si possono portare a casa, tanto ne arrivano altri in continuazione).
Il figlio Massimiliano ha inaugurato con la moglie l’Osteria Caffè del Vecchio convento, con spaccio, in Danimarca, a Odder, sfidando la pandemia. E fanno proseliti: a Koshigaya, non lontano da Tokyo, una ragazza giapponese che ha imparato a cucinare a Portico gestisce il Vecchio conventino. “Portiamo il Vecchio convento nel mondo”, aggiunge Marisa. “Però io non faccio mica niente di eccezionale, eh. Faccio solo amare alla gente quello che amo io. Perché Portico è un paese come mille altri, ma ti fa sentire a casa!”.
Dice poco, di questi tempi.
Foto di copertina: Campagnatico, Maremma. Credits: www.alberghidiffusi.it
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