Giurisprudenza non apre più tutte le porte

Per molto tempo, “il figlio avvocato” è stato il sogno di molti italiani: in certi casi per il desiderio di perpetuare una tradizione di famiglia, in molti altri per la speranza che il conseguimento del titolo professionale fungesse anche da ascensore sociale. Fino ai primi anni Duemila, la prospettiva di accedere a una delle professioni […]

Per molto tempo, “il figlio avvocato” è stato il sogno di molti italiani: in certi casi per il desiderio di perpetuare una tradizione di famiglia, in molti altri per la speranza che il conseguimento del titolo professionale fungesse anche da ascensore sociale.

Fino ai primi anni Duemila, la prospettiva di accedere a una delle professioni giuridiche classiche – avvocato, notaio o magistrato – induceva moltissimi diplomati italiani a iscriversi alle facoltà di Giurisprudenza, sostenuti nella loro scelta da genitori pronti a mantenerli agli studi anche durante gli anni successivi alla laurea, fino al superamento dell’esame di abilitazione o del concorso.

Le alternative, per chi non tentava la strada di una delle tre professioni tradizionali o vi rinunciava, erano comunque soddisfacenti: la laurea in Giurisprudenza preludeva in molti casi a una carriera in una banca, in una compagnia di assicurazione o nella Pubblica Amministrazione.

Negli ultimi dieci anni, gli studi giuridici hanno perso la loro capacità attrattiva: dal 2006/2007 al 2016/2017 il numero degli iscritti al primo anno delle facoltà italiane di Legge è crollato da 29.000 a 18.000 (-38%); nel periodo compreso tra gli anni accademici 2010/2011 e 2017/2018 il numero totale degli iscritti è sceso di 53.000 unità (erano l’11,1% del totale degli iscritti nelle università italiane; ora sono il 7,2%).

Il calo è certamente determinato dall’introduzione in alcune facoltà di un numero massimo di immatricolazioni, ma i dati numerici sono tanto ingenti – e sono maturati in un periodo tanto breve – da meritare di analizzarne le cause prendendo in esame più profili diversi tra loro.

 

Giurisprudenza: se l’abilitazione richiede più tempo dello studio

Esistono in primo luogo cause di tipo organizzativo che interagiscono con ragioni di natura economica. La laurea non è sufficiente per iniziare a esercitare una delle tre professioni classiche: l’aspirante avvocato ha l’obbligo di eseguire un periodo di pratica e deve superare un esame di abilitazione; chi vuole diventare magistrato deve superare un concorso pubblico nazionale e dopo averlo vinto deve operare per un periodo di tempo quale uditore; chi desidera fare il notaio deve svolgere la pratica, poi superare un concorso nazionale a numero programmato dei vincitori, e infine trascorrere un periodo di tirocinio presso lo studio di un collega.

In concreto questo significa che anche i laureati più preparati e fortunati impiegano normalmente, per completare il loro percorso e iniziare a esercitare la professione, un tempo anche molto superiore a quello che è occorso loro per laurearsi.

A questo si aggiunga che nelle facoltà italiane di Giurisprudenza lo studio teorico non si sposa in alcun modo con la sperimentazione dei contenuti e dei processi della pratica professionale, il che induce moltissimi laureati a frequentare corsi post-universitari. Durante il periodo di pratica forense o notarile il laureato in Giurisprudenza, avendo necessità di orari di lavoro discontinui e disomogenei per poter proseguire gli studi teorici e per poter partecipare agli esami o ai concorsi ai quali si iscrive, ottiene difficilmente una qualifica e un inquadramento professionale e consegue in pochi casi una remunerazione. Inoltre, i costi di apertura e di avviamento di uno studio legale o di uno studio notarile sono ingentissimi.

Sistemi di accesso alle professioni che aggiungono alla naturale incertezza dell’esito finale la totale imprevedibilità del tempo necessario perché esso si determini; permanenza dei laureati per un lungo periodo a carico delle famiglie; necessità di sostenere costi ingenti per la propria formazione e per l’avviamento iniziale dell’attività: ce n’è abbastanza per scoraggiare migliaia di diplomati dallo scegliere la Facoltà di Giurisprudenza. Ma non è sufficiente a spiegare l’intero fenomeno.

 

Troppi professionisti e poca domanda

Se si guarda a ciò che avviene nel sistema nel quale le professioni giuridiche si inseriscono, il fenomeno di cui trattiamo trova la sua origine anche nel rapporto tra l’offerta e la domanda dei servizi professionali di natura legale, che vede la prima decisamente sovradimensionata rispetto alla seconda. Gli avvocati italiani sono circa 250.000 (nel solo Foro di Roma ne operano tanti quanti nell’intera Francia): un numero decisamente eccessivo anche in rapporto al numero tuttora molto elevato delle cause giudiziarie che vengono avviate ogni anno nel nostro Paese, e che diventa ancora più esorbitante a fronte delle misure adottate nell’ultimo decennio dal legislatore per limitare il ricorso alla giurisdizione.

Se poi si prende in considerazione l’attività di consulenza stragiudiziale, diventa interessante indagare il collegamento tra il calo numerico degli aspiranti giuristi, la fisionomia delle imprese italiane e gli effetti della crisi sull’economia reale: un sistema imprenditoriale che ha visto morire (o trasferire altrove) numerose imprese di dimensioni medie e grandi e che ha resistito – con fatica – grazie alla presenza di un elevatissimo numero di imprese piccole e piccolissime, sottocapitalizzate e spesso destinate ad avere cicli di vita brevissimi, è un sistema imprenditoriale che esprime una domanda di servizi professionali molto scarsa, che per di più si accompagna all’aspettativa di una remunerazione altrettanto scarsa di quei servizi.

 

Non solo avvocati: la crisi dei notai

Se le conseguenze dell’ipertrofia del loro Ordine sono note agli avvocati italiani da tempo, il problema del rapporto numerico tra la domanda e l’offerta del servizio ha interessato nell’ultimo decennio anche i notai. La crisi del 2008-2009 ha ridotto drammaticamente la dimensione dei mercati sui quali le prestazioni notarili si inseriscono (trasferimenti di immobili e mutui; costituzioni di società; trasferimenti di partecipazioni e di aziende), e negli anni successivi si è passati dalla diminuzione alla stabilizzazione su livelli molto inferiori rispetto al periodo pre-crisi.

Ebbene: è vero che il numero dei notai in esercizio rimane programmato sulla base di un sistema di accesso alla professione basato sul concorso unico nazionale, ma il legislatore ha accompagnato la drastica diminuzione del numero delle prestazioni eseguite con provvedimenti normativi finalizzati all’aumento del numero dei notai in esercizio.

 

Il monopolio delle professioni legali

Per entrambe le categorie le politiche di liberalizzazione dei servizi si sono rivelate in realtà politiche di redistribuzione dei redditi. Il che sarebbe anche coerente con le necessità che i governi devono affrontare in periodi di crisi, se i risultati delle misure adottate non fossero andati nella direzione opposta, facendole fallire. L’interpretazione “all’italiana” delle regole sulla concorrenza nelle professioni (incluse quelle legali) distingue ciò che è concorrenziale da ciò che è anticoncorrenziale solo in base all’esborso monetario sostenuto dai clienti, premiando il professionista che chiede il compenso inferiore rispetto a quello che ne chiede uno più alto.

Si è persa di vista la necessità di prevenire le concentrazioni e l’insorgenza di posizioni dominanti sui mercati di questi servizi, che pure è un principio cardine del diritto antitrust: il risultato, sotto gli occhi di tutti, è il dominio dei mercati dei servizi professionali da parte di poche grandi strutture, la cui attività spesso si associa a quella – di cui si dirà a breve – di soggetti che mediano l’erogazione dei servizi stessi. Strutture professionali tanto grandi e dominanti da azzerare la libertà di scelta del cliente (altro principio dimenticato del diritto della concorrenza) e da non avere alcuna necessità, nel medio periodo, di applicare prezzi di favore ai clienti privati di quella libertà.

Si tratta di organizzazioni professionali che hanno necessità di distinguere al loro interno livelli molto diversificati di ruolo e di prestigio, alimentando l’attività ordinaria grazie alla fatica e all’abnegazione dei professionisti più giovani e meno ricchi di contatti personali che possano essere convertiti in occasioni di lavoro.

Scenari di sistema” certamente molto influenti nell’orientare i nostri studenti verso ambiti professionali che non li subiscono; a meno che desiderino seguire le orme di Antonio Bonocore, protagonista del film Il tuttofare, il quale accetta – pur di continuare a perseguire il sogno dell’avvocatura – di eseguire qualsiasi tipo di prestazione (gratuita, ovviamente) a servizio del suo dominus, fino al gesto estremo di sposare l’amante di lui per farle conseguire la cittadinanza.

 

La legge ai tempi di Google

Ma non basta ancora: rimangono da indagare le ragioni socioculturali dell’allontanamento dagli studi giuridici. L’utilizzo massiccio dei motori di ricerca ha fatto esplodere nei potenziali utenti dei servizi professionali legali la presunzione del fai da te, a cui fa seguito una divulgazione di massa delle presunte conoscenze attraverso i social media. Ne consegue una diffusissima, e anche aggressiva, svalutazione della figura del professionista che ha seguito il tradizionale percorso di formazione: perché si dovrebbe avere considerazione di uno che impiega anni per imparare quello che si trova in rete in pochi minuti?

È un problema che provoca una incalcolabile perdita della qualità dei servizi e delle conoscenze che dovrebbero essere alla loro base, ma che non riguarda solo le professioni legali; anzi, diventa decisamente più pericoloso manifestandosi in altri settori, in particolare in quello medico-sanitario. Ma per le professioni legali c’è un’insidia in più: l’avvocato, il notaio e il magistrato esercitano le loro attività o in seno allo Stato, o a immediato contatto con lo Stato e le sue emanazioni.

I magistrati e i notai esercitano direttamente funzioni dello Stato loro affidate; gli avvocati consentono con il loro lavoro l’esercizio di una funzione dello Stato quale è l’amministrazione della Giustizia: la scarsa attrattiva delle facoltà di Giurisprudenza ha molto a che fare con il discredito, che in certi casi diventa autentico disprezzo, che si coltiva nei confronti di tutto ciò che è pubblico. Si tratta di un sentimento trasversale per età, per estrazione culturale e geografica, al quale non è estraneo nemmeno il ceto politico, e che è diventato capace di incidere sulle scelte dei decisori.

 

La giurisprudenza digitale e la disintermediazione apparente

Alcuni dei fattori di crisi degli studi giuridici fin qui indicati trovano la loro sintesi in un ulteriore, più recente, fenomeno: la mediazione dei servizi professionali legali che si avvale dell’innovazione digitale.

Tradizionalmente tra il cliente e l’ottenimento di una sentenza favorevole si collocano in posizione intermedia la figura dell’avvocato e quella del magistrato; tra il cittadino e l’acquisto di una casa si pone in posizione intermedia la figura del notaio. Per chi pensa che i loro servizi possano essere procurati con il fai da te e desidera fare a meno di loro in quanto emanazioni dello Stato, e quindi pretende di accedere ai servizi che essi prestano senza remunerarne il valore in misura adeguata, il rimedio ideale è rappresentato dalle piattaforme che – in luogo della sbandierata disintermediazione di quei servizi – si limitano a spostare di posizione gli elementi che concorrono necessariamente alla loro prestazione. Il cliente “vede” direttamente la prestazione, e la piattaforma agisce quale nuovo mediatore tra la prestazione e il professionista che la eseguirà, scelto da un algoritmo e non dal cliente, remunerato nella misura decisa da chi amministra la piattaforma e non in base all’accordo tra lui e il cliente.

Si scopre, mettendo in fila tutte le ragioni evidenziate del crollo numerico degli iscritti a Giurisprudenza, che verosimilmente il numero attuale (o uno persino più basso) è congruo rispetto al numero di coloro la cui aspettativa è far seguire al proprio percorso di studi una reale attività professionale.

All’interno delle categorie professionali coinvolte, la tentazione può essere quella di accogliere la notizia con soddisfazione: meno laureati in Giurisprudenza significa meno soggetti con cui competere in un esame o in un concorso, e meno concorrenti nell’esercizio della propria attività. È l’entusiasmo miope di chi non vuole comprendere che il futuro delle funzioni si fonda sul futuro delle categorie che le esercitano, e che il mancato ricambio generazionale al loro interno provoca l’arresto (anzi, la discesa) dell’ascensore sociale di cui si parlava in apertura, la morte per consunzione delle professioni e la sostituzione dei professionisti con qualche app con nome MyJudge, Rogitop o il più accattivante Lawyeah!, che la fantasia di qualche startupper non faticherà a lanciare sul mercato. Perché studiare quando basta un dito?

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