I robot da Elon Musk a Giulio Cesare

La scorsa estate mia figlia ha trovato un lavoro particolare: aiutare l’Università di Kyoto in un progetto di sviluppo di machine learning per tradurre dall’inglese all’italiano. Contento del suo ingresso nel “mio” mondo tecnologico e sapendo come traduzione e interpretariato rimangano ad oggi una delle sfide più difficili per un robot, ho lasciato che facesse […]

La scorsa estate mia figlia ha trovato un lavoro particolare: aiutare l’Università di Kyoto in un progetto di sviluppo di machine learning per tradurre dall’inglese all’italiano. Contento del suo ingresso nel “mio” mondo tecnologico e sapendo come traduzione e interpretariato rimangano ad oggi una delle sfide più difficili per un robot, ho lasciato che facesse e imparasse senza farle domande.

La traduzione secondo i robot

A dicembre ho preparato la partecipazione a un convegno IEEE a Boston, dove ho parlato di Internet of Things e relative applicazioni in agricoltura, e questo mi ha messo in contatto con lo stesso gruppo di lavoro di Kyoto con cui mia figlia collaborava ormai da qualche mese. Ho quindi avuto modo di scoprire come il gruppo di lavoro avesse un solo “esperto umano” di questa o quella lingua, e che il robot imparasse di continuo dalle interazioni su tutte le lingue trattate: inglese, giapponese, francese, spagnolo, koreano, cinese e italiano.

Mia figlia era disturbata dal fatto che qualcuno “ritoccasse” le sue traduzioni e che lei dovesse frequentemente aggiustare le frasi tradotte per meglio rendere il senso come l’avrebbe detto un italiano in carne e ossa.  A quel punto ho provato anch’io che cosa significa collaborare con un robot: da un lato noi conosciamo inglese e italiano meglio del bot, ma le sue correzioni sono intelligenti e provocatorie. Come mai? Perché rilegge di continuo tutte le traduzioni e stima per coerenza quello che dovrebbe essere il miglior modo per rendere una frase.

Chi di noi ricorda traduzioni dal latino o dal greco al liceo – e i votacci che spesso le accompagnavano – sa che comporre un testo corretto e scorrevole che renda appieno il messaggio originale dell’altra lingua è difficile. Non avrei mai pensato che matematica, statistica e deep learning fossero utili a raggiungere questo scopo, e ora mi trovo un robot che fa esattamente questo.

Come imparano le macchine

Per capire come sia possibile dobbiamo immaginare che il nostro amico automatico debba conoscere il vocabolario (essenzialmente un database di termini e loro corrispondenti), debba conoscere la sintassi di lingua sorgente e destinataria e che debba in qualche modo capire il contesto dello scritto, il quale a sua volta indirizza il significante corretto di frasi e termini.

Dobbiamo quindi pensare che un robot possa imparare come i ragazzi a scuola. Nei primi anni si acquisisce una conoscenza mnemonica e procedurale, studiando vocabolario, grammatica, analisi grammaticale e logica. Successivamente occorre leggere e analizzare testi di poeti e scrittori per sviluppare un senso dello stile e delle convenzioni, che consentano di esprimere i concetti al meglio quando si scrive. Ancora oltre, nel percorso scolastico, si può entrare nel merito delle tecniche retoriche e di analisi letteraria per riuscire a interpretare un testo in modo approfondito.

Oggi in America molte testate usano robot per scrivere articoli di economia, cronaca e sport senza che il lettore riesca ad accorgersi che dietro a quelle righe si nascondono miliardi di linee di codice e non un giornalista in carne e ossa. Fino a oggi non avevo mai provato che cosa volesse dire avere a che fare con un robot, lavorare assieme alla macchina. Con questa occasione della traduzione per l’Università di Kyoto ho finalmente avuto modo di constatare che il lavoro è sicuramente interessante e sorprendente. Il robot non commette errori plateali, sembra più che altro uno straniero che da un lato non si esprime correttamente ma dall’altro mi ricorda le regole di grammatica e sintassi italiane alle quali certe volte contravvengo.

Le conseguenze sul lavoro: da Elon Musk a Giulio Cesare

Sia mia figlia che io abbiamo riflettuto sugli impatti di questa innovazione tecnologica sul futuro del mondo del lavoro. Se un robot arriva a scrivere articoli e traduzioni in un modo professionale quanto quello di giornalisti e traduttori di professione, quale sarà il futuro di questi lavoratori?

Mia figlia propende per risposte in linea con personaggi come Elon Musk e in certa misura Bill Gates, che vuole ridurre l’espansione dell’intelligenza artificiale o attraverso moratorie o attraverso azioni fiscali su quanto prodotto dai robot. Sicuramente l’avvento di robot collaborativi sulla catena di montaggio o nei magazzini delle imprese logistiche ha livellato e impoverito milioni di lavoratori, che oggi negli USA sono a livello di sussistenza con stipendi di circa $25.000 all’anno. È evidente che l’automazione mette a rischio una serie di professioni, dai magazzinieri agli operai, dai radiologi agli infermieri, fino ai giornalisti e ai traduttori.

Personalmente, credo che si possa anche valutare un approccio alla Giulio Cesare: in altri termini, se ognuno di noi potesse comprare uno o più di questi robot, li potremmo mandare al lavoro come gli antichi romani vi mandavano gli schiavi. Tra l’altro, visti anche gli sport e i giochi eseguiti dai robot già oggi, possiamo vedere il parallelo coi vecchi gladiatori. Nel momento in cui noi fossimo proprietari dei robot che scrivono, traducono, spostano imballi o assemblano automobili, in quanto loro padroni dovremmo partecipare ai guadagni delle imprese in cui andiamo a mettere i nostri schiavi 4.0.

Ovviamente la differenza tra gli schiavi 4.0 e quelli di epoca romana è che non si tratta di esseri umani, e di conseguenza le considerazioni etiche e morali che vietano lo sfruttamento non si applicano. Un robot non ha piani per le vacanze, non si annoia o ammala lavorando 24 ore al giorno, e in ultima analisi non ha motivi per lamentarsi. Tra l’altro il fatto che i robot fatichino a sviluppare umorismo, sarcasmo ed emozioni ci mette anche al riparo dal fatto che si ribellino.

Una politica per il domani

È difficile prevedere il futuro. In questo momento, preoccupati dell’egemonia dei pochi che possiedono capacità produttive automatizzate, i nuovi luddisti fanno bene a dare al tema la priorità assoluta. In USA il dibattito politico ha dato la colpa dell’impoverimento della classe media americana alla globalizzazione e ai paesi in via di sviluppo, ma i dati dimostrano che i robot hanno livellato gli stipendi al ribasso come e più dei lavoratori in Cina.

La speranza è che la classe politica possa pensare ad approcci innovativi in tempi rapidi, perché i robot sono di fianco a noi e sanno lavorare molto bene – senza chiedere neanche il proverbiale tozzo di pane.

 

Photo by Unsplash

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