Quello delle ripetizioni è un business che insabbia ogni anno circa un miliardo di mancati contributi. Regolarizzarlo è possibile?
Il male degli uffici stampa: prendete e copiatene tutti
Nel mondo dell’informazione si stanno affacciando anche le imprese, quelle che non producono giornali e dove non lavorano giornalisti. Le aziende che producono beni e servizi oggi si rendono conto che potrebbero comunicarsi da sole, senza l’intermediazione giornalistica. Che è poi quello che accade in tutto il mondo per la politica, dove per i leader […]
Nel mondo dell’informazione si stanno affacciando anche le imprese, quelle che non producono giornali e dove non lavorano giornalisti. Le aziende che producono beni e servizi oggi si rendono conto che potrebbero comunicarsi da sole, senza l’intermediazione giornalistica. Che è poi quello che accade in tutto il mondo per la politica, dove per i leader di partito l’uso dei social è il moderno “affacciarsi al balcone di piazza Venezia” per parlare direttamente al popolo. Le grandi aziende si stanno accorgendo della gravissima crisi dell’editoria e del giornalismo, ma non possono certo rinunciare a comunicare.
Se questa è la situazione, perché una grande azienda dovrebbe continuare a pagare un ufficio stampa interno, più due o tre uffici stampa esterni per cercare di uscire sui media tradizionali, che sono in caduta libera?
La crisi dell’editoria che avvicina la fine della carta stampata
Il mondo dell’informazione non riesce ancora a uscire dalla crisi in cui si è cacciato con l’avvento del web, ormai molti anni fa. La profezia di Philip Meyer, grande esperto di editoria Usa, che voleva l’ultima copia cartacea del New York times in uscita nel 2043, andrebbe oggi rivista in prospettiva molto più ravvicinata. I gruppi editoriali prevedono che tra due-tre anni le vendite delle copie cartacee non giustificheranno più le spese per rotative e distributori. E gli abbonamenti online ai giornali impaginati e sfogliabili (le copie in edicola che si leggono scaricandole da cellulare) non bastano a colmare il vuoto.
A essere in crisi non è solo il prodotto giornale, ma il modello stesso di informazione generalista. I siti web dei giornali mantengono alte frequentazioni grazie alla tempestività delle news, ma per allungare i tempi di lettura devono ospitare canali tematici e pagine specializzate.
Però su questo terreno non si sono mossi subito. Sul fronte dell’informazione specializzata hanno lasciato ampi spazi a una miriade di siti che si occupano di aspetti specifici dell’informazione: dallo sport al costume, dalla cultura al cibo. Questa moltitudine di presenze web fa una larghissima fetta dell’informazione online e dell’atterraggio dopo le query nei motori di ricerca, perché sono meglio posizionati per la ricerca specifica degli utenti: se cerco su Google “intossicazione alimentare”, o “allarme mozzarella”, per esempio, Google mi propone prima dei quotidiani i siti specializzati in salute alimentare, come Mypersonaltrainer o Starebene. In queste query il Fatto Alimentare arriva prima del Fatto Quotidiano.
Tuttavia, siccome l’informazione online è gratis, le redazioni web dei siti specialistici sono ridotte all’osso: girano pochi soldi e gli assunti sono pochi. Spesso è lo stesso titolare del sito (che non è quasi mai registrato come “testata giornalistica”) a seguirlo direttamente. Per ragioni di tempo e di costi, molti siti finiscono per accontentarsi di esserci su una notizia senza cercare costosi e lunghi approfondimenti. Così, il web diventa il paradiso del copia-incolla dei comunicati stampa.
L’età dell’oro degli uffici stampa: l’era del copia-incolla
Ma chi li diffonde i comunicati? Gli uffici stampa, naturalmente. Dalle questure alle regioni, dalle università alle fondazioni, dalle associazioni alle aziende, quasi tutte le organizzazioni hanno una struttura piccola o grande che si occupa della comunicazione esterna. E per questi addetti alla comunicazione, questo è il momento d’oro. Addio agli sforzi per convincere i giornalisti a “lasciare il comunicato così com’è”, a mettere in guardia chi scriveva l’articolo a “rispettare la posizione dell’azienda”, a “non stravolgerne le dichiarazioni”. Oggi non c’è più necessità di queste estenuanti trattative: le pubbliche relazioni hanno lasciato il posto alla più semplice scrittura per il web. Se è scritto in logica SEO, il pezzo va bene così e finisce copiaincollato così come è stato scritto dall’azienda su decine di siti, tutto uguale: il sogno di ogni addetto stampa.
A questo punto, che necessità hanno ancora le aziende di cercare un’intermediazione giornalistica? Se il web copia e incolla, a che cosa serve cercare il rapporto con i giornalisti? Basta essere sicuri che i siti faranno da propagatori del comunicato tal quale.
E poi c’è il dato dei contatti. Quando una pagina social come quella Facebook della Nutella ha 32 milioni di like, c’è più bisogno di qualcuno che tenga i rapporti con i giornalisti esterni oppure di qualcuno che sfami la ricerca quotidiana di novità proprio sul sito del brand? Ed ecco che le aziende, al di là dell’esempio della nota crema spalmabile della Ferrero, stanno pensando seriamente a farsi direttamente la propria informazione. Stanno pensando che non ha senso cercare di raggiungere lettori di altri, quando si hanno numeri così alti di lettori propri.
Così, proprio partendo dai numeri che fanno i siti web delle aziende, queste capiscono che possono diventare esse stesse “media company”. Producono biscotti, pasta, zucchero, birra, ma hanno la capacità di avere altissimi numeri di visitatori unici? Bene, allora: possono fare anche un loro giornale online. I lettori li hanno già, servono solo i contenuti.
Se le aziende creano i loro giornali personali
Nell’era analogica e della carta le aziende avevano i loro “house organ”, i giornali spediti a casa dei dipendenti. Erano le riviste della ditta, nate per cementare la famiglia dei dipendenti intorno alla casa comune che era il luogo di lavoro. Tipico il caso di Illustrato Fiat, che a Torino era il secondo giornale cittadino anche se non si trovava in edicola; ma questi erano media che veicolavano la comunicazione interna, dalla lettera di Natale del Presidente agli avvisi delle gare di bocce del Cral. Oggi, ci sono aziende che creano veri quotidiani tematici, che più che raccontare l’azienda e i prodotti creano informazione su argomenti che interessano ai propri utenti unici, e che naturalmente è interesse dell’azienda presidiare.
È una novità non da poco. È vero che, per restare sull’esempio Fiat, la fabbrica di auto aveva il suo quotidiano. Ma La Stampa, pur di proprietà della proprietà della Fiat, era un’azienda editoriale autonoma: il giornale degli Agnelli informava (e informa) sul panorama di cronaca, politico, economico, sportivo, diventando anche un punto di riferimento per il giornalismo italiano.
Oggi sono lontani i tempi delle guerre finanziarie per il controllo del Corriere della Sera. Oggi basta uno sviluppatore di siti per fare un giornale. Complice la proletarizzazione del lavoro giornalistico, che nei quotidiani viene pagato a 10-15 euro lordi ad articolo, il professionista dell’informazione può oggi proporsi per scrivere sui siti creati direttamente dalle aziende che sono a caccia di contenuti per tenere alta l’indicizzazione dei loro siti nei motori di ricerca.
Molto interessante è il caso del Giornale del cibo, che è il quotidiano online della Cir, cooperativa storica emiliana di servizi mensa, che confeziona articoli giornalistici sull’alimentazione e che è ormai posizionato tra i food media italiani più cliccati. Un’informazione tempestiva e approfondita su tutte le tematiche alimentari e non solo sull’azienda Cir.
L’avvento dei nuovi professionisti del brand journalism
Per fare giornali di brand la figura più adatta è sempre il giornalista. Così nasce la figura del “brand reporter” che si occupa di “brand journalism”. Invece di lavorare (sempre per stare sull’esempio food) per un sito che si occupa di cibo, il giornalista alimentare può trovare collaborazioni per un sito di un brand che persegue sempre lo scopo editoriale di informare i propri lettori su tematiche alimentari. Così quello che era un ufficio stampa interno oggi può diventare una vera e propria redazione con i propri lettori e le proprie testate.
Chiaramente, un’informazione costante per produzione di contenuti, ben indicizzata, rilanciata sui canali social dalla grande potenzialità interattiva, sale nei motori di ricerca. Così se uno cerca la frase “bevi responsabile” per sapere come comportarsi con le bevande alcoliche, finisce per imbattersi prima nel sito di birra Peroni che in quello di Birrainforma. E così via, per molte query. Molto dipende dalla capacità giornalistica della redazione. Più si avrà senso professionale e fiuto della notizia per il proprio pubblico di riferimento, più si salirà nelle ricerche web e più gente leggerà il pezzo.
A proposito di senso professionale, come la mettiamo con la deontologia? Il mondo del giornalismo non ha ancora compreso le potenzialità del fenomeno del brand journalism, e non ha ancora accettato il mescolamento delle figure dell’informazione dentro la professione giornalistica.
Anche se i freelance sono ormi il 65% degli iscritti all’Ordine dei giornalisti, non esiste ancora un Codice deontologico adeguato a una figura che per vivere deve mescolare giornalismo indipendente e lavoro in ufficio stampa, produzione di contenuti social con organizzazione di eventi per produrre altri contenuti. E soprattutto è un mondo che ha ancora molta diffidenza per il giornalista di brand. Si parla di marchettaro, di venduto, di servo delle aziende, forse dimenticando che, prima che i buoi scappino, è meglio regolare questo legittimo lavoro che nel mondo anglosassone è già una branca del lavoro giornalistico.
Certo, il problema è sempre lo stesso di quando i giornalisti lavoravano per i giornali dei proprietari delle grandi aziende, delle banche, delle aziende di Stato, o finanziati da cordate interessate (in Italia gli editori puri non sono mai esistiti). Il giornalista deve avere di fronte solo il proprio pubblico. Deve vendersi solo a quello. Non deve fare pubblicità a prodotti e nemmeno al brand che è proprietario del sito di informazione per cui lavora come brand journalist. Difficile? Può darsi. Come era difficile scrivere sulla Stampa della marca di un’auto coinvolta in un incidente stradale ai tempi di Valletta (anzi, era vietato). La sfida per il giornalista sarà mantenere ben distinto il ruolo giornale-marchio. E per l’Ordine la sfida sarà redigere carte deontologiche al passo con i tempi.
Leggi anche
In Svezia mancano esperti di mestieri antichi ma necessari alla vita moderna. In Finlandia ci sono pochissimi blogger. In Danimarca grazie all’uso indiretto di incentivi europei, c’è chi è diventato viticoltore. La Norvegia attira giovane turismo professionale grazie ai suoi stipendi alti. Gli immigrati d’oltreconfine però tornano spesso molto velocemente a casa. È il singolare panorama […]
Neppure la scaltrezza finanziaria di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca e tutore del capitalismo italiano fino al 2000 (anno della sua morte), avrebbe mai immaginato che la famiglia Agnelli un giorno avrebbe venduto il Corriere della Sera e dopo tre anni avrebbe acquistato l’irriverente la Repubblica. Eppure è accaduto. Anzi, si potrebbe coniare un titolo […]